domenica 16 marzo 2008

CERTI FRAGORI CERTI SILENZI

Ho perso perché il progetto era chiassoso e perdente fin dall’inizio, non è di questo che deve o vuole nutrirsi l’umanità sopravvissuta al ventesimo secolo, e forse – penso – hanno ragione i Sofri e i cattolici, non si devono piantare chiodi, cercare egemonie, imporre alcunché, bisogna sciogliere nodi, impratichirsi in nuove arti liberali che non hanno niente a che vedere con la guerra, nemmeno con la guerra culturale.

Chiara Lubich, esempio di una spiritualità intimista che è lezione per noi laici
Noi laici, o quel che ne resta, siamo fragorosi e impudichi, se facciamo una battaglia di idee è sui giornali che nasce, sui giornali che muore; eppoi ci presentiamo alle elezioni o in tv, coltiviamo lo spazio pubblico come fosse il nostro orto casalingo, ci rispecchiamo in categorie obsolete come vittoria o sconfitta, consumiamo le nostre vite senza tempo per osservarle, senza tempo per scrutare nel profondo quelle degli altri, senza tempo per viaggiare nel mistero dei carismi personali, del carisma di una chiesa, nel carisma di un popolo. Siamo frettolosi, noi laici secolari o quel che ne resta.


Se penso a Chiara Lubich e alle cento forme di spiritualità cristiana dentro e fuori il mondo cattolico, anche nella mescolanza come a Taizé con le correnti protestanti sopravvissute alla diaspora evangelica, penso che quel che superbamente mi dico quando sono stanco, e cioè che ho vinto comunque perché ho “imposto” la questione in cui credo, il rigetto dell’aborto moralmente indifferente come grande metafora per il ritorno di amore e buonumore sulla terra, può essere perfettamente rovesciato nel suo opposto: ho perso comunque, anche se non dovessi prendere un sacco di botte.
Ho perso perché il progetto era chiassoso e perdente fin dall’inizio, non è di questo che deve o vuole nutrirsi l’umanità sopravvissuta al ventesimo secolo, e forse – penso – hanno ragione i Sofri e i cattolici, non si devono piantare chiodi, cercare egemonie, imporre alcunché, bisogna sciogliere nodi, impratichirsi in nuove arti liberali che non hanno niente a che vedere con la guerra, nemmeno con la guerra culturale.

Poi penso che no, non è così, che se c’è una predicazione che convince qualcuno deve pur seguirla. Se il primate di Spagna o il Papa di Roma dicono che è in corso una rivoluzione culturale di sconsacrazione e disumanizzazione della vita, che la profezia di Kant sulla “fine perversa di tutte le cose” si sta rivelando attendibile in un progresso che sta in mani sbagliate (“Spe salvi”), allora qualcosa bisogna pur fare, anche se questo qualcosa non è la riforma delle anime ma solo l’affermazione di teoremi, formule algebriche, leggi fisiche e metafisiche che hanno la pretesa della verità. E se nella società moderna tutto questo costa rumore, fatica spesso inutile, ostentazione, vanità, duello, perfino guerra, è nel destino di qualcuno sobbarcarsi queste angustie e praticarle senza riserve, sebbene sempre con scrupolo. Almeno, tentato scrupolo.

Poi però di nuovo penso a quella donna di Dio quasi novantenne, misteriosa, iconica, che si è spenta alla vita formale della biologia nella sua casa ai Castelli, a Rocca di Papa nei dintorni di Roma, con il conforto orante di una immensa moltitudine da lei evocata in tanti anni tenaci, i Focolarini (che bel nome), in uno statuto di reciproca lealtà e in un’atmosfera di clamoroso silenzio durato oltre mezzo secolo, e allora torno a invidiare quel che non ho mai avuto, e che tanti di noi non hanno mai avuto, questa dimensione altra del tempo che è propria della fede religiosa, delle chiese e della chiesa.
Quella è un’altra esperienza, preclusa al nostro vociferare avvocatesco e tribunizio, al nostro sofisma democratico di ogni giorno. Tutta da studiare, tutta ancora da raccontare. Bisognerà prima o poi che qualcuno scriva la storia comparata dei carismi personali e spirituali del ’900, tanti cristincroce quante stelle si contano, e se ne leggeranno delle belle.

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