Guarda il trailer di presentazione di Greater al Babelgum Online Film
Festival
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Rose ha il volto scavato dalla fatica, ma lo sguardo lieto di chi ha
speranza. Le sue parole, i suoi sorrisi, i suoi gesti ci introducono
nella vita delle donne e dei bambini di Kampala, toccati da quel male
che in Africa assume sempre più i connotati di una strage, l'HIV.
Ma è lei, "zia" Rose, "mamma" Rose, come la chiamano nel villaggio, la
vera protagonista di "Greater-Defeating HIV", il documentario scritto e
diretto da Emmanuel Exitu, vincitore a Cannes del premio Babelgum
(premiato in persona da Spike Lee).
Un protagonismo discreto, deciso ma mai autoreferenziale, una donna
conscia dell'importanza del suo ruolo come fondatrice del Meeting Point,
ma anche del fatto che, come lei stessa dice, la felicità per queste
persone è oltre l'orizzonte dell'aiuto che l'associazione può dare. Un
aiuto che è innanzitutto un'educazione che porta addirittura queste
donne e questi bambini, che a agli occhi del mondo sono solo i "poveri"
da "compiangere" e da "aiutare", a farsi donatori a loro volta quando, è
il momento più toccante del film, lavorano per sostenere i superstiti
dell'uragano Katrina, a New Orleans, dall'altra parte del mondo.
Un esempio, il loro, che diventa insegnamento per noi che, come conclude
Rose, possiamo "imparare a commuoverci" da queste misere e imponenti vite.
/ilsussidiario.net
intervistato il regista del film-documentario Emmanuel Exitu
*Partiamo dalla vittoria del suo documentario al Babelgum Online Film
Festival, premiato da Spike Lee: una bella sodisfazione...*
Assolutamente. Si tratta di un concorso cui hanno partecipato più di
1.000 lavori da 86 paesi. La selezione è stata veramente dura, dal
momento che c'è stata una prima scrematura dei video maggiormente
apprezzati dal pubblico e il mio è stato il più visto e votato.
I primi dieci sono stati sottoposti poi all'attenzione di una giuria
selezionata di esperti che ne ha scelti tre. Poi tra i finalisti Spike
Lee ha scelto il vincitore, e ha secelto il mio, /Greater/. Mi ha detto
che ho fatto un grande film e mi ha fatto i complimenti, ha tenuto
addosso tutta sera la collana che gli ho portato dall'Uganda, fatta
dalle donne di Kampala e mi ha detto di portare i miei saluti a Rose.
*Il documentario si chiama /Greater/. Pechè questo titolo?*
Perchè il messaggio fondamentale del film sta in una piccola domanda che
Rose ha fatto a una di queste donne malate. Quando stava malissimo le ha
detto: «Non sai che il valore in te è più grande del valore della tua
malattia?».
*Da dove nasce l'idea di scegliere questa storia come soggetto per il
suo documentario? *
È nata da un progetto chiamato Vento Project.com, che è una specie di
piattaforma editoriale che coinvolge internet, una rivista e i video, il
cui direttore è Daniele Mingucci che mi ha dato una grossa mano per la
realizzazione e il sostegno nell'affrontare questo lavoro e a cui sono
molto riconoscente.
Il nostro obiettivo era di raccontare la speranza, e l'idea di andare in
Uganda è nata dal rapporto con Arturo Alberti, il presidente dell'Avsi,
che ringrazio molto. Io avevo già avuto modo di conoscere Rose al
Meeting di Rimini. Mi sono presentato, le ho descritto la mia idea e
abbiamo legato subito, anche se lei non è una che si lascia convincere
facilmente.
Io l'avevo già sentita parlare in un incontro durante il periodo
universitario: non ricordo nulla di quello che disse, ma mi ricordo che
sono uscito piangendo: mi aveva commosso e anche al Meeting sono scese
tante lacrime perchè è proprio bello quello che racconta. Sono lacrime
non di compatimento per queste persone, sono lacrime per cose belle.
*Il documentario parla delle donne e dei bambini ugandesi afflitti dalla
piaga dell'Aids. Ci si aspetterebbe di vedere raccontata nel dettaglio
la loro situazione, la loro sofferenza, invece sembra emergere Rose come
protagonista.*
Io faccio questo mestiere da 10 anni, lavoro nella fiction, ho fatto lo
sceneggiatore freelance, ho fatto un film per la Rai e questo lavoro mi
piace. Ma il desiderio che ho è raccontare la speranza. È troppo facile
fare documentari di denuncia, anche perchè mi basta uscire di casa,
girare l'angolo per incontrare drammi e cose brutte. Non ci vuole niente.
Il problema è andare a vedere chi cambia il mondo, chi non si lascia
spaventare dal male, lo affronta e lo batte. Che segreto hanno queste
persone? Mi interessano loro, cosa sta dietro il loro agire. Nel mio
blog ho riportato una citazione del celebre regista americano John Ford.
Lui ha detto delle cose incredibili, sostenendo che quello che vale è il
volto umano. Io infatti sono un "drogato" dei primi piani, perchè dentro
il volto umano c'è l'universo.
Una volta un'intervistatrice americana mi ha chiesto se i film possono
cambiare il mondo. Sono rimasto allibito, è una domanda assurda, senza
senso. Infatti mi sono scaldato e le ho risposto «ABSOLUTLEY NOT!».
L'unica speranza per il mondo è incontrare e seguire gente come la Rose,
tutto il resto non conta.
*Un'altra cosa che mi sembra emergere è come l'interesse di questa donna
non si soffermi sui problemi della gente, in generale. La sua attenzione
è data ad ogni singolo. *
A lei non interessano i progetti, ma chi ha di fronte. Nel giro di due
ore siamo diventati amici, e io ero una "bomba nucleare", perchè lei ha
questo modo di fare che ti fa sentire importante e diventare una "bomba".
*Com'è stata la tua esperienza in Uganda?*
Tra sopraluoghi, riprese sono stato lì due settimane. La cosa fantastica
è stata questa. Io sono gasato perchè Spike Lee mi ha detto che il mio è
un gran film (tanto che io gli ho risposto di non ripeterlo altrimenti
mi mettevo a piangere!). Non faccio questo preambolo per autocelebrarmi,
ma è importante per quello che ti stò per dire. Io ho in mente questo
tipo di stile registico che non è uno stile normale, convenzionale e non
sapevo se avrebbe funzionato riprendere con due camere, girare sempre,
adottando lo stile del reportage di guerra, che prevede il non rifare
niente, non bloccare mai nessuno. La dinamica era questa: arrivava Rose
e io le dicevo: «Ok, cosa facciamo oggi? Dove andiamo?». E poi le andavo
dietro. Questo perchè ho un'estrema fiducia nel fatto che la realtà
parli. Questo tipo di linguaggio funziona molto per raccontare le cose
che emergono dalla realtà, non è agiografico.
Un'altra cosa più importante è stata questa: quando ho proposto
il progetto a Rose, lei ha ascoltato quello che le dicevo e poi mi ha
detto: «Ok, Emmanuel vieni, mi fido del tuo cuore. Sento che a te
interessa la stessa cosa che interessa me».
*Il vostro rapporto personale è stato quindi molto fondamentale, al di
là di questo film...*
Sì, ho in mente un altro episodio a questo proposito. Deve sapere che
questo video ha già vinto un'altro premio, quello del pubblico al New
York Aids Film Festival. Ed è una cosa strana, dal momento che il
mio era l'unico documentario sull'Aids in cui non si parlava del
preservativo!
Quando comunicai a Rose la mia intenzione di portare il documentario a
New York, ero molto contento, soprattutto per la pubblicità e la
promozione che avrei potuto svolgere. Lei mi guardò, con quel suo modo
che sembra quasi si vergogni, poi guardò a terra e di nuovo alla mia
faccia dandomi una "frustata" con gli occhi, e mi disse: «Ma no
Emmanuel, non preoccuparti di queste cose, tu sei più grande, non devi
aver paura. La vita non è un soffio che viene, tu sei più grande di
queste cose».
*A livello professionale, continuerai a battere questa strada,
realizzando altri documentari?*
Io ho diversi contatti, anche con la Fox, ma per fare come dico io ho
bisogno di soldi, perchè per dare maggiore ricchezza di racconto uso due
camere, e i costi raddoppiano. Quindi gli sponsor sono i benvenuti.
Nella giuria c'era Sandra Ruch, executive director dell' International
Documentary Association di Los Angeles, un'organizzazione molto grande,
che mi ha invitato in America, stupita del fatto che questo fosse il mio
primo documentario. «One shot, one kill», ho sottolineato io, come
dicono i cecchini.
Ma quello che mi piacerebbe fare è una serie di video su persone
come Rose, in cui raccontare la speranza. Quello che voglio è che la
gente, vedendo i miei lavori, abbia una sola e semplice reazione: che
gli batta il cuore.
Redazione24/05/2008
Alfred Memo è un ragazzino ugandese che ha visto davanti a sé i propri
genitori uccisi e i loro corpi tagliati come carne da macello. Che idea
della vita può farsi un bambino come lui? Che cosa può aspettarsi dal
futuro? «Le prime volte che gli abbiamo chiesto che cosa avrebbe voluto
fare da grande, ci ha detto che voleva fare il soldato, per ammazzare,
come era stato ammazzato suo padre». A raccontare la storia di Memo è
Rose Busingye, direttrice del Meeting Point International di Kampala, un
centro dove vengono accolti e curati oltre duemila orfani per guerra o
malattia, e altrettanti adulti, per lo più donne, molte delle quali
malate di Aids.
«Il nostro primo lavoro è far capire a ciascuno di questi ragazzi che la
vita ha un valore, che c`è qualcuno che li ama, e, banalmente, che
vivere è meglio che farsi ammazzare». Non vale infatti, di fronte a
Memo, l`obiezione che andando a fare il soldato rischia di essere ucciso
per primo; a questo risponde dicendo «e allora?». «Quello di Memo
sembrava veramente un caso disperato, e io stessa ero convinta di averlo
perso. Invece sono andata avanti, continuavo ad andare a trovarlo, a
scuola, a casa, per fargli vedere che c`ero, che veramente mi stava a
cuore. Non si può dire una volta sola che la vita ha un valore, se poi
non si affronta la fatica e il lavoro di continuare a far vedere che
questo è vero. E io insistevo, ripetevo a Memo che adesso aveva una
nuova famiglia, in cui era voluto bene». Ora Memo non parla più di fare
il soldato; poco tempo fa in un disegno ha espresso quello che vuole
fare in futuro: ha disegnato una casa grande, per i bambini che hanno
perso i genitori come lui. «Un giorno - racconta ancora Rose - ho
organizzato una gita al Nilo per i bambini, e avevo portato delle
pentole per cucinare. Quando siamo arrivati, i ragazzi si sono buttati
tutti in acqua: continuavano a giocare e divertirsi, e non volevano
mangiare. Alla fine ho chiesto loro: "e adesso cosa facciamo con tutto
questo cibo?". È stato Memo a rispondere: "non sprechiamolo. Adesso
telefono a casa e ci organizziamo per portarlo ai bambini che non hanno
da mangiare". Questo è Memo, quello che diceva di volerne ammazzare
almeno dieci, come era stato ammazzato suo padre».
Anche la vita di molte donne malate di Aids è cambiata al Meeting Point
International. Tra di esse c`è Vicky, autrice di una lettera bellissima,
che l`associazione Avsi, di cui il Meeting Point è partner per l`Uganda,
ha scelto come testo per lanciare lo scorso anno la campagna "Tende di
Natale", una raccolta di fondi che l`Avsi organizza ogni anno per
sostenere le proprie opere nel mondo. In questa lettera racconta la
propria storia di malata di Aids, abbandonata dal marito, sola e con i
figli che non potevano più andare a scuola: «Non avevamo amore da
nessuna parte del mondo. Non sapevo più se Dio esisteva davvero»
racconta Vicky. «Nel 2001 qualcuno mi ha indirizzato al Meeting Point,
dove ho trovate donne che facevo fatica a credere potessero vivere in
quel modo pur essendo malate di Aids, tale era la gioia che portavano
sul viso». Ora Vicky sta meglio, è volontaria al Meeting Point, e i suoi
figli hanno ripreso ad andare a scuola.
«Di storie come quella di Vicky cene sono molte altre», racconta ancora
Rose. «Sono storie di donne rinate, e anche di donne coraggiose. Come ad
esempio Jovine, una donna di quarantasei anni. Una volta c`era qui un
gruppo di giornalisti, che dopo avere visto queste donne rimasero molto
colpiti e commossi, e pensarono di fare un gesto per aiutarle:
comprarono cinque scatole di preservativi. Jovine prese in mano quelle
scatole e disse: "c`è a casa mio marito che sta morendo, cosa me ne
faccio di queste? I miei figli non hanno da mangiare, a cosa mi servono
queste scatole?". Li affrontò con un coraggio che nemmeno io avrei
avuto». E qui c`è il segreto del "metodo" di Rose: non c`è nessuna
risposta preconfezionata al dramma di queste persone. L`unica strada è
quella di voler bene, di educare al valore della vita, e di
responsabilizzare. Senza questa educazione, non c`è nulla che valga.
«Anche il discorso della prevenzione» spiega Rose «non ha senso, se non
li aiuti a scoprire il valore della vita. Altrimenti i nostri ragazzi -
che hanno storie simili a quella di Memo - quando parliamo loro di
prevenzione ci dicono: "e perché? Come noi siamo stati infettati, così
anche noi infettiamo gli altri". Partono da una considerazione della
vita che è assolutamente pari a zero, sia la loro che quella degli altri».
Il metodo di Rose è vincente, anche dal punto di vista medico. Se ne
sono accorti anche negli ospedali di Kampala. «Un po` di tempo fa -
racconta Rose - l`ospedale di Stato sperimentò gratuitamente alcuni
farmaci contro l`Aids, e presero un po` di persone da vari centri. Da me
presero solo cinque persone, tra cui anche Jovine. Ebbene, le mie cinque
persone furono le uniche a guarire. Allora dall`ospedale mi chiesero
altre persone, e anche queste miglioravano. Non capivano il perché, e
pensavano che, essendo io amica degli italiani, mi arrivassero alcune
cure speciali dall`Italia.
Io ho provato a spiegare che il punto è dare
un motivo per cui valga la pena lottare contro la malattia. Loro mi
dicevano: "sì, è molto bello", ma come se fosse qualcosa di marginale.
Volevano numeri per fare uno schema da applicare: tanti medicinali,
tanti preservativi etc. Ma da noi non c`è uno schema».
I malati al Meeting Point, dunque, trovano un motivo per cui valga la
pena guarire. Perché questo accada vengono organizzati gruppi di dieci
pazienti, che si ritrovano per affrontare insieme le cure.
Se una volta ce n`è uno stanco, che non vorrebbe andare avanti col trattamento, gli
altri lo sostengono e lo incoraggiano. Oppure c`è chi inizia la cura e ha effetti collaterali pesanti: altri lo aiutano, anche semplicemente dicendo «è successo anche a me, poi è passato». «E una catena di aiuto, in cui sono i malati stessi ad essere responsabilizzati - spiega Rose - non puoi dar loro solo le medicine, anche perché spesso non le prendono».E la responsabilità che matura in queste persone può raggiungere punte veramente commoventi. Come per Memo, che vuol dar da mangiare agli altri bambini e costruire una casa per gli orfani.
O come accadde ai tempi dell`uragano Katrina. Allora Rose parlò di
questo evento con i malati del Meeting Point, leggendo un testo e
facendo con loro un minuto di silenzio. «Ma un malato, che pesava circa
trenta chili, si alzò dal fondo e mi disse: "con me non avete fatto solo
un minuto di silenzio, mi avete anche aiutato concretamente". Allora
decisero di raccogliere un po` di soldi, e in quattro settimane misero
da parte circa mille euro.
C`era un giornalista scandalizzato che disse di non mandare negli Usa quei soldi, che servivano più a loro. Gli rispose una delle nostre donne, dicendo: "noi vogliamo amare come siamo stati amati, e il cuore è internazionale". E da questa frase, tra
l`altro, che è nata l`idea di chiamare il nostro centro Meeting Point International». Un punto d`incontro nel centro dell`Africa, dove si
rinasce, e da dove si può addirittura decidere di mandare un po` di soldi negli Stati Uniti d`America.
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