martedì 12 ottobre 2010

APPUNTI SCUOLA DI COMUNITA DON CARRON 6 OTTOBRE 2010

martedì 12 ottobre 2010

Testi di riferimento: «Vivere è la memoria di Me», Assemblea Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione (La Thuile 2010), suppl. Tracce-Litterae Communionis, n. 8 (2010);
«…un dì si chiese chi era…», Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di Cl
(Rho 2010), Tracce-Litterae Communionis, n. 9 (2010).
• Canto “Il monologo di Giuda”
• Canto “Amazing Grace”
Riprendiamo il nostro cammino dopo l’estate. Vi dico solo una parola per incominciare.
Il tentativo
che facciamo in questa Scuola di comunità in collegamento video è soltanto di offrire un’occasione per cercare di imparare un metodo di lavoro sul testo e sulla vita, che ci aiuti a giudicare
l’esperienza che facciamo perché – come abbiamo detto tante volte – non c’è esperienza senza giudizio, e senza esperienza noi non impariamo dalle cose che accadono, sono vane per la vita, sono
inutili, non lasciano traccia. Tante cose ci capitano, ma non lasciano traccia perché – come ci ha insegnato sempre don Giussani –l’io cresce soltanto vivendo un’esperienza, e l’esperienza non può
essere soltanto provare una reazione, un sentimento, uno spunto, ma è un giudizio. E questo è decisivo per capire il testo, perché non si capisce il testo, come a volte si pensa, soltanto combinando le parole; si capisce il testo paragonandolo con un’esperienza, perché il testo che propone il don Gius è la comunicazione diun’esperienza, e la capisce soltanto chi fa esperienza. E
questo è quello che deve emergere nel lavoro insieme durante la Scuola di comunità:
non riflessioni in astratto, perché tutti possiamo farne tantissime e non servono, ma testimonianze reali di che cosa abbiamo imparato dall’esperienza per capire il testo e dal testo per capire l’esperienza. Per questo, ripeto, per aiutarci tutti, per non perdere tempo (perché il tempo si fa breve), occorre essere precisi.
Ricordo a quanti interverranno di fare interventi brevi, di essere precisi – come dicevo –, di non dilungarsi troppo, di andare all’essenziale in modo tale che possiate essere compresi da tutti. Se uno ha voglia di intervenire, si prepari bene perché questo fa parte del lavoro: capire l’esperienza che uno ha fatto e quindi saperla esprimere adeguatamente fa parte di questo lavoro. Non veniamo qua a dilungarci senza capo né coda, perché questo vuol dire che non abbiamo fatto il lavoro, che stiamo improvvisando. E questo non ci serve. Allora, si incomincia.






Io sono rimasta colpita quest’estate da due parole che tu hai detto e che sono l’inizio e la fine del librettino su cui stiamo lavorando, e dalla vicinanza tra queste due parole: conversione e
contemporaneità. Perché a me sembra che indichino l’una la natura dell’altra, perché la conversione è uno sforzo moralistico, se non è cedere a una presenza che mi è contemporanea, a
una presenza ora; e, d’altronde, della contemporaneità di Cristo parliamo solo in termini emotivi,se non determina in noi un desiderio di cambiamento. Perciò mi ha fatto impressione che io non
posso più parlare di conversione senza contemporaneità e viceversa, tanto che a me ha molto impressionato il titolo del librettino: «Vivere è la memoria di Me», perché tante volte parliamo di vivere la memoria come se fosse una premessa e non fosse tutto. Questa è la prima cosa. La seconda è che io mi accorgo che Cristo è contemporaneo a me perché io divento contemporanea alla realtà che vivo, sono finalmente presente al presente, se no io dalla realtà mi difendo con tutte le cose che so e che faccio, cosicché il movimento, invece di diventare un’introduzione alla realtà, diventa la più sottile difesa che ho. L’ultima cosa è che quando tu alla Giornata d’inizio anno hai parlato della contemporaneità di Cristo e del Papa, io lì sono rimasta abbastanza perplessa, perché quando dico contemporaneità di Cristo non riesco a separare questa frase da te. Anzi,questa è stata forse per me una delle scoperte più impressionanti di questi ultimi tempi, cioè che
non è possibile la mia conversione senza un cedere a Cristo contemporaneo; Cristo contemporaneo ha a che fare con te, se no io non mi accorgerei neanche del Papa, non sarei andata a Roma a maggio e tanto meno mi sarei accorta di quello che il Papa ha detto in Inghilterra. Però, da questo punto di vista, ho bisogno di capire bene come tu senti il seguire te.

Lascio aperta la questione, perché mi sembra che questo che dici è fondamentale per tutti. Io vi lancio una domanda: che cosa ha cambiato in voi il modo di percepire e sentire la parola
conversione? Perché lì è tutto. Se voi continuate a sentire la parola conversione come qualcosa che in fondo vi strappa via qualcosa, allora vi difendete, ci difendiamo dalla parola conversione. Vuol dire che è slegata dalla contemporaneità di Cristo, e questo è il segno. Vi faccio degli esempi.
Zaccheo si è convertito? Sì, eccome! Ma si è difeso da Gesù? No, l’ha ricevuto molto contento.
Giovanni e Andrea, quando erano lì a sentirLo parlare, si sono difesi da Gesù? No, l’hanno seguito.
Si sono convertiti? Sì. Vuol dire che quando noi separiamo queste due parole – conversione e contemporaneità – è inesorabile che la conversione sia ridotta a moralismo e la contemporaneità a
emotività, senza che provochi in noi un desiderio di cambiamento. Allora la questione è partire da questa realtà, da questa esperienza: come succede in noi, quando mi sorprendo col desiderio di cambiare, perché la conversione è proprio questo, che si desti in me il desiderio di cambiare per non perdermi quello che ho davanti. Giovanni e Andrea perché l’hanno seguito? Per guadagnare una vita eterna alternativa a quella reale, oppure per non perdere per la vita quella Presenza così affascinante che avevano davanti? E questo è decisivo per capire che cosa è la contemporaneità di
Cristo, che Cristo rende veramente attraente quella realtà a cui Lui mi vuole introdurre, perché mi svela il significato del vivere. Seguire me, se non è questo, se non è per seguire quello che io cerco di seguire, quello che tento di verificare nel reale, che significato avrebbe? Che cosa vuol dire seguire me? Io ho imparato a seguire da don Giussani, perché per lui il cristianesimo è un
avvenimento che sta succedendo ora, e questo fa diventare il cristianesimo appassionante. Ma perché il cristianesimo possa essere concepito così e per venir fuori dal moralismo non basta dire
che io desidero non essere moralista e voglio seguire la contemporaneità di Cristo: occorre riconoscerLo, occorre non ridurre la realtà, occorre vedere che in tanti gesti che facciamo – a questo serve la Giornata d’inizio anno – noi spesso questo non lo vediamo. Allora tante volte per noi la contemporaneità di Cristo è astratta e la conversione è moralistica, perché noi nel reale non Lo
vediamo (non è che non raccontiamo dei fatti, ma restiamo lì, nel contraccolpo emotivo). Per questo domandiamoci quante volte questo racconto di fatti desta in noi un desiderio di cambiamento,
perché questo è il test: che io voglio non perdere quella cosa lì. A me interessava farvi presente questo, per esempio rispetto al Papa, perché quello che mi ha interessato della visita del Papa in
Inghilterra è vedere lui all’opera: perché era impossibile che quella figura venisse fuori soltanto dall’energia umana, era la testimonianza palese della presenza di Cristo. Non occorre avere visioni.
Gesù – dico sempre – non ha guarito tutti gli ammalati della Palestina del suo tempo, ma ha fatto vedere attraverso certi miracoli che Lui c’è, che non siamo da soli con la nostra impotenza e con il nostro niente, che la potenza di Dio si rende presente in fatti e avvenimenti. Il viaggio del Papa è uno di questi, è stato palese anche per gli avversari.

Io volevo fare una domanda sul potere dei senza potere. Io normalmente sarei stata una persona non molto buona, anzi, piuttosto cattiva, perché sono impaziente, poco misericordiosa, molto egocentrica, mi lamento in continuazione, quindi non sarei una grandissima persona, se non che in
questo luogo e attraverso i miei amici ho conosciuto il metodo e le ragioni per non essere più così, per cambiare. Allora mi sono ritrovata addosso una inaspettata umanità che non viene dalle mie capacità. E volevo fare qualche esempio rapido sul lavoro. Il mio responsabile ha un motto che è
«divide et impera»; io cerco di testimoniargli che per me lavorare in équipe è un’altra cosa; i miei colleghi fanno un po’ fatica a salutare al mattino quando arrivano e sono sempre molto precisi e corretti nella rilevazione di eventuali miei errori; io cerco di aprirmi più che posso al dialogo e mi
piacerebbe davvero collaborare con loro. Sul marciapiede che c’è davanti al mio ambulatorio due anni fa è arrivata una zingarella che avrà avuto sedici anni, incinta; i miei colleghi e il mio responsabile la guardavano molto male e la scacciavano quando si avvicinava alla sala di attesa
per prendere un caffé alla macchinetta. Io mi sono fermata tante volte di fianco a lei sul marciapiede, mi sono fatta raccontare del suo bambino, le ho portato i vestiti dei miei figli, e qualche giorno prima di tornare al suo paese mi ha detto: «Tu sei molto buona con me, mi sarebbe piaciuto avere una mamma come te». Mi è persino capitato di dire l’Angelus mentre tiro fuori dalla busta l’esito della tac di un mio paziente per sapere se ha risposto alla chemioterapia e lui, intanto che faccio questo, mi dice: «Sa, dottoressa, anche se non fosse andata bene, io sono tranquillo
perché so che lei troverà un modo per curarmi». Potrei trovare tantissimi altri esempi; questa non è farina del mio sacco, ma accade e io riconosco la presenza e l’opera di Gesù in questo “di più” di umanità e supplico la Sua presenza in ogni momento della mia giornata. E su questo mi sembra
che ci sono. La questione, allora, è questa: la mia fede ha ancora possibilità di successo su un capo che non usa la sua autorità, sui colleghi che ti attaccano, su tutte queste cose? A pagina 21 si dice: «Ma in questo clima dobbiamo accontentarci della testimonianza o possiamo ancora fare
battaglie?». Io volevo un aiuto su questa vicenda.

Ma secondo la tua esperienza cosa rispondi a questa domanda?

Mi sembra di aver capito che…
Hai capito perché lo hai detto! Questa inaspettata umanità da dove l’hai tirata fuori? È successo in te?
Sì.
Allora la fede ha capacità di successo?
Sì. Perché altrimenti tu non avresti detto quello che hai detto. Ma è successo secondo un disegno che non era il tuo. Lo stesso capiterà per i tuoi colleghi, pazienti, eccetera, perché succede secondo un disegno che non è nostro. Qual è il metodo di Dio? Che dà la grazia a taluni per arrivare a tutti, cioè non la dà a tutti nello stesso momento. C’è la contemporaneità di Cristo – come dicevamo prima –, ma siccome Cristo non si impone, bensì si propone, dipende dalla libertà dell’altro. Come dicevo nell’omelia della Giornata d’inizio anno, non
basta la testimonianza, occorre l’apertura del cuore dell’altro, perché se Cristo ha accettato di sottomettersi a essa, curvandosi sul nostro nulla, figurarsi se noi possiamo pretendere di fare diversamente! Ed Egli fa così perché questa è la grandezza dell’uomo, questa è la grandezza dei
tuoi colleghi e la tua, paradossalmente. Che questa è la grandezza vuol dire che l’uomo non è un meccanismo che tu puoi impostare, è qualcosa in più, ha un mistero dentro: il mistero della libertà. A noi che cosa tocca? Che cosa c’entra questo con te e con la tua conversione? Gesù chiama te,
chiama ciascuno di noi in questo ambiente a dire: «Ma io come posso dare un contributo? Che tipo di rapporto, che tipo di ascolto, che tipo di testimonianza devo realizzare per potere facilitare, per non oscurare il volto di Cristo, come diceva il Papa in Inghilterra, per rendere trasparente Cristo
attraverso la mia umanità?». Questa è la nostra conversione. Per aiutarti a capire come tante volte noi riduciamo la contemporaneità ti leggo quello che mi ha scritto uno:
«Mi trovavo a un matrimonio di un mio carissimo amico come testimone e stavo seduto insieme agli altri testimoni vicino agli sposi. Durante la cerimonia ho osservato il fotografo che passava vicino agli sposi, a noi
testimoni e all’altare. Non so com’è qui tra di voi nel nord la vita di un fotografo, ma in Sicilia i matrimoni sono la principale fonte di guadagno. Lo osservavo e dico fra me e me che per il fotografo più matrimoni ci sono in una settimana, in un mese, in un anno, meglio è; più matrimonio uguale più guadagno. Strana la vita! Per quello lì andare a messa anche ogni giorno non è sicuramente un dispiacere, passa tutta la vita a girare intorno a Gesù che gli dà il pane. Ma non guadagna Lui. Guadagna tutto tranne che Lui. Non parlo specificamente del fotografo, ma lo uso come metafora della mia – e di molti altri, penso – esperienza: una intera vita con Gesù senza
guadagnare Lui. Ogni volta è sempre guadagnare un qualcosa del mondo, fosse anche un buon modo per non stare da soli la sera della Scuola di comunità. Si può stare tutta la vita con Gesù come un fotografo per guadagnare un pezzo del mondo o del proprio mondo, ma senza guadagnare Lui; guadagnare l’intelletto, il potere, la stima di sé, morose, senso di appartenenza e unità, e compagnia per non stare da soli, ma non Lui. Faccio il medico e Gesù ce L’ho davanti ogni giorno, ma rischio spesso anch’io di avere la sindrome del fotografo: Gesù come fonte di guadagno. Ogni giorno sto con i malati che mi danno uno stipendio, potere, possibilità di carriera, visibilità sociale, soddisfazione intellettuale e amici di buon rango, sto ogni giorno con Gesù. Ma rischio di non guadagnare Lui».
Parto da una cosa che mi ha colpito tantissimo della Giornata d’inizio anno: «La Sua presenza è resa visibile, tangibile e sperimentabile dal fatto che cambia la vita della gente che sta nella comunità, nella compagnia. Per questo l’acutezza con cui si percepisce la testimonianza dell’uno,
dell’altro, anche non capi, l’acume con cui si percepisce la testimonianza anche furtiva, anche tutta discreta presente nella gente della comunità è il segno più grandioso dell’onestà di cui parlavamo.
Questo è il tentativo estremo di evitare la conversione: negare l’esistenza dei fatti e degli avvenimenti». Quindici anni fa muore il marito di una mia amica. Ha trentatré anni ed è incinta del terzo figlio, ha due bambini piccoli. Io sono lì per caso, perché abito nel portone a fianco e la conosco da quando siamo ragazzine; questa cosa mi accade davanti agli occhi e rimango lì, resto lì osservando nei giorni, nelle settimane, nei mesi, negli anni, lei e i suoi figli stare diritti nelle circostanze che avvengono nella loro vita, osservo la loro umanità che si fa grande, non perfetta, perché sono poveri cristi, ma grande: abbracciati alla croce di Cristo. E quello che accade, e di cui io mi sono resa conto, è che a un certo punto quel Cristo lì si gira verso di me e mi dice: «E tu? Mi ami tu?», cioè accade incredibilmente che l’avvenimento che ha travolto la loro vita, che l’ha segnata, l’ha trasformata e l’ha resa dolorosamente grande ha investito la mia umanità, ha cambiato la mia vita, la vita mia e di mio marito e l’ha trasformata (nel senso di una fonte di esperienza di bene inesauribile, ma, soprattutto, inaspettata). Sono sposata da diciotto anni e non ho figli; mi sono sposata perché volevo figli e li ho chiesti; li ho chiesti, li ho domandati, ho pregato, ho fatto pregare, sono andata ai pellegrinaggi e ho fatto andare un sacco di gente ai
pellegrinaggi, hanno pregato i rosari tutte le mamme di questo mondo; faccio il medico, quando mi dicevano: «Cosa le devo?». «Un’Ave Maria». Ma i figli non sono venuti e questo non ha mai fondato in me alcun rancore, alcun dolore, alcuna rabbia, non ha mai messo in dubbio il fatto che la mia preghiera fosse stata e fosse continuamente ascoltata. Di questo sono certa, perché è una tenerezza di Dio per la mia umanità, e l’ho vista in atto proprio nel rapporto coi tre figli della mia amica vedova: la tenerezza con cui loro hanno voluto bene a me e a mio marito, più ancora
dell’affetto profondissimo che noi abbiamo per la loro vita, ha fatto sì che io e mio marito sperimentassimo una maternità e una paternità non chiesta così, però altrettanto vera.

Grazie.

Quando è uscito il tuo articolo sulla pedofilia, per la prima volta mi è capitato di non arrabbiarmi per il fatto che io non ero riuscito ad arrivare da solo al giudizio giusto (perché magari sempre dicevo: «Ho fatto Scuola di comunità, ho fatto tutto, ma…»); al contrario, mi sono sorpreso infinitamente grato che mi fosse dato qualcuno che mi portava per mano fino a riconoscere Lui, fino a riconoscere Gesù presente, anche in questo. Poi si è chiarito quest’estate, quando tu hai cominciato a parlare di conversione, che la conversione coincide proprio con la libertà, perché
appena uno è corretto, è portato per mano a riconoscere Gesù, fa proprio esperienza della libertà.
Io non avrei mai pensato che la conversione coincidesse con la libertà, cioè con lo stare dentro le circostanze con Lui.
Questa è un’altra forma per dire che quello che prevale è la gratitudine perché c’è Gesù, perché c’è un Altro. Il problema non è più se sono stato all’altezza o meno, quello che prende il sopravvento è
proprio che Lui c’è, che Lui è presente in mezzo a noi attraverso l’uno o l’altro. La conversione coincide con questa libertà, con questa liberazione. Facevo sempre quest’esempio ai ragazzi: quando abbiamo una persona malata grave, siamo contenti che ci sia qualche medico che capisce;
uno è contento, non gli viene da arrabbiarsi perché c’è uno più bravo; è contento, è un bene, è una grazia, un tesoro avere uno che possa capire la malattia e cercare di curare. Per questo la conversione è il prevalere di questo bene, è non perderci questo bene ultimo in cui la vita consiste.

L’altro ieri ero a scuola, insegno in un liceo classico e sono tornata all’insegnamento dopo tre anni che facevo una rivista. Entro in questa prima liceo e già ho in mente cosa devo fare, me l’ero preparato, parto in quarta, questi mi guardano con gli occhi sgranati, non hanno mai sentito
parlare così, mi seguono, fanno domande, io sono tutta gasata. Esco fuori e vedo che uno mi segue, viene fuori e fa: «Prof, guardi, glielo devo proprio dire». «Che cosa?». «Prof, guardi, lei non deve essere così materna nello spiegarci, lei ci deve provocare di più, perché noi queste cose che sta
dicendo le abbiamo già sentite, perché l’anno scorso è venuto un professore di filosofia che ha spiegato queste cose». Allora l’ho guardato e ho detto: «Ti ringrazio che me lo hai detto perché così io posso andare fino in fondo e questa tua provocazione è per me». Veramente ho riconosciuto
l’amorevolezza di Gesù per me, perché non ha voluto che io mi fermassi a metà, ma si è consegnato a me dicendomi: «Ci sono Io, questo è ciò che vale per te ed è quello che loro desiderano, nient’altro».
Tu che cosa trattieni da questo?
Il fatto che avevo un grande desiderio…
Non fermarti a metà: che cosa vuol dire?
Vuol dire che volevo andare fino in fondo io dentro quello che mi stava accadendo, perché il Signore mi aveva chiamato lì.
Che cosa vuol dire andare fino in fondo?
Lasciare che Lui…
Ma che cosa vuol dire questo?
Tenere conto della mia umanità, di quello di cui sono fatta e anche delle circostanze, perché in questo caso voleva dire tenere conto di un fattore imprevisto che era questo ragazzo.
Esatto; e questo ragazzo che cosa ti ha fatto capire?
Che il Signore usa un metodo suo.
Quale?
Di venire incontro e di farmi capire cos’è più vero.

Ma questo ragazzo cosa ti ha detto? Che mancavi tu! Perché l’educazione è la comunicazione di sé, cioè del proprio modo di affrontare il reale; non basta una bella lezione, occorre l’io presente. Perché questo è quello che testimonia Lui: dopo Cristo non c’è un’altra modalità di comunicare la verità, se non la testimonianza, dove i concetti diventano carne e sangue. E questa è la provocazione che ti offre il ragazzo.
E questo ha cambiato tantissimo, infatti.
Ti dico questo perché è veramente una sfida per noi. Infatti ho ricevuto tante mail dove – ne leggo una soltanto, di una persona che si è impegnata al Meeting – uno può fare delle cose e non esserci:
«Era stata una settimana grandissima… Ma c’è un “ma” grandissimo. Mentre succedeva tutto questo, a casa era una settimana che non rivolgevo la parola a mio marito per un litigio grande sui figli. Insomma, un macello. Alla fine del Meeting mi sono ritrovata schizofrenica, letteralmente
divisa in due, stanca, amareggiata, delusa e soprattutto cinica. L’essere nella normalità con tutta la sua drammaticità mi faceva venire voglia di scappare, non volevo la realtà. Dal Meeting avevo capito che si può barare con noi stessi e con gli altri. Si può fare tutto molto bene e non esserci; si possono fare bei discorsi e non esserci; si può avere il cuore duro e parlare del desiderio del cuore (perché i discorsi li sappiamo tutti); si può smettere di credere che Gesù risponde e dire ai volontari che solo Gesù risponde. Non ho detto a nessuno questa sofferenza perché non volevo discorsi,
volevo rimanere sola, non volevo essere aiutata, come se il tarlo dello scetticismo avesse scavato una voragine. Ma nella disperazione ho scritto a uno, vomitando tutto quello che avevo dentro. E questo non mi ha mollato e una volta mi ha detto: “Leggi il capitolo sul sacrificio”, e man mano che
lo leggevo (avevo cominciato soltanto per fargli piacere) mi rendevo conto, piangendo, che io non potevo scappare da nessuna parte, che solo in Gesù tutto prende un senso. Ecco, era lì che mi aspettava. Sono andata a confessarmi, Gli ho chiesto di riprendermi, ma Lui era già lì che bussava,
ma io tenevo la porta chiusa e Lui aspettava quel sì.

Quando sperimenti la tua immensa pochezza puoi entrare nel mistero della Sua grandezza e io non voglio vivere per nulla di meno, io voglio un rapporto personale, vivo, carnale con Gesù, null’altro mi basta. Il cinismo, lo scetticismo, il relativismo hanno scavato un solco grande anche in noi che, sentendoci immuni, ci caschiamo dentro come pere cotte». Possiamo non esserci, per questo il segno della contemporaneità è trovare un io che ci sia con tutto se stesso: «La gloria di Dio è l’uomo vivente», dice sant’Ireneo. Quello che rende gloria, che fa trasparire Cristo non sono le nostre parole, anche le nostre parole, ma la questione è che ci siamo noi. Lo stesso mi dice un altro:
«Ti scrivo a breve distanza dalla mia precedente sotto la pressione della commozione che mi invade per l’esito del lavoro che ci proponi
[perché il lavoro che stiamo facendo è proprio per vincere questo, affinché noi possiamo essere sempre di più nel reale, così come abbiamo visto che il Papa può essere davanti a persone che hanno una modalità diversa di pensare, ma lui può andare lì e testimoniare con tutte le ragioni che
cosa è Cristo], che per me ha coinciso con il cercare di stare davanti a quello che ci dici, quindi davanti a Cristo, con lo struggimento di una domanda il più possibile inesausta che io viva, perché da solo non riesco. E questo sta producendo frutti per me veramente eclatanti, che partono sempre
da un giudizio. Mi ha colpito moltissimo, per esempio, la sottolineatura dell’iniziativa personale. Se penso alla mia vita, alla luce di questo richiamo, improvvisamente sono rimasto allibito tanto da sorprendermi domandarmi: ma io finora dov’ero? Quando don Giussani dice che manca l’umano [adesso cominciamo a renderci veramente conto e comincia a venire fuori con semplicità]...

Dov’era il mio io? La risposta è arrivata immediatamente: era sul tapis roulant; un tapis roulant, a me sembra, non è soltanto quando, per esempio, si partecipa senza consapevolezza a un gesto
proposto, ma si gioca in ogni istante; l’iniziativa personale deve essere in ogni momento». Il segno
di Lui è proprio questo: che ci rende presenti al presente.
Ascolta, io vorrei non esserci, proprio non esserci. La situazione di mia nonna è un disastro: ospedali, case di riposo, assistenti sociali. Tu dici: «Cristo risorto». Dov’è questo Cristo risorto? Io sono venuto qui e sono molto arrabbiato, perché vedere mia nonna che è così, che non sente più...
Ma dov’è questo Cristo risorto, dov’è?

E tu come puoi guardare tua nonna se non c’è questo Cristo risorto? Tu devi farti la domanda alla rovescia perché tu, che vedi la nonna così, perché questo è un fatto… Questi sono i fatti. Questi sono i fatti, e tu devi domandarti: questa è la fine?
Per me sì, per me sì.
E tu puoi mettere la mano sul fuoco che esiste solo quello che tu hai nella tua testolina o che può
esserci più realtà nel cielo e nella terra che nella tua filosofia? Tu puoi mettere la mano sul fuoco
che non c’è altro oltre quello che tu vedi? Puoi metterla sul serio? Ancora non ho trovato nessuno
che mi abbia detto di sì. Comincia a spalancare la tua ragione, perché poi è la mancanza di questo
che non ci consente di vedere quello che c’è.
Io vedo solo dolore intorno a me, solo dolore.
È questo il punto: che vediamo soltanto questo. Ma perché tu veda tutto quanto il resto, occorre che
succeda un’altra cosa e che tu sia disponibile.
Ossia?
Ossia: vediamo succedere tanti fatti, e tu puoi star lì arrabbiato nero per tua nonna e non renderti
conto di che cosa sta succedendo davanti ai tuoi occhi. Se tu non vai a fondo del cambiamento delle
persone, di quello che vivono, della loro testimonianza che c’è qualcosa in più di quello che tu vedi,
perché sei incastrato pensando soltanto a quel dolore, se tu non guardi in giro…
Dov’è che devo guardare? Più che un affetto che sta per morire cosa devo vedere?
Proprio perché sta per morire ti conviene guardare, allargare la ragione, per vedere se questo che tu
stai vedendo è tutto. Perché se è tutto, non c’è speranza né per tua nonna, né per te, né per nessuno
di noi. Ma se questo non è tutto e Cristo è risorto, allora la speranza c’è per te, per tua nonna e per
noi, capisci?
Se Cristo è risorto?
Certo! E questo si vede nei fatti e negli avvenimenti che documentano la Sua presenza e la Sua
opera, qui e ora. La questione è che tutti questi fatti, per quello che ho detto alla Giornata d’inizio
anno, non li vediamo, e tu sei lì incastrato guardando la realtà soltanto attraverso il buco della
serratura. E questo non è tutto, capisci? Non è tutto, è come se tu vedessi il reale ridotto. E per
questo non metti la mano sul fuoco che quel che tu vedi sia tutto. Almeno questa lealtà con te stesso
l’hai, non puoi non tacere. Allora dico: incomincia proprio per questo, perché può esserci qualcosa
in più di quello che tu vedi che ti dà la speranza anche per guardare tua nonna.
A cosa devo guardare, scusa?
Tu hai sentito qui delle testimonianze di persone cui è cambiata la vita. Questo cambiamento è soltanto perché sono più brave? Se tu sei presente nella vita della comunità, vedi dei fatti che non sono riducibili a una spiegazione qualsiasi, ma che testimoniano qualcosa d’altro, mi spiego? Tu l’hai visto, tu l’hai sentito? Ma per te questo è uguale a niente, questo non documenta che Cristo sia
risorto; siccome non lo vedi e non lo vuoi riconoscere, quando vai davanti a tua nonna che sta morendo, non hai niente tranne quello che tu vedi. Ma c’è più realtà nel cielo e nella terra che nella tua testolina. Tu sei disponibile a questa conversione o no?
No.

Basta, questo è il punto. Allora neanche se resuscita un morto potrà convincerti. Questa è una documentazione di quello che succede; drammatica, perché lo diciamo sinceramente – non è che il
nostro amico non sia sincero –. Il problema è se è vero quello che diciamo sinceramente! E come vedete, quando arriviamo al punto noi pensiamo che c’è sempre qualcosa di più interessante da fare che quello che ci suggerisce don Giussani. E poi affoghiamo nelle riduzioni di cui ho parlato alla
Giornata d’inizio anno, e davanti al dolore non reggiamo. Possiamo incominciare a capire che noi ci troveremo nella stessa situazione, se questo percorso che ci ha proposto don Giussani non lo facciamo. Ciascuno deve decidere, poi non lamentatevi quando tutto diventa buio. Ma quando uno vi sfida se c’è soltanto questo, lì almeno un attimo di lealtà con voi stessi vi consente di fermarvi. Vuol dire che c’è qualche spiraglio ancora, qualche crepa. Scuola di comunità. Siccome – come vedete – resta ancora tanto da fare, continuiamo avendo presente anche la lezione e la sintesi de La Thuile, almeno per chi ha già fatto il lavoro sulla Giornata d’inizio anno.

È attivato un indirizzo mail per raccogliere domande e brevi interventi sulla parte della Scuola di comunità a tema. Vi raccomando di usarlo solo ed esclusivamente per la Scuola di comunità, per inviare domande o testimonianze come quelle che ho letto oggi. L’indirizzo mail è:
sdccarron@comunioneliberazione.org
Libro del mese ottobre-novembre. Marija Judina Più della musica, di Giovanna Parravicini (ed. La
Casa di Matriona). Molti che hanno visto il video si sono entusiasmati, ed era solo un piccolo
assaggio di quanto il libro racconta più estesamente.
Centri culturali. Le persone impegnate nelle attività dei Centri culturali tentano di documentare in
tutte le città, attraverso incontri e testimonianze, l’esperienza e i giudizi maturati nel cammino che
facciamo insieme nella Scuola di comunità. Perciò vi prego di essere attenti alle loro proposte.
A Milano, martedì 12 ottobre, ore 21, al Teatro Dal Verme si terrà un incontro col cardinale Angelo Scola di presentazione del suo ultimo libro, Buone ragioni per la vita in comune. Religione,
politica, economia (ed. Mondadori), organizzato dal Centro Culturale di Milano.
• Veni Sancte Spiritus.








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