Giovannino Guareschi - gio 1 mag
Tratto da Il Sussidiario.net il 1 maggio 2008
Quando Giovannino Guareschi nacque, esattamente cent’anni fa, il capo dei socialisti di Fontanelle di Roccabianca, amico del padre di Guareschi, mostrò il neonato da una finestra della Casa del Popolo, esclamando a gran voce: «Compagni, oggi è nato un nuovo campione dei socialisti!». La previsione non fu proprio delle più azzeccate; ma, nonostante l’errore, il focoso sindacalista Giovanni Faraboli si guadagnò un posto di rilievo nella memoria del piccolo Giovannino, così da diventare l’archetipo del ben noto Peppone.
L’altro personaggio che ebbe uno spazio importante nella vita di Guareschi era anch’egli un omaccione, «alto due metri e con due mani come due badili»; ma in questo caso si trattava di un prete, don Lamberto Torricelli, parroco di Marore, che per un’estate diede gratuitamente ripetizioni di latino al piccolo Giovanni. Da lui deriva il modello di don Camillo: un modello un po’ più imponente del Fernandel cui tutti pensano, che con l’originale ha ben poco a che fare.
Entrambi i personaggi fanno dunque parte della memoria e dell’esperienza personale di Guareschi; egli infatti non attinse ad altro che alla propria vita e alla propria terra per costruire i racconti che lo hanno reso famoso. Niente letteratura, che sprezzantemente definiva, come anche i suoi personaggi, «mercanzia».
La naturale perfezione del «mondo piccolo» creato da Guareschi è dunque una sorta di miracolo letterario, uno dei tanti che attraversano la nostra storia della letteratura. Uno di quei casi, cioè, in cui i critici possono darsi un bel daffare per trovare motivazioni, analisi, strutture, ma non ce la fanno a trovare la quadra.
Quell’opera è venuta fuori così, e non lo si riesce a spiegare fino in fondo. E il più delle volte, soprattutto per le opere della letteratura contemporanea, i critici hanno poi buon gioco a relegare il tutto nella categoria della cosiddetta “letteratura minore”.
Minore o no (anzi, certamente no), quella letteratura però piace, o meglio, appassiona. Perché riesce a fare la cosa più importante che possa accadere ad un libro: immortalare in maniera perfetta la realtà di cui parla. Senza sbavature, senza aggiunte o dimenticanze, senza dare l’impressione che ci sia uno stacco tra ciò di cui si parla e il modo in cui se ne parla. «Sì che dal fatto il dir non sia diverso», come direbbe Dante.
E poi c’è la materia, che piace. Il contenuto dei racconti di Guareschi è la realtà vera dell’Italia del dopoguerra. Con quel misto di tragedia e di commedia che solo chi guarda attentamente la realtà sa cogliere. E che invece, tanto per fare un esempio, il neorealismo contemporaneo ai racconti di don Camillo e Peppone non ha saputo capire, limitandosi a parlare delle tragedie “da denunciare”. Guareschi vuole solo raccontare, perché la realtà che gli fiorisce intorno gli piace, e non gli sembra che debba essere corretta e letterariamente aggiustata.
Gli piace quel clima di onesto scontro tra i due nemici-amici, gli piace il grande fiume un po’ buono e un po’cattivo, gli piacciono i campi, i fossi, le chiese, i campanili, le biciclette, le case, le osterie, le partite a carte. Tutto.
E allora, ricordandone i cento anni dalla nascita, non aggiungiamo altro, e lasciamo che sia lui a parlare e a spiegarci perché vale la pena raccontare quel “mondo piccolo” che anche noi vogliamo ricordare.
Uno adesso dice: fratello, perché mi racconti queste storie?
Perché sì, rispondo io. Perché bisogna rendersi conto che, in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte, possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un’aria che va bene per i vivi e per i morti, e là hanno un’anima anche i cani. Allora si capisce meglio don Camillo, Peppone e tutta l’altra mercanzia. E non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la zucca a un altro, ma onestamente, però: cioè senza odio. E che due nemici si trovino, alla fine, d’accordo sulle cose essenziali.
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