L'articolo del cardinal Tettamanzi e la replica dei medici cattolici
Giuliano Ferrara il Foglio 14 luglio 2008
Lo stile di certi uomini di chiesa è ammirevole per tatto e ritegno, questo è sicuro, ma non so quanto efficace allo scopo di conservare la fede e di dare buone battaglie. Nell’anno paolino e nell’anno del sinodo sulla Parola si sente una debolezza di significante, di forma, che infiacchisce anche il significato della predicazione apostolica, il suo contenuto, la sua capacità persuasiva o di annuncio. Noi laici, modestamente e lateralmente convinti di una decisiva funzione pubblica della religione, spesso siamo sorpresi dalla poca fiducia di alcuni testimoni di Gesù nella forza sociale e civile della loro stessa parola cristiana.
“Essere cristiani senza dirlo”, secondo l’Idealtypus scelto un paio di anni fa da Dionigi Tettamanzi per combattere imposture e strumentalizzazioni, per sradicare anche solo la tentazione di un uso politico della religione, può funzionare come un marchingegno sofisticato per abbandonarsi allo spirito e ascoltarlo soffiare dove vuole lui, ma può comportare il rischio di non sapere più dirsi cristiani. Perché non sappiamo più dirci cristiani: un Croce cattolico dovrebbe forse riflettere su questa afasia del pulpito, che tende a mettere in contestazione la chiesa quando dice cose significative, quando parla come un Giovanni Paolo II o un Benedetto XVI, ma anche come un Biffi o un Caffarra o un Ruini, e ad assolverla quando si limita alla metodologia pastorale, per quanto di altissima qualità, dando segni di irrilevanza.
Ho letto un lungo articolo su Avvenire firmato appunto dall’Arcivescovo di Milano. Esponeva la sua posizione di credente, di cittadino e di vescovo nel caso di Eluana Englaro, la donna a cui per sentenza giudiziaria saranno sospese alimentazione e idratazione, finché morte non sopravvenga, dopo sedici anni di vita senza coscienza relazionale, passati nell’amore e nell’assistenza delle suore Misericordine nella città di Lecco.
Un testo impeccabile, quello del cardinale Dionigi Tettamanzi, che certo non attirerà accuse di interferenza nella vita civile italiana, che sicuramente non provocherà polemiche di alcun genere con i guru della cultura laicista e del suo centralissimo “diritto di morire”, un articolo che ovviamente non offenderà alcuna sensibilità e lascerà impregiudicato il tema di cui si occupa nella viva coscienza dei credenti e dei cittadini e forse anche del clero diocesano. Ma è questo che ci si deve aspettare da un vescovo, nella tempesta di idoli che furoreggia intorno al tema della vita umana?
Alle parole di Tettamanzi manca quasi nulla. C’è un riferimento al carattere misterioso della vita come dono trascendente al di là della ragione e come sfida alla nostra libertà, pressoché inevitabile in una prosa cristianamente ispirata, il tutto molto ben detto e argomentato.
C’è il Vangelo di Marco e il risveglio della figlia di Giairo, che dorme e non è morta, e può “miracolosamente” rialzarsi per rivivere e poi morire fino alla resurrezione della carne. C’è l’idea che l’intelligenza della vita esige che la si renda sostanza di cose sperate, che la vita si radichi nella forma sacra dell’inviolabilità e della fede nel futuro vissuta nel presente. C’è ovviamente il comandamento di non uccidere. Ma l’articolo si propone e si autocomprende come un intervento in punta di piedi, che non fissa confini in nome della verità, non stabilisce le condizioni di una scelta secondo giustizia, non azzarda giudizi che implichino la decisione responsabile nella direzione auspicata.
Gli argomenti più seri e forti si sminuzzano e si disfano alla fine nel metodo, e non si capisce se si debba lasciare Eluana alle suore Misericordine che l’hanno curata con amore o invece staccare quel sondino e provocare una morte lenta e dolorosa. Che cosa si debba fare, a parte coltivare la riflessione di coscienza, e come ci si debba comportare: questo non si capisce, su questo c’è pensiero tiepido, glossa alla vita reale senza sporcarsi la penna, le mani, il cuore.
Non so se ci avete fatto caso. La prudenza è una virtù anche nelle culture laiche. Ma quando si occupano di questi argomenti, media e maestri di pensiero e di vita secolaristi gettano la prudenza alle ortiche, e si battono con una speciale determinazione a prevalere. E diciamo la verità: prevalgono.
Sono loro a battere il tamburo dello scandalo e a stabilire come dobbiamo non soltanto pensare, ma anche sentire la cosa. Nello stesso giorno in cui Avvenire entrava con l’Arcivescovo di Milano nel suo caso diocesano di Eluana Englaro, naturalmente in punta di piedi, Repubblica stampava in prima pagina una apologia del suicidio non già come malinconica eccezione ma come euforico metodo per sbarazzarsi del dolore e della sofferenza. Il prossimo passo di una comunità che forgia la propria intimità di vita nel racconto eutanasico delle Invasioni barbariche di Denys Arcand, e non in punta di piedi.
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