domenica 2 marzo 2008

NO A LIMITI APRIORISTICI

Invece il Comita­to rigetta la statistica come criterio, e riporta al centro il singolo bambino prematuro. Non contano le tabelle, le percentuali, le possibilità sulla car­ta: conta lo sguardo del neonatologo su 'quel' bambino, e la chance che, se è vitale, gli si deve dare.

Lo sguardo del neonatologo su «quel bimbo»di Marina Corradi

Tratto da AVVENIRE del 1 marzo 2008




Se presenta segni di vitalità il neo­nato prematuro deve essere ria­nimato, indipendentemente dall’età gestazionale e anche dal consenso dei genitori. Il parere espresso – a lar­ga maggioranza – dal Comitato na­zionale di bioetica non prevede al­cuna 'età' minima del feto. Chiede semplicemente che sia vitale, e affi­da questo giudizio alla scienza e co­scienza del medico.

Un pronunciamento netto, che per essere compreso va letto dentro la lo­gica di sale parto in cui i secondi per decidere sono pochissimi, e gli ele­menti di valutazione frequentemen­te incerti: a cominciare dalla stessa età gestazionale, che spesso non è ac­certabile con assoluta precisione. Po­chi secondi, per scegliere tra la vita e la morte.

In base a cosa decidere? In alcuni Paesi nordici il paletto è rigido, sotto alle 24 settimane non si rianima – ec­cessivi i costi delle cure, e degli e­ventuali handicap. È la linea espres­sa mesi fa da una bozza di docu­mento di medici italiani, che ipotiz­zavano una soglia per la rianimazio­ne a 23 settimane. Invece il Comita­to rigetta la statistica come criterio, e riporta al centro il singolo bambino prematuro. Non contano le tabelle, le percentuali, le possibilità sulla car­ta: conta lo sguardo del neonatologo su 'quel' bambino, e la chance che, se è vitale, gli si deve dare.

La scelta del Comitato non vuole di­re oltranzismo o accanimento tera­peutico: se nell’istante del parto si deve dare una opportunità a tutti, vie­ne poi il momento di valutare se os­sigeno e terapie servono solo a ritar­dare una morte inevitabile, dunque se sono accanimento terapeutico. La sostanza del documento approvato non sta certo dunque in un vitalismo estremista, ma nel rifiuto a fissare li­miti aprioristici e rigidi alla rianima­zione; sta in un 'no' a una medicina astratta, e in un 'sì' alla valutazione, ogni volta, di ogni singolo caso.


È, in fondo, una questione di con­trapposte culture. Quella olandese che nega l’ossigeno se un prematu­ro non ha 24 settimane è una eviden­ce based medicine scrupolosamente attenta alle statistiche di sopravvi­venza e agli handicap più o meno gra­vi, nonché ai costi di certe patologie, in un’ottica già in odore di eugeneti­ca. Se la 'finestra' di possibilità di vi­ta in perfetta salute appare troppo stretta, certa sanità nordica non si mette nella sfida.

Calcola per nume­ri, e non singole possibilità di vita. La mediterranea differenza che ci au­guriamo il pronunciamento di ieri possa preservare è nell’attenzione a ogni uomo come a qualcosa di irri­petibile; e, anche, in un rinnovato patto di fiducia con i medici, cui non vuole dare norme precostituite, ma dice solo: valuta tu se quel figlio è vi­tale, sei un medico, ci fidiamo di te.

Antica, insopprimibile alleanza: può forse la legge decidere nei dettagli co­sa è da fare nel qui e ora drammatico e imponderabile di una sala parto? Quel giudizio non può essere che del medico: e anche senza il consenso dei genitori. Il consenso invece verrà chiesto per proseguire le cure, nel ca­so si proceda a una sperimentazio­ne.

Ma, nell’atto di dare una estrema irripetibile chance, nessun consenso deve essere chiesto. Perché il figlio, u­na volta separato dalla madre, nel Di­ritto occidentale diventa titolare di un proprio diritto alla vita. Solo in cer­te culture primitive il nato è 'cosa' nella disponibilità del padre.

La larga maggioranza ottenuta dal documento conforta. Tra tanti scon­tri, almeno qualcosa di condiviso: ogni nato vitale va rianimato, senza statistiche, senza permessi. Perché non appartiene né a sua madre né a suo padre. È, semplicemente, un uomo.

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