. «In situazioni estreme, la lucidità di sguardo del paziente verso se stesso e la sua situazione è ben lungi dal potersi considerare obiettiva. Si affaccia sempre il rischio che altri diventino interpreti di una volontà non formulata».
Settimane sociali • Dalla nascita alla morte dallo sviluppo alla malattia, la riflessione sul «bene più prezioso» D’Agostino: «Il vero pericolo è l’avvento del post umano»
di Giorgio Ferrari
Tratto da AVVRNIRE del 21 ottobre 2007
Tra famiglia e biopolitica è in atto una guerra epocale. Ma la biopolitica viene da lontano e con essa i pericoli che reca con sé. Dalla «Politica» di Aristotele, passando attraverso il «Leviathan» di Thomas Hobbes, essa è giunta ormai ai giorni nostri mostrando il volto di un paradigma perverso, rischioso per l’uomo e la sua dignità, foriero di impensati pericoli e di esiti sconosciuti, interpretazioni capziose di volontà astratte, derive che preannunciano - come tanti «post» che hanno scandito la fine di un pensiero o di un’epoca - l’avvento del «post-umano».
Una vera «lectio magistralis», quella di Francesco D’Agostino, tenuta ieri mattina a Pisa nel corso della Settimana sociale, che senza adottare toni apocalittici o messianici ha inchiodato la modernità e il tecnicismo sociale che l’accompagna come un cilioso guardiano alla responsabilità severa di fare dell’uomo un oggetto e delle leggi un carcere normativo.
Nell’ispido percorso concettuale che passa dalla sapienza greca all’alienazione della libertà individuale hobbesiana fino alla bioetica e alle sue insidie contemporanee, D’Agostino, la cui lezione s’inquadrava nel contesto del bene comune, ha ammonito: «Meno si legifera sulla vita e più si rispetta la natura. Il compito che aspetta la nostra generazione è essenzialmente quello di aprire gli occhi sulla realtà di un potere pervasivo e impersonale che, assimilando corpo biologico e corpo politico, toglie al primo la sua identità e al secondo la sua dignità spingendo l’individuo verso un’irrevocabile omologazione biopolitica. Talvolta – dice D’Agostino – si legifera addirittura in modo che fra uomini e animali non vi sia alcuna differenza».
Parole che al di là della loro necessa- ria complessità non fanno altro che sollevare il velo sul rischio immanente che l’uomo d’oggi – molto più che un tempo – corre di fronte alla spinta impetuosa del potere, ossia di quella biopolitica che «giunge a svuotare i concetti di vita e di morte, di salute e di malattia, di terapia e di cura di ogni specificità naturalistica e scientifica, oltre che, ovviamente antropologica». E non solo soltanto i regimi totalitari ad avere disposto della vita e della dignità dell’uomo, poiché «quando questi sono tramontati, la biopolitica ha potuto continuare a svilupparsi prendendo altre strade, con una pervasività inquietante, con la pretesa eterna di gestire la nuda vita, autorizzandone l’esistenza o almeno sindacandone la stessa legittimazione sociale».
Sul banco degli imputati, non si fa fatica a comprenderlo, tutte le scelte che la politica e il legislatore hanno sacralizzato attorno alla tematica della vita. Come l’aborto, «pratica comune nella storia e in genere tollerata in tutte le società da noi conosciute, ma che solo in un contesto biopolitico consolidato ha acquisito un’inedita rappresentazione simbolica, elaborando la pretesa di essere riconosciuto alla stregua di un diritto fondamentale». O anche il dibattito che si va instaurando attorno alla pretesa legalizzazione dell’eutanasia, che «come l’aborto – che si è trasformato da decisione tragica e personalissima di alcune donne in una pratica sociale di regolamentazione delle nascite – così l’eutanasia si è trasformata da atto omicida eccezionale, estremo, tragico e pietoso in una pratica di gestione burocratica e biopolitica della fine della vita umana». Duro il «j’accuse» di D’Agostino: «In apparenza i fautori dell’eutanasia vogliono semplicemente legalizzare quello che essi chiamano il «suicidio assistito» e poiché questa espressione può apparire troppo ruvida, ecco l’invenzione di opportuni eufemismi. Non so se merita più biasimo o più sarcasmo il titolo del disegno di legge, «Norme per regolamentare l’interruzione volontaria della sopravvivenza», presentato in Parlamento nella scorsa legislatura a firma di diversi senatori, perché, pur nella stravaganza dell’acronimo utilizzato (Ivs, palese ricalco dell’ormai consolidato Ivs), esso ci aiuta a capire la sostanza biopolitica della questione della fine della vita umana. Il fatto che si cerchi di introdurre l’espressione interruzione della sopravvivenza, per qualificare la morte, indica l’incapacità conclamata del paradigma biopolitico di pensare alla vita, come ad un bene in sé».
Il vasto fronte della ricerca si schiude di fronte a noi. La bioetica, la medicina, la politica, la dignità umana: attori tutti sul medesimo palcoscenico, i cui ruoli però non sono interamente definiti e tutelati.
«Occorre – ha detto D’Agostino – difendere la scienza come ricerca pura e disinteressata. Non c’è niente di male nelle ricadute economiche della ricerca e nei brevetti; quello che c’è di male è se si fa ricerca solo in base agli interessi economici, come dimostra il completo abbandono della ricerca sulle malattie molto rare, perché il ritorno economico non è ampio, o viceversa la forte pressione sociale verso l’utilizzo della RU486, che avvantaggia l’economia nazionale francese». Vi è poi il rischio che il testamento biologico« possa portare a una gestione burocratica della fine della vita, codificando come legale l’abbandono terapeutico, una soluzione che metterebbe al riparo le strutture sanitarie da ogni tipo di rischio legale e fa anche risparmiare sotto il profilo economico».
«Una sola cosa – conclude D’Agostino – appare certa: il paradigma biopolitico va decostruito prima che esso giunga alla soglia irreversibile dell’implosione, prima cioè che apra le porte all’avvento post-umano».
«Sui valori umani non si negozi»
In assemblea si accende il dibattito sulle frontiere dell'esistenza: «Il criterio della salute perfetta, visione antropologica parziale»
di Francesco Ognibene
Solo pochi anni fa un dibattito sulla bioetica come quello che ha acceso ieri mattina la terza giornata della Settimana sociale di Pisa sarebbe stato impensabile, tanto un tema così tecnico e complesso sembrava estraneo all’azione sociale. Ma gli interrogativi sulle frontiere della vita hanno ormai occupato un posto centrale nell’impegno dei cattolici. Lo documentano i mille delegati rimasti per cinque ore filate ad ascoltare gli interventi, sommergendo poi i relatori con una trentina di riflessioni e domande, tanto da far slittare l’ora del pranzo ben oltre le due.
Con la sua «lezione» D’Agostino ha fatto vibrare la platea che ha poi dato una risposta all’altezza, sollecitata anche dalle altre relazioni di una mezza giornata di grande consistenza. La vita accende interessi e passioni, specie ora che la si vede «ridotta a oggetto biologico a disposizione degli scienziati», spiega Laura Palazzani, che insegna filosofia del diritto alla Lumsa di Roma e da pochi giorni è vicepresidente del Comitato nazionale di Bioetica. Il problema è che ormai «ci siamo abituati a veder considerare come persona solo chi è capace di autodeterminarsi», una visione che «taglia fuori intere categorie umane, a cominciare dagli embrioni». Ma c’è una frontiera etica insormontabile da qualsiasi argomentazione ispirata all’utilità o all’efficienza, criteri che s’insinuano nei criteri di giudizio correnti. Laura Palazzani la descrive così: «O tutte le fasi dello sviluppo dell’essere umano sono intangibili o non lo è nessuna, perché se prevale un qualsiasi accordo convenzionale allora tutto è possibile». Un esempio? L’idea di «persona a intermittenza, che è tale solo quand’è cosciente, e dunque non lo è più appena si addormenta». Guai a pensarla solo come una battuta, perché questo ben singolare concetto l’ha elaborato un filosofo iper-citato come Engelhardt.
Cos’è questa se non una «antropologia sbagliata», come la definisce il sociologo Sergio Belardinelli? Quello che D’Agostino ha chiamato «paradigma della biopolitica» per Belardinelli si basa sul «primato assoluto della vita biologica» che snobba l’altro paradigma, tutto cristiano, della «vita buona che vale non solo per la sua fisiologia più o meno ben riuscita ma soprattutto perché è capace di valori, come anche sacrificare se stessa per un bene superiore». Invece dilaga «la pretesa della salute perfetta», e se questa si incrina o viene meno allora «tutto è per- duto, perché la città dell’uomo è costruita per i sani, gli efficienti, i giovani, i belli, e si capisce che in una comunità così ogni tecnica è lecita se serve a garantire la conservazione della perfezione biologica». Davanti a questa mentalità è il caso di impuntarsi: «Non consentiamo che siano la medicina, il diritto, il potere a dire quale vita ha valore e in cosa consiste la nostra dignità». Ma tra i giuristi c’è chi storce il naso: «L’intervento del diritto non è un’espressione autoritaria del potere sulla biologia – obietta Enrica Palmerini, che insegna diritto privato alla prestigiosa Scuola superiore Sant’Anna di Pisa –, perché nelle sue forme inclusive difende l’uomo». Il problema è quando questo stile abbandona il diritto positivo pilotandolo in rotta di collisione con quello naturale, fondato sulla certezza che «la persona è un fine in sé» e che «qualcuno vale per il solo fatto di essere», come ricorda Marco Cangiotti, che all’Università di Torino ha la cattedra di filosofia politica. L’uomo continua a nascere com’è sempre stato, certo, ma si è iniziato anche a «fabbricarlo » in base a un «progetto»: e, si sa, «l’oggetto progettato è totalmente mio», un bene privato che appartiene a chi l’ha immaginato con caratteristiche ben determinate. Di questa esaltazione della fisiologia si nutre la biopolitica, ovvero – l’efficace definizione è di Cangiotti – «l’irruzione della sfera pubblica nelle dimensioni private del concepimento, della nascita e della morte, destinata a produrre un irrimediabile depotenziamento dell’umanità dell’uomo».
A questo punto fioccano gli interventi, e il moderatore Franco Garelli riesce nel piccolo miracolo di far parlare tutti (tra gli altri Maria Luisa Di Pietro, Paola Binetti, Carlo Casini, Egidio Banti, Olimpia Tarzia, Luisa Santolini e Luca Marconi). E la musica è quasi sempre la medesima: ci sono principi che non sono oggetto di alcuna trattativa. Qualcuno obietta: così però si va allo scontro, e la politica è l’arte della mediazione. Lo dice, per esempio, Giorgio Campanini: «Attenzione a non cedere alla logica del muro contro muro, l’intransigenza è controproducente». D’Agostino è garbato ma fermo nella replica: «Caro professore, ci sono punti su cui non si negozia. Non lo diciamo noi: lo dice la società civile. Qualcuno è disposto a mediare sulla tortura, la pena di morte o la pedofilia? No, vero? Allora trovo curioso che proprio sui temi della vita e della morte si tiri fuori l’argomento dei muri contrapposti. La questione antropologica è diversa da quella politica. Sono i valori umani a non poter essere oggetto di trattativa non perché cattolici ma proprio perché appartengono a tutti. E tenere il punto, mi creda, non è intolleranza».
«Testamento biologico, il rischio burocratizzazione»
La conferenza stampa di ieri è stata occasione per riflettere su terapia, accanimento e volontà del malato
di Antonio Giorgi
Il testamento biologico? «Attenti, tra i suoi molti elementi di rischio uno non viene mai presentato e valutato in maniera sufficientemente approfondita: è quello della burocratizzazione dell’abbandono terapeutico ». Ieri, durante la conferenza stampa, quando è toccato a Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del diritto a Tor Vergata, tradurre davanti ai rappresentanti dei media gli interventi della giornata della Settimana sociale, il discorso, che verteva sui temi elevati della biopolitica, si è soffermato sulle te- matiche del testamento biologico. Se l’atto in sè – puntualizza il professore – rappresenta la volontà consapevolmente espressa da un soggetto che intende rifiutare il proseguimento delle cure, entriamo nel campo di quella che tecnicamente può definirsi privatizzazione della decisione terapeutica. Solo che c’è un ma. «In situazioni estreme, la lucidità di sguardo del paziente verso se stesso e la sua situazione è ben lungi dal potersi considerare obiettiva. Si affaccia sempre il rischio che altri diventino interpreti di una volontà non formulata».
Cita il caso olandese, D’Agostino. Parla dei malati psichiatrici che per definizione non sono in grado di scegliere e decidere, sicché è il medico ad essere ritenuto «il miglior interprete della volontà del malato». Finisce che un dramma umano di incommensurabile portata viene banalizzato «a problema di gestione burocraticaamministrativa della fine di una vita». E quando, come succede in America e viene riferito dai media locali, le accettazioni ospedaliere insistono sui pazienti perché sottoscrivano moduli prestampati di testamento biologico, la finalità dell’operazione è chiara: impedire che l’ospedale debba farsi carico di eventuali «problemi di lungodegenza o di coma persistente».
Questa è la biopolitica che sta prendendo piede. Biopolitica però è anche quella di certe aziende farmaceutiche che investono somme colossali per cercare molecole meno costose in grado di rimpiazzare altre che funzionano ottimamente sul piano terapeutico ma hanno il difetto di costare parecchio. «Non mi si venga a dire che tutto ciò ha a che vedere con la salute del paziente ». Ma in materia di testamento biologico ci vuole una legge o no? Il quesito è rivolto alla professoressa Laura Palazzani (Filosofia del diritto alla Lumsa). È importante – chiarisce la Palazzani – difendere due principi, il no all’accanimento terapeutico e il parallelo riconoscimento del fatto che non si deve attribuire a chi non firma la volontà di essere soggetto di accanimento.
Ciò premesso, «il no all’accanimento è problema medico, non legislativo. Il vero problema che sta dietro è il no all’eutanasia». Certi progetti di legge possono aprire la strada proprio a questa pratica.
Che futuro avranno le Settimane sociali della Chiesa italiana? La domanda direttamente posta al professor Franco Garelli, preside di Scienze politiche a Torino, trova pronta risposta: «Come strumento di elaborazione culturale dei cattolici certamente persisteranno. Ripensiamo pure la loro formula, ma magari solo per riconfermarla ».
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