Invece il Comitato rigetta la statistica come criterio, e riporta al centro il singolo bambino prematuro. Non contano le tabelle, le percentuali, le possibilità sulla carta: conta lo sguardo del neonatologo su 'quel' bambino, e la chance che, se è vitale, gli si deve dare.
Lo sguardo del neonatologo su «quel bimbo»di Marina Corradi
Tratto da AVVENIRE del 1 marzo 2008
Se presenta segni di vitalità il neonato prematuro deve essere rianimato, indipendentemente dall’età gestazionale e anche dal consenso dei genitori. Il parere espresso – a larga maggioranza – dal Comitato nazionale di bioetica non prevede alcuna 'età' minima del feto. Chiede semplicemente che sia vitale, e affida questo giudizio alla scienza e coscienza del medico.
Un pronunciamento netto, che per essere compreso va letto dentro la logica di sale parto in cui i secondi per decidere sono pochissimi, e gli elementi di valutazione frequentemente incerti: a cominciare dalla stessa età gestazionale, che spesso non è accertabile con assoluta precisione. Pochi secondi, per scegliere tra la vita e la morte.
In base a cosa decidere? In alcuni Paesi nordici il paletto è rigido, sotto alle 24 settimane non si rianima – eccessivi i costi delle cure, e degli eventuali handicap. È la linea espressa mesi fa da una bozza di documento di medici italiani, che ipotizzavano una soglia per la rianimazione a 23 settimane. Invece il Comitato rigetta la statistica come criterio, e riporta al centro il singolo bambino prematuro. Non contano le tabelle, le percentuali, le possibilità sulla carta: conta lo sguardo del neonatologo su 'quel' bambino, e la chance che, se è vitale, gli si deve dare.
La scelta del Comitato non vuole dire oltranzismo o accanimento terapeutico: se nell’istante del parto si deve dare una opportunità a tutti, viene poi il momento di valutare se ossigeno e terapie servono solo a ritardare una morte inevitabile, dunque se sono accanimento terapeutico. La sostanza del documento approvato non sta certo dunque in un vitalismo estremista, ma nel rifiuto a fissare limiti aprioristici e rigidi alla rianimazione; sta in un 'no' a una medicina astratta, e in un 'sì' alla valutazione, ogni volta, di ogni singolo caso.
È, in fondo, una questione di contrapposte culture. Quella olandese che nega l’ossigeno se un prematuro non ha 24 settimane è una evidence based medicine scrupolosamente attenta alle statistiche di sopravvivenza e agli handicap più o meno gravi, nonché ai costi di certe patologie, in un’ottica già in odore di eugenetica. Se la 'finestra' di possibilità di vita in perfetta salute appare troppo stretta, certa sanità nordica non si mette nella sfida.
Calcola per numeri, e non singole possibilità di vita. La mediterranea differenza che ci auguriamo il pronunciamento di ieri possa preservare è nell’attenzione a ogni uomo come a qualcosa di irripetibile; e, anche, in un rinnovato patto di fiducia con i medici, cui non vuole dare norme precostituite, ma dice solo: valuta tu se quel figlio è vitale, sei un medico, ci fidiamo di te.
Antica, insopprimibile alleanza: può forse la legge decidere nei dettagli cosa è da fare nel qui e ora drammatico e imponderabile di una sala parto? Quel giudizio non può essere che del medico: e anche senza il consenso dei genitori. Il consenso invece verrà chiesto per proseguire le cure, nel caso si proceda a una sperimentazione.
Ma, nell’atto di dare una estrema irripetibile chance, nessun consenso deve essere chiesto. Perché il figlio, una volta separato dalla madre, nel Diritto occidentale diventa titolare di un proprio diritto alla vita. Solo in certe culture primitive il nato è 'cosa' nella disponibilità del padre.
La larga maggioranza ottenuta dal documento conforta. Tra tanti scontri, almeno qualcosa di condiviso: ogni nato vitale va rianimato, senza statistiche, senza permessi. Perché non appartiene né a sua madre né a suo padre. È, semplicemente, un uomo.
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