Chi salverà l’uomo nuovo?Un esempio di mano artificiale costruito al Mit di Cambridge, in Massachusetts.
DI CAMILLO RUINI
tecnica e libertà
Vorrei tentare di scandagliare le motivazioni più profonde dell’emergenza educativa, che è sotto gli occhi di tutti e che riguarda moltissimi Paesi, gran parte dei quali hanno il cristianesimo tra le principali matrici della loro cultura.
L’educazione e la formazione della persona, non entrando qui nella questione della differenza tra le due nozioni, hanno anzitutto e necessariamente a che fare con la persona stessa, ossia con l’uomo, inteso nel senso di essere umano, comprensivo della differenza tra uomo e donna.
Quando dunque non è chiaro, o cambia profondamente il senso che attribuiamo alla parola 'uomo', e ancor più radicalmente quando, come è oggi il caso, entra in gioco la possibilità, almeno ipotetica, di un cambiamento, per nostra iniziativa, dell’essere dell’uomo, non possono non entrare a loro volta in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i parametri educativi.
Se guardiamo alle coordinate culturali che caratterizzano il nostro tempo, e che appaiono esse stesse in rapido movimento, siamo pressoché obbligati a riconoscere che ci ritroviamo in una tale situazione.
All’origine e alla guida di essa sta chiaramente la razionalità scientifico-tecnologica: un suo aspetto recente, in veloce sviluppo e particolarmente incisivo, è l’applicazione all’uomo delle biotecnologie, che rimangono comunque completamente all’interno del cammino globale della razionalità scientifico-tecnologica, in un’interdipendenza che riguarda non solo le possibilità di sviluppo nei singoli campi ma anche la direzione di marcia complessiva.
Così, ad esempio, le biotecnologie e le neuroscienze hanno molto a che fare con l’informatica, ivi compresi gli sviluppi delle cosiddette 'intelligenze artificiali', mentre per un altro verso l’attuale biologia umana è difficilmente concepibile al di fuori del quadro generale dell’evoluzione biologica, che a sua volta si pone in stretta continuità con l’evoluzione cosmica.
Il risultato che sembra emergere, riguardo all’uomo, dal convergere di questi fattori è quello, da una parte, di una riconduzione del soggetto umano – ma nel linguaggio dei biologi si parla piuttosto della specie homo sapiens sapiens
– all’interno del macroprocesso evolutivo, con la tendenza a considerare decisiva la continuità del processo stesso rispetto alle differenze che si generano al suo interno. Così i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l’intelligenza e la libertà, non vengono certo negati, ma considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente: nella stessa definizione classica dell’uomo come animal rationale,
la differenza specifica rationale finisce per perdere quel rilievo di insormontabile differenziale ontologico che le è appartenuto nella nostra civiltà.
D’altra parte però, guardando non al passato ma al presente e al futuro, l’accento si sposta di nuovo su ciò che appartiene all’uomo in esclusiva, nel senso che le capacità scientifico-tecnologiche da lui acquisite sono giunte ormai a una fase del loro sviluppo che parrebbe consentire un potenziamento radicale della nostra specie, il suo miglioramento e anche il suo superamento, in un processo evolutivo il cui propulsore non risiederebbe più nella natura ma nell’intelligenza umana, più precisamente nell’intelligenza scientifico-tecnologica, e i cui ritmi di sviluppo sarebbero per conseguenza non quelli lentissimi della natura ma quelli rapidissimi della tecnologia.
Così proprio quell’intelligenza che viene considerata frutto dell’evoluzione cosmica e poi biologica si sostituirebbe in certo modo alla natura stessa, affermando un suo totale primato e dominio, il cui esito positivo e non distruttivo resta affidato, in ultima analisi, soltanto a un uso corretto e ragionevole della nostra libertà.
Chi voglia avere un quadro sintetico, ma molto informato e assai ben organizzato, di queste prospettive sul nostro passato e sul nostro futuro può leggere il piccolo libro di Aldo Schiavone Storia e destino,
pubblicato quest’anno da Einaudi.
Viene spontaneo osservare che in questo modo il soggetto umano riacquista, in forma nuova e profondamente diversa, un’assai concreta centralità, almeno in quella parte dell’universo che oggi possiamo osservare in maniera sufficientemente particolareggiata e in cui non si incontrano altri viventi dotati di intelligenza. Nello stesso tempo si ripropone il paradosso dell’uomo, in termini diversi da quelli a cui ci ha abitua- to la tradizione cristiana ma in certo senso ancora più radicali, e sicuramente ben più problematici: l’uomo infatti finisce per essere quello 'snodo' nel quale un universo che non è altro che materia-energia diventa razionalità, e in qualche modo responsabilità e libertà, che assume il controllo totale della stessa materia-energia.
Varie altre domande si pongono riguardo a una tale maniera di concepire e spiegare l’uomo e il suo posto nel mondo. Anzitutto quella se possa assumersi come decisivo criterio esplicativo soltanto la stretta connessione che indubbiamente esiste tra i processi mentali e il funzionamento dell’organo cerebrale, oltre che il formarsi di questo organo attraverso i processi evolutivi, senza prendere in altrettanto seria considerazione un approccio diverso, che parte dall’esame delle 'prestazioni' di cui sono capaci la nostra intelligenza e la nostra libertà, in concreto da quella capacità di produrre cultura che è propria ed esclusiva dell’uomo e che ha dato luogo, attraverso i millenni, a uno sviluppo gigantesco e sempre crescente, all’interno del quale emergono 'punte' estremamente significative, come l’attitudine ad assumere responsabilità etiche, il rigore e l’efficacia del pensiero logico, la creatività estetica.
Si tratta certamente di un approccio in ultima analisi filosofico, che risale al pensiero classico, ma questo non è un motivo sufficiente per ritenerlo irrilevante, a meno di postulare che l’unica forma di conoscenza attendibile sia quella che ci viene attraverso la razionalità scientifico- tecnologica, con un ragionamento che in realtà è a sua volta di tipo filosofico e si è da tempo rivelato privo di consistenza.
Un’ulteriore domanda nasce intorno all’ottimismo con il quale spesso si guarda alla capacità della razionalità scientifico- tecnologica di assumere la guida dei processi di trasformazione dell’uomo e di assicurarne esiti positivi e beluppi.
«Al nichilismo che sembra insidiare i giovani d’oggi, non basta indicare, come fa Galimberti, il ritorno alla 'misura greca'.
Il loro desiderio di assoluto è una conquista del cristianesimo che difficilmente può essere messa a tacere»
nefici, dimenticando che questa razionalità prescinde, per il suo stesso impianto metodologico, dai problemi del significato e dei fini della nostra esistenza. Inoltre, e più concretamente, questa razionalità si incarna nell’insieme degli uomini che fanno ricerca e interagisce sempre più intensamente con tutti gli enormi interessi economici, politici, e anche ideologici, che sono collegati con i grandi e rapidissimi sviluppi scientifico-tecnologici.
Queste e altre possibili domande non devono però farci perdere di vista un dato di fondo: rimane vero che è incominciata, con l’applicazione all’uomo delle biotecnologie e con tutti gli altri sviluppi tecnologici connessi, una fase nuova della nostra esistenza nel mondo, della quale siamo solo agli inizi e che appare destinata ad accelerarsi e a produrre effetti estremamente rilevanti e potenzialmente pervasivi di ogni dimensione della nostra umanità, effetti che oggi è ben difficile, per non dire impossibile, prevedere nei loro concreti esiti e svi-
È ugualmente vero che questa nuova fase non appare arrestabile: di più, essa, per quanto impegnativa e carica di rischi, va sinceramente favorita e promossa, perché rappresenta uno sviluppo di quelle potenzialità che sono intrinseche all’uomo, creato a immagine di Dio. Occorre però liberarsi da una visione deterministica degli sviluppi che ci attendono: in quanto opera dell’uomo, e non astrattamente delle tecnologie, essi possono e devono essere orientati in modo che vadano a favore, e non a detrimento, dell’uomo stesso.
Siamo rimandati così al senso della parola 'uomo', al valore che attribuiamo al soggetto umano, in noi e nel nostro prossimo, al modo in cui viviamo e all’uso che facciamo della nostra libertà. Quella dell’uomo, infatti, non è mai una questione soltanto teoretica, ma sempre anche decisamente pratica, nella quale entra in gioco il tutto di noi stessi, con la nostra intera soggettività: ben diverso, ad esempio, è vivere come se l’uomo fosse soltanto una 'sporgenza' della natura, o avesse invece una dignità inviolabile e un destino eterno. Nessuno pertanto può pretendere di conoscere davvero l’uomo per una via puramente 'neutrale', oggettiva e 'scientifica':
gli sfuggirebbe quello che è proprio dell’uomo, il suo essere soggetto e non soltanto oggetto.
In concreto, per orientare a favore dell’uomo la nuova fase che si sta aprendo, è dunque molto importante quale immagine, quale ideale e quale esperienza vissuta dell’uomo portano con sé quanti lavorano direttamente nel campo delle biotecnologie e degli ambiti scientifici ad esse collegati, e alla fine è ancora più importante l’immagine e l’esperienza dell’uomo che prevale nello spazio complessivo della cultura e della società, a livello di una nazione, di una civiltà e ormai sempre più dell’intera umanità. (...) La difesa dell’uomo assume un rilievo concreto che cresce esponenzialmente adesso che diventa possibile la sua trasformazione attraverso le biotecnologie. Non dobbiamo temere, insistendo in questa difesa, di essere di nuovo in ritardo sui tempi. In primo luogo non si tratta infatti, per la fede cristiana e per la Chiesa, di un’opzione provvisoria e rinunciabile: come ha affermato Benedetto XVI nell’omelia all’ordinazione episcopale dello scorso 29 settembre, «cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo?». Proprio questo costituisce «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) e in questa pienezza l’uomo trova il suo posto definitivo e la forma più alta possibile e umanamente impensabile di unione con Dio, nella persona del Figlio. Sta qui la ragione di fondo per la quale la grandezza dell’uomo, insieme alla sua fragilità, la sua collocazione storica ma anche escatologica, non possono essere considerate semplicemente come un assunto teologico modificabile e ridimensionabile a seconda degli sviluppi storici, come lo sono invece altre affermazioni teologiche che pure sono apparse per lungo tempo indiscutibili.
Negli anni ’60 ebbe un’effimera fortuna la 'teologia della morte di Dio', che cercava di venire a patti, in forme e misure diverse, con l’ateismo. Ugualmente effimero sarebbe il destino di un pensiero cristiano che volesse incorporare la 'morte dell’uomo', oggi soprattutto per accordarsi con certe interpretazioni, attualmente assai diffuse, del significato e dei risultati più o meno prevedibili dell’applicazione all’uomo della razionalità scientifico-tecnologica.
Ènoto e sostanzialmente acquisito che questa razionalità, finché rimane sul suo piano, non può porsi il problema di Dio, a motivo dei propri intrinseci limiti metodologici, che sono la condizione stessa dei suoi grandi successi: in questo senso si può parlare legittimamente di un suo 'ateismo metodico'. Non di rado però, con motivazioni che possono essere tra loro assai diverse ma che in larga misura si riconducono alla tendenza della ragione umana ad essere autosufficiente, si passa dall’ateismo metodico a quello contenutistico, e a volte programmatico, o almeno – e più spesso – a posizioni agnostiche, ritenendo di potersi richiamare per questo alla razionalità scientifica, ma lasciandosi guidare invece da sue interpretazioni talvolta ideologiche.
(...) È uscito in questi ultimi giorni, presso Feltrinelli, un libro di Umberto Galimberti che ha un titolo assai significativo:
L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Esso riconduce il malessere che appare diffuso tra la gioventù a una causa culturale, l’atmosfera nichilista del nostro tempo. Non mi sento di assumere
in toto la descrizione assai preoccupata che Galimberti fa dello stato d’animo dei giovani, e non posso certo condividere la via d’uscita che egli indica, ossia il ritorno a una 'misura' della vita tipo quella della grecità classica, ritorno motivato con il fatto che Dio sarebbe «davvero morto» e quindi sarebbe vana la ricerca di un senso in qualche modo assoluto della nostra esistenza. Rimane però il fatto che è difficile negare il legame tra gli aspetti più inquietanti della vita nella nostra società – in particolare ma non unicamente tra i giovani – e la presenza pervasiva del nichilismo. (...) A mio modesto parere il nichilismo non costituisce il nostro destino epocale non superabile positivamente, come ha ritenuto Heidegger dopo Nietzsche, ma rappresenta pur sempre una specie di spirito del nostro tempo ( Zeitgeist), che si riconduce anzitutto a ciò che Nietzsche ha denominato la morte di Dio.
Questa infatti sembra essere la vera radice sia della 'transvalutazione' di tutti i valori sia del fenomeno complessivo del nichilismo: nel fare questa diagnosi Nietzsche è stato non solo il primo ma anche il più penetrante.
Diversamente da quel che pensa Galimberti, ed altri con lui, il ritorno alla misura greca appare d’altronde assai poco praticabile, perché due millenni di cristianesimo hanno risvegliato in maniera difficilmente sopprimibile quella nostalgia di un senso assoluto che è al fondo del nostro essere di uomini, e anche perché quella 'nuova fase' in cui sta entrando la nostra esistenza sulla terra sembra richiedere un atteggiamento ben più dinamico e aperto al futuro di quello che la 'misura' greca implica e sottintende. Proprio attraverso le ombre del nichilismo, e per tentare di non rimanere prigionieri di esse, siamo dunque rimandati ancora una volta al legame tra uomo e Dio.
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