lunedì 31 dicembre 2007

NOTTE DI NATALE HAUTERIVE 2007

Accogliere e donare Cristo, è la vocazione di noi tutti, il senso pieno della nostra vita. È la disponibilità a vivere per accogliere e trasmettere il dono del Figlio di Dio presente nel mondo, ciò che trasforma gli uomini più modesti e insignificanti in protagonisti della storia. I pastori hanno capito che questa vocazione non è difficile o al di sopra delle nostre forze. Lungi dall’opprimerci, essa trabocca di gioia, perché tutta la sua sostanza è il dono che Gesù fa di se stesso, questa Notte, in questa Eucaristia, in ogni istante della nostra vita.

Letture: Isaia 9,1-6; Tito 2,11-14; Luca 2,1-20

«Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse».





Qual è questo popolo? Quali sono queste tenebre? Qual è questa terra tenebrosa?
Senza dubbio ci sono delle risposte storiche ed esegetiche a queste domande, ma il vangelo di questa notte accantona queste risposte, e, in fondo, le contraddice, perché questa notte sono i pastori dei dintorni di Betlemme che vedono la grande luce e che ricevono, con sovrabbondanza, la gioia e la letizia annunciate dal profeta Isaia.

Il vangelo contraddice, dicevo, perché il gruppo dei pastori di Betlemme è in fondo un non-popolo.

Senza terra, senza domicilio fisso, forse persino senza famiglia. Senza istruzione, senza legge, senza vita sociale all'infuori del loro piccolo gruppo e delle loro pecore.

Il popolo dei pastori non ha storia, non ha vere tradizioni; la sua genealogia assomiglia al loro gregge nella notte: si vede qualche pecora intorno a sé, poi il resto si perde nel buio, ma si sa bene che ciò che si perde nel buio non è diverso dalle pecore che si vedono. Anch’essi sono pastori, figli di pastori, figli di pastori, figli di pastori…, forse fino all'origine dell'umanità.

La loro tradizione è quasi un istinto: hanno imparato a custodire le pecore prima di essere coscienti che si possa imparare qualcosa.

Un giorno, non appena potevano tenersi in piedi e capire un ordine, loro padre ha detto loro: «Stai qui un momento e custodisci il gregge. Ritorno subito». Poi il «momento» è diventato sempre più lungo, l'attesa sempre più paziente, finché il “momento” diventò “sempre”, giorno e notte, e l'attesa così paziente che non aspettavano più nessuno.


L'umanità dei pastori era così semplificata, così sguarnita del superfluo, che viveva soltanto nel contatto immediato con la realtà. Per loro, quando fa freddo, fa freddo; quando fa caldo, fa caldo. Per loro, quando è giorno, è giorno; e quando è notte, è notte. Per loro la realtà è la realtà. Non c’è modo di sfuggirle, non c’è modo di addomesticarla, non c’è modo di dimenticarla.

Forse sognavano; ma che cosa, se non avevano mai visto e conosciuto se non pascoli e pecore? Quand’ero bambino, pensavo che la Cina fosse immediatamente al di là della montagna che vedevo dalla finestra della mia camera, e ciò mi faceva sognare. Ma avevo almeno imparato che la Cina esisteva. I pastori, invece, non avevano imparato nient’altro se non quello che era davanti ai loro occhi. Dietro una montagna, potevano immaginare soltanto… il retro di una montagna.


È vero che potevano contemplare dei cieli stellati incomparabili, da mozzare il fiato. Ma anche il cielo stellato, soprattutto il cielo stellato, era sempre la stessa cosa. Lo conoscevano come le loro tasche vuote.

Ebbene, è questo popolo che ha visto la grande luce; è a questo popolo per primo che sono state prodigate la gioia e la letizia.

I disegni di Dio sono tuttavia un po’ bizzarri. Da secoli, da millenni addirittura, Egli aveva preparato l'attesa del Messia, l'attesa del Popolo eletto, ed ecco che nel momento in cui manda non solo il Messia, ma suo Figlio, i primi a cui lo fa sapere sono quelli che non l'aspettavano, quelli che non aspettavano nient’altro se non ciò che assicura il ciclo invariabile della natura!

E tuttavia, il popolo santo preparato da secoli è lì anch’esso, è lì nei suoi frutti migliori, più puri: è lì in Maria, in Giuseppe.

È lì non solo per attendere il Messia, ma per donarLo, per manifestarLo. Tuttavia, con la convocazione dei pastori e la loro adorazione del Bambino,
il Popolo eletto deve anche cominciare a comprendere che il Messia che aspettava, non viene per incontrare e salvare una tradizione, un’identità culturale e religiosa, ma l'essere umano in quanto tale. «È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini!», esclama quel grande ebreo che fu san Paolo.

Ciò che c'è da salvare, è la nostra umanità, semplicemente la nostra umanità. Cristo è il Redentore dell'uomo, non di un solo popolo. Così, fin dalla sua apparizione sulla terra, il divino Redentore convoca degli uomini che hanno solo la loro umanità da portare incontro a Lui.


Che cosa hanno da farsi salvare i pastori, se non la realtà terra terra della loro vita, della loro esistenza, nella quale si trova un cuore assetato di felicità, di pace, di amore?

La «grande luce» annunciata dal profeta Isaia diventa per loro una «grande gioia»,

affinché la loro gioia possa illuminare la loro vita e la vita di quelli che li circondano. Infatti, questa gioia è «per tutto lo popolo», il grande popolo degli uomini, il grande popolo dell'umanità.

Subito, la loro gioia è la gioia di tutti, una gioia da ricevere e da donare: la gioia dell'amore, la gioia della carità. Ma occorrerà che vadano a Betlemme, che vedano il bambino, che L'adorino e L'amino, per comprendere che ciò che unisce la luce, la gioia e l'amore è una Persona, è qualcuno. Una Persona che è tutto, che è luce, gioia e amore, che è tutto ciò che l'umanità desidera, e che tuttavia è «avvolto in fasce e giace in una mangiatoia».

Una Persona presente nella vita ordinaria dell'umanità, nella vita reale di ogni essere umano.

Che cosa bisogna dunque fare a Natale per vivere bene il Natale, dopo essersi probabilmente ancora così mal preparati a questa festa con l'agitazione che la precede?

Niente! Non occorre fare niente! Bisogna soltanto andare a cercare il povero pastore che giace nel profondo di noi, del nostro cuore, sotto gli innumerevoli strati che coprono il semplice fatto che siamo degli esseri umani. Bisogna semplicemente andare a cercare in noi il piccolo pastore che sta di fronte alla realtà della vita, della nostra vita.

È la nostra semplice natura umana che Dio viene a sposare in questa Notte. Inutile andare ad acquistare un abito da nozze più bello della nostra vita quotidiana, della nostra vita nella carne umana. Perché travestirsi da Dio, se Dio viene alle nozze, vestito della realtà umana della nostra vita, della nostra umanità?

Tuttavia, ci occorre aprire gli occhi fino al fondo del nostro cuore, come Maria che, guardando i pastori, «meditava nel suo cuore» tutto ciò che accadeva.
Quale argomento di meditazione potevano offrire dei rozzi pastori alla Madre di Dio? Forse semplicemente la presa di coscienza che tutti gli uomini erano chiamati a condividere la sua vocazione: quella di accogliere e di donare il Figlio di Dio fatto uomo. I pastori erano venuti ad accogliere Gesù nel mondo e nella loro vita, e già annunciavano il suo mistero a tutti quelli che si trovavano là, e già donavano Gesù agli altri. Non si accoglie Cristo senza darLo; non si dà Cristo senza accoglierLo. È questa la vocazione cristiana che ha in Maria il suo archetipo.

Accogliere e donare Cristo, è la vocazione di noi tutti, il senso pieno della nostra vita. È la disponibilità a vivere per accogliere e trasmettere il dono del Figlio di Dio presente nel mondo, ciò che trasforma gli uomini più modesti e insignificanti in protagonisti della storia. I pastori hanno capito che questa vocazione non è difficile o al di sopra delle nostre forze. Lungi dall’opprimerci, essa trabocca di gioia, perché tutta la sua sostanza è il dono che Gesù fa di se stesso, questa Notte, in questa Eucaristia, in ogni istante della nostra vita.


P. Mauro-Giuseppe Lepori O. Cist.
(traduzione di Antonio Tombolini)

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