mercoledì 30 luglio 2008

FORMIGONI IL MIO 68

TEMPI 24 Luglio 2008

Il governatore della Lombardia e la sua "contestazione": «Vi racconto quando sfidavo le piazze dei metalmeccanici»
di Rodolfo Casadei

Il gran volume dei capelli distrae un po' dal volto teso e dallo sguardo deciso. Manca la barba che lo renderà inconfondibile, la foto è un bianco e nero sbiadito, ma non ci si può sbagliare: quello che parla dal palco alla manifestazione dei metalmeccanici nella piazza principale di Lecco è il giovane Roberto Formigoni. «Quelli del Movimento Studentesco avevano un diavolo per capello: "Fate portare il saluto degli studenti agli operai a un clerico-fascista!"», ridacchia Formigoni il grande, commentando quell'immagine di quasi 40 anni prima. Autunno caldo 1969, sciopero nazionale dei metalmeccanici: a parlare ai 10 mila operai radunati in piazza Garibaldi in rappresentanza degli studenti non è un amichetto di Mario Capanna, ma il leader carismatico lecchese di Gioventù Studentesca, da poco spazzata via dagli atenei lombardi, ma fortissima nelle ridotte dell'alta Brianza.
Inerzia reazionaria della provincia profonda? Niente affatto. Il Formigoni sbarbato che arringa gli operai intorno all'identità cristiana era iscritto frequentante della Cattolica di Milano e aveva partecipato alla famosa assemblea che decise l'occupazione dell'ateneo nel novembre 1967 e che segna simbolicamente l'inizio del Sessantotto in Italia.

«Ero iscritto a filosofia da un mese appena, mi ero trasferito alla Cattolica dopo due anni di ingegneria al Politecnico», spiega il governatore lombardo. «Partecipai con curiosità e simpatia. Il clima era caotico e tumultuoso, ma c'era un elemento che seduceva: il radunarsi spontaneo degli studenti, il fenomeno della partecipazione, la presa di coscienza, la volontà di essere protagonisti. Non era chiaro per che cosa ci si metteva insieme, ma la sensazione era quella di gente che stava insieme per cercare insieme. Si capiva che la protesta contro l'aumento delle tasse alla Cattolica era un pretesto per qualcosa di più grande».

Perché lasciai il Movimento studentesco
Strano che gli studenti se la prendessero con l'Amministrazione universitaria piuttosto che con lo Stato che lesinava i finanziamenti: don Giussani, da poco docente, lo fece notare. «Sì, lo fece notare e ci furono interventi di giessini che sottolineavano la questione, ma già a quel tempo c'era chi sapeva manovrare le assemblee. Comunque in quella primissima fase non avvertivo la necessità di una scelta fra l'esperienza di GS e quella del Movimento Studentesco. Nemmeno ritenevo, come poi teorizzeranno alcuni, che l'esperienza di GS dovesse confluire nel Movimento Studentesco. L'esperienza di GS era ciò che mi definiva profondamente. Era per rispondere alla vocazione che nasceva da quell'esperienza che avevo cambiato università e facoltà». Nonostante quell'iniziale simpatia, due anni dopo troviamo Formigoni nella trincea di Lecco, a respingere gli assalti del Movimento Studentesco. Perché? «Quella prima fase durò molto poco: nel giro di un paio di mesi divenne chiaro a me e ad altri che il Movimento Studentesco era una vera e propria organizzazione, nella quale la componente di critica politica - che io non condividevo - era dominante. L'ideologia si conquistava più spazio giorno dopo giorno.
Dopo poco apparvero i primi cortei con le gigantografie di Marx, Lenin, Mao Zedong e Stalin. Nelle università e nei licei il clima divenne soffocante, chi non concordava con le posizioni dell'ultima fazione che aveva prevalso nell'assemblea precedente veniva zittito».
Formigoni non è investito dalla crisi di identità che colpisce tanti giessini e li spinge fra le braccia del Movimento Studentesco. «L'università non era la mia realtà di riferimento, il mio luogo di alimentazione era la comunità di GS di Lecco. Quella era un'esperienza forte che mi faceva avere un criterio di giudizio e mi metteva al riparo dalle incertezze. La crisi investì le comunità nelle quali i responsabili si lasciarono sedurre dal discorso del Movimento Studentesco e si tirarono dietro i ragazzi, e quelle di Milano perché la diocesi aveva allontanato don Giussani dalla guida di GS: la mancanza del Gius si sentiva moltissimo. A Lecco, Gallarate, Busto Arsizio il Sessantotto non ha messo in crisi Gs».

Ho perso degli amici
L'esodo dei giessini milanesi assomiglia a un brutto sogno: «Ho perso degli amici. Ho presente facce, nomi e cognomi. Ho presente il rapidissimo cambiamento nel loro modo di essere, l'inaridirsi della fede e l'imporsi in loro dell'ideologia e del primato di un'analisi storico-sociologica che poteva avere il suo valore, ma che non meritava tanta passione. Non ci si può innamorare di un'analisi, soprattutto gente come noi che era stata educata al cristianesimo come fatto, come esperienza vissuta. Invece in loro si notava proprio l'infatuazione per l'analisi politica e una perdita di contatto con la realtà. La nebbia saliva e faceva scomparire quello che fino a poco prima era stato l'elemento determinante della vita». Oggi si fatica a credere che nei primi anni Settanta, all'indomani dell'invasione dei carri armati sovietici a Praga e degli orrori della Rivoluzione culturale in Cina, con Cuba trasformata in una dittatura e Stalin denunciato già da quindici anni dagli stessi comunisti sovietici, il marxismo e gli ideali comunisti potessero esercitare tanta attrazione nei giovani europei.
«A determinare il clima culturale del Sessantotto non era tanto il marxismo, quanto il pensiero di Herbert Marcuse e la sociologia filosofica della Scuola di Francoforte. È la loro critica della società occidentale, di quella che Marcuse chiama la "tolleranza repressiva della società unidimensionale" che affascina tanti. Chi la fa propria si sente alla moda e capace di comprendere il mondo. Ma a fianco di questo, appaiono le mega foto di Stalin, Mao e Lenin nei cortei. Ricordo lo slogan che ho sentito decine di volte: "Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung, viva il compagno Giuseppe Stalin terrore dei fascisti, terrore dei borghesi". Quindici anni dopo il XX congresso del Pcus! Era l'evidenza di una violenza e di una regressione che si stavano imponendo a tutta la società».
Naturalmente non tutti gli studenti della famosa assemblea alla Cattolica di Milano sono finiti in quei cortei. «La storia di chi "ha fatto il Sessantotto" è variegata come variegato fu nella fase nascente il Sessantotto stesso: c'è chi è finito nei cortei, chi non ha accettato di non poter imporre la propria egemonia politica e ha preso la scorciatoia terrorista, chi ha imparato in quegli anni a diventare padrone e lo ritroveremo più tardi in posizioni di rilievo nel mondo dell'economia, della finanza, dei media. Ma ci sono anche quelli che se ne vanno delusi, ci sono i fallimenti personali, i suicidi e i morti per overdose che saranno raccontati dal quotidiano Lotta Continua. E ci sono quelli che tornano in Gs, nel frattempo diventato Cl. Quando nel 1980 inauguriamo il primo Meeting di Rimini, il mondo dell'impegno giovanile in Italia è un deserto, perché tutte le esperienze nate dal Sessantotto sono sfiorite».

Tutto da buttare?
Questo significa che non c'è niente da salvare di quegli anni? Magari la lotta contro il formalismo nei rapporti sociali, l'impegno a cambiare il mondo secondo giustizia, la critica al consumismo? «Molti giovani si sono avvicinati al Movimento del Sessantotto esattamente per queste motivazioni, che sembravano accolte da uno spirito di apparente pluralismo. Ma è durato pochi mesi. L'afflato interessante e positivo si perde subito e subentra una volontà egemonica, ideologica (Marx-Marcuse) e violenta». Si potrebbe pensare che l'impegno politico di Formigoni, oggi come ieri, si ispiri anche a questo "buono" del Sessantotto soffocato sul nascere. Così non è: «Il Formigoni pubblico non c'entra nulla col Sessantotto, il Formigoni pubblico è il frutto dell'esperienza esaltante di Comunione e Liberazione dei primi anni Settanta. Anni nei quali proclamarsi cristiani, soprattutto in ambito politico, in università, in fabbrica comportava un'assunzione di responsabilità, una sfida all'egemonia culturale dominante e il rischio molto concreto di prendere le botte».
Sono gli anni in cui il futuro governatore della Lombardia, dopo essersi laureato con una tesi su Epicuro ed il giovane Marx, si trasferisce a Milano e diventa un responsabile della Redazione culturale di Cl e del mensile del movimento. Sono gli anni delle aggressioni ai ciellini ai cortei del Primo Maggio, delle librerie bruciate, dell'inagibilità politica di università e licei. «Era vivere in una tensione continua, ma era anche manifestare una passione continua. Sono stati anni di unità fortissima tra di noi, con don Giussani e i responsabili del movimento. Sono gli anni che mi hanno segnato e formato in profondità. Il Sessantotto, diciamola tutta, dopo la confusa fase nascente è stato un grande movimento borghese. Attraverso di esso la borghesia ha assunto le redini della critica alla società che pure aveva contribuito a costruire e ha completato il superamento della società contadina». Siamo sicuri che saprebbe spiegarlo anche a una piazza di metalmeccanici.













































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