7 Novembre 2008 Il Foglio
di Christian Rocca
Tornerà di moda il politicamente corretto, con Barack Obama alla Casa Bianca, o al contrario il neo presidente eletto chiuderà una volta per tutte l’era culturale del piagnisteo?
Il suo curriculum è ancora troppo sottile per prevedere che tipo di svolta darà all’America e, peraltro, ci sono solide ragioni per sostenere sia l’una sia l’altra tesi. Obama infatti è l’immagine multiculti per eccellenza, ma allo stesso tempo è anche la conferma più rotonda che nel 2008, se non già da prima, il colore della pelle o le abitudini sessuali o le radici etniche non sono più un’identità personale da poter usare politicamente.
Sono piuttosto gli schemi obsoleti di chi non si vuole arrendere alla trasformazione della società, e che il presidente post racial potrebbe finalmente aver spazzato via. Oppure no.
Ci sono grandi aspettative intorno al nuovo leader del mondo libero, persino troppe, al punto che nientemeno che Hillary Clinton, ai tempi delle primarie, aveva fatto una caricatura delle virtù salvifiche che il mondo si aspetta da Obama: “Il cielo si aprirà, la luce divina ci illuminerà, i cori celestiali non smetteranno di cantare, ciascuno di noi saprà che dovrà fare la cosa giusta e il mondo sarà finalmente perfetto”.
C’è chi si immagina Obama come l’eroe della battaglia dei diritti civili, l’uomo della riscossa progressista, il presidente della rivoluzione multiculturale, ma c’è anche chi sostiene che probabilmente è il leader capace di porre fine alla guerra culturale e ideologica cominciata negli anni Sessanta. Entrambi hanno ragione. Obama è il tipico prodotto della cultura progressista americana. Figlio di una madre sognatrice e di un padre socialista e assente, Obama ha flirtato con le idee più multiculti e politicamente corrette su piazza, quelle che hanno trasformato la giusta attenzione alle diversità culturali in un’ideologia della separazione culturale. L’afrocentrismo, per esempio, è parte della sua cultura, con la giovanile passione per il Potere nero e la più matura e ventennale adesione alla chiesa radicale di Jeremiah Wright. Politicamente, Obama si è formato sulle idee di Saul Alinsky, il guru radicale di Chicago, uno dei padri dello slogan “pensare globalmente, agire localmente”, il Machiavelli dei derelitti, come diceva lui stesso. Uno che teorizzava la necessità di organizzare le masse per strappare il potere ai potenti. Dopo aver studiato ad Harvard e alla Columbia, le culle del pensiero liberal, Obama ha deciso di non inseguire carriera e denaro, ma di accettare un lavoraccio da “community organizer” nei ghetti di Chicago, offertogli da un gruppo di discepoli di Alinsky e di applicare quelle teorie di democrazia di strada. “Sono stati i miei anni più istruttivi”, ha detto Obama.
L’esperienza progressista di strada gli è servita a organizzare una straordinaria macchina politica, ma la sua formazione è anche la migliore speranza per chi si aspetta dal presidente eletto un futuro radioso. Non c’è tema caro agli ideologi del politicamente corretto che Obama non abbia messo al centro del suo messaggio: ambiente, unità, dialogo, rispetto, diversità. Ma la semplice presenza di Obama alla Casa Bianca rende risibile il vecchio paradigma e superate le politiche a favore delle minoranze. Obama è un politico svelto e cinico, uno che ha affidato la gestione della Casa Bianca al “poliziotto cattivo” Rahm Emanuel detto “Rahmbo” e la politica economica a esperti di scuola liberista. Obama parla di responsabilità familiari, racconta il suo rapporto con Gesù, è contrario al matrimonio gay per motivi religiosi, dice di voler “uccidere” Bin
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