.....Benedetto XVI ha parlato durante l'udienza generale della Settimana Santa. Quella più centrale di tutte, perché prossima alla Pasqua. E ha paragonato quanto capita ai tibetani e a chiunque sia perseguitato al Nazareno sul Calvario. Ha detto: «Seguo con grande trepidazione le notizie che in questi giorni giungono dal Tibet. Il mio cuore di padre sente tristezza e dolore di fronte alla sofferenza di tante persone. Il mistero della passione e morte di Gesù, che riviviamo in questa Settimana Santa ci aiuta ad essere particolarmente sensibili alla loro situazione. Con la violenza non si risolvono i problemi, ma solo si aggravano. Vi invito ad unirvi a me nella preghiera. Chiediamo a Dio onnipotente, fonte di luce che illumini le menti di tutti e dia a ciascuno il coraggio di scegliere la via del dialogo e della tolleranza»....
di RENATO FARINA
Libero, 20 marzo 2008
C'era un brutto titolo ieri sui siti internet più diffusi. Questo: «Il Papa rompe il silenzio sul Tibet». Come dire: era ora. Si capisce bene a cosa si punta: non a far star meglio il Tibet e a mettere sotto accusa i comunisti cinesi (la parola comunismo non c'è mai), ma a sottoporre a giudizio Ratzinger.
Il responso è: questo Papa è in ritardo, i morti buddisti gli interessano poco. Voto 5+. Invece no. I tempi e le parole del Papa sul Tibet hanno un senso che magari non tutti sono obbligati a capire. Ma almeno a provarci bisognerebbe.
Benedetto XVI ha parlato durante l'udienza generale della Settimana Santa. Quella più centrale di tutte, perché prossima alla Pasqua. E ha paragonato quanto capita ai tibetani e a chiunque sia perseguitato al Nazareno sul Calvario. Ha detto: «Seguo con grande trepidazione le notizie che in questi giorni giungono dal Tibet. Il mio cuore di padre sente tristezza e dolore di fronte alla sofferenza di tante persone. Il mistero della passione e morte di Gesù, che riviviamo in questa Settimana Santa ci aiuta ad essere particolarmente sensibili alla loro situazione. Con la violenza non si risolvono i problemi, ma solo si aggravano. Vi invito ad unirvi a me nella preghiera. Chiediamo a Dio onnipotente, fonte di luce che illumini le menti di tutti e dia a ciascuno il coraggio di scegliere la via del dialogo e della tolleranza».
La parola padre spiega tutto. Le sue mosse sono state quelle del padre, che cerca di salvaguardare le persone più che la propria immagine di uomo sollecito e attento alle pressioni dei mass media, i quali volevano vedere se ha cura dei buddisti come dei cattolici.
Si sente anche loro padre.
Sapeva che una mossa brusca, un grido di indignazione dettato dalla fretta poteva essere sfruttato dalle autorità cinesi per avvolgere di fiamme quel briciolo di libertà che la sofferenza dei vescovi e dei fedeli cattolici cinesi ha conquistato al Drago comunista con il sostegno della diplomazia vaticana. Non è una libertà esclusiva: sotto l'ombrello della Chiesa trovano rifugio tanti altri. Gli spazi sono guadagnati per tutti.
Per questo Ratzinger si è definito "padre". Padre anche dei tibetani. Sono le stesse parole che nelle stesse ore ha pronunciato il Dalai Lama, anch'egli qualificato dai fedeli "Sua Santità". Ha detto a Repubblica: «Può la gazzella lottare con la tigre? L'unica arma, l'unica forza, è la Giustizia, la Verità. La violenza, oltre che sbagliata, diventa controproducente. Con le armi forse si risolvono le cose più rapidamente, ma i problemi si ripresenterebbero sempre più gravi». L'idea di Benedetto XVI è identica a quella di Giovanni Paolo II: tutelare una presenza fisica e libera dei cristiani. Detta così la si può intendere come meschina difesa di una bottega. Ma essa viene dai Papi fatta valere per analogia rispetto ad ogni altra presenza animata da un ideale..
Domenica il Papa non ha parlato del Tibet perché la scelta è stata di accentuare l'attenzione sul caso dell'arcivescovo caldeo Raho, rapito e ucciso in territorio islamico, ma sotto controllo occidentale.
Il richiamo era chiaro. Nessuno l'ha ripreso, concentrati come si era nel fare l'esame del sangue al Papa a proposito del Tibet. Sarebbe stato come rimproverare il Dalai Lama di non aver rotto il silenzio sulla situazione dei caldei in Iraq.
In realtà a nessuno interessa nulla del prossimo o quasi. E allora si carica il Papa delle nostre frustrazioni. Contenti di trovarlo in fallo per ricavarne motivo di autoassoluzione. Che razza di ipocrisia.
In questa situazione però è stupefacente come il Papa affermi la "grande speranza". Non usa questa formula tanto per dire, come uno slogan di ottimismo fasullo: grazie al cielo non ha bisogno di essere riconfermato alla prossima tornata elettorale. Ieri così ha evocato la «drammaticità di fatti e situazioni che in questi giorni affiggono i nostri fratelli in tante parti del mondo». Poi ha invitato proprio alla "grande speranza". Essa consiste in una certezza: «Sappiamo che l'odio, le divisioni e le violenze non hanno mai l'ultima parola negli eventi della storia. Questi giorni rianimano in noi la grande speranza che Cristo Crocifisso e risorto ha vinto il mondo: l'amore è più forte dell'odio, ha vinto». Non si direbbe, a prima vista. Sembra trionfare oggi la faccia irosa del premier cinese Wen, il quale accusa ancora "la cricca del Dalai Lama". La cultura di Wen e della sua ciurma di pirati capitalcomunisti non ha come base della vita la pietà, ma lo sviluppo della potenza imperiale; il collettivo che schiaccia i singoli. Il Papa dinanzi a questo spiegamento di armi sanguinarie è triste ma sostiene che alla fine vinceranno i miti. Non vinceranno da soli: bisogna dargli una mano. I cinesi devono convincersi che se uccidono a chi venderanno poi le loro merci? Boicottiamo le Olimpiadi. Evitiamo di comprare i prodotti cinesi se non danno libertà al Tibet.
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