di Francesco Ognibene
Tratto da Avvenire del 23 novembre 2008
La solitudine più amara è quella che si consuma in mezzo alla folla. Non c’è di peggio del sentirsi trasparenti tra volti ignoti, gente anonima che nemmeno immagina quanto sia insostenibile la sofferenza trascinata come un giogo in mezzo a un prossimo indifferente.
Si grida un dolore – l’abbandono, l’affetto perduto, il futuro fattosi buio – ma nessuno sente.
E allora può scattare l’istinto di imporre all’impassibilità degli altri l’attenzione forzata per quel che normalmente non pare interessare. Fino a trasformare la propria ferita in spettacolo, in modo da essere sicuri dell’ascolto. Potranno dirci solo gli psichiatri di quale patologia si tratti, certo è che il fenomeno degli atti di autolesionismo annunciati su Internet – luogo delle relazioni impalpabili moltiplicate all’infinito – sta assumendo proporzioni inquietanti. Anche perché qualcuno ha cominciato ad arrivare fino in fondo. È il caso di Abraham Biggs, il 19enne della Florida accanito frequentatore di network sociali – le reti di amicizie via web dilaganti tra i frequentatori della rete – che a lungo ha gettato online tutto il suo dolore per un legame sentimentale reciso, fino a proclamare via Internet l’intenzione di farla finita spiegando come e dove intendesse farlo: dose letale di farmaci, la propria stanza, una videocamera connessa al network per mostrare in diretta tutta l’agonia. Alcune centinaia di utenti del sito sul quale s’era confessato l’hanno visto immobile sul letto pensando a una puerile messinscena.
Ma dopo alcune ore la fissità di quella scena irreale ha finalmente allarmato qualche utente capace ancora di percepire che dentro lo schermo abita anche l’esistenza di gente concreta, che non tutto quel che si vede navigando è simulazione virtuale, eccesso studiato, mascherata di cattivo gusto. Quando la polizia ha trovato Abraham cadavere, davanti alla webcam che ne amplificava la morte tra i milioni di potenziali utenti di quell’inquadratura fissa, è come se Internet avesse cessato di produrre per un istante il suo oceanico frastuono di bit. La realtà ha infranto il video, ha ricordato che c’è vita oltre lo schermo e che la solitudine di quel ragazzo americano morto per un dolore che nessuno ha saputo sopportare davvero con lui è un fatto tanto aspro quanto vero. Dicono che nel network frequentato da Abraham c’era chi lo provocava, pensando che la sparasse grossa: «Dai, facci vedere se sei capace di ammazzarti...». E di certo mentre cercava su YouTube o Facebook i video delle più disparate messinscene eccentriche, delle bravate senza filtro, delle violenze idiote di cui ormai s’è perso il conto, teneva d’occhio anche quel matto della Florida che andava dicendo di volersi suicidare, per vedere fin dov’era capace di arrivare. Audience perfetta per il tragico finale che si andava preparando. La società dell’intrattenimento e della solitudine catodica, appena lenita dalle amicizie a bassa tensione attecchite sul Web, ha creato un voyerismo della trasgressione altrui e propria che può indurre a credersi tutti protagonisti di uno spettacolo planetario del quale si è allo stesso tempo attori e pubblico. Nei network sociali, beninteso, si va a conoscere altra gente, a ritrovare amici persi per strada, parenti remoti, compagni di battaglie ideali. Ma c’è anche questo volto oscuro che s’incrocia appena svoltato l’angolo: un clic, e ci si imbatte nel grumo di disperazione di un ragazzo che ha perso i contatti con la vita, e sta costruendo il reality show della propria fine.
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