Non c’è più un bene in sé da tutelare. Se, come sostengono i cultori della bioetica utilitaristica, bene è ciò che fa bene a me (singolo o gruppo), ciò che considero utile per me sulla base della mia autonoma e insindacabile decisione, allora anche la vita diventa uno strumento per qualche altra cosa.
La Stampa, 15 novembre 2008
MARCELLO PERA
Il caso Eluana non è giudiziario, e perciò la pratica a tutela del Consiglio superiore della magistratura non ha ragion d’essere. Non è neanche giuridico, perché i supremi giudici non sono entrati nell’argomento e hanno rinviato la palla ai giudici di merito, come già aveva fatto la Corte costituzionale. E neppure si tratta di un caso politico, se non nel senso che la natura aborre il vuoto e se il Parlamento non previene qualche altro organo interviene.
Il caso è culturale. I giudici di Milano prima e la Cassazione poi non hanno consultato i codici, hanno ascoltato lo «spirito del tempo». E questo spirito soffia in quella direzione. Anni e anni di individualismo, edonismo, nichilismo, relativismo e utilitarismo hanno preparato il terreno alle sentenze. E siccome i giudici hanno il naso fine, e talvolta così fine che anticipano persino il vento, hanno deciso nel modo in cui oggi in gran parte del mondo occidentale si sente e desidera.
Solo una cosa hanno fatto, che però è la stessa accaduta tante volte in Occidente e per i quali essi ritengono di avere il potere: hanno trasformato il sentimento di alcuni in un diritto di tutti. Ora anche in Italia c’è il diritto all’eutanasia, passiva e attiva. Passiva per il momento, perché si consente a chi non ha speranza di vita decente (qualunque cosa ciò voglia dire) di non alimentarsi più. Attiva tra poco, perché non passerà molto da quando chi ha chiesto e ottenuto il diritto al suicidio chiederà e otterrà anche il diritto ad essere soppresso con qualche sostanza per evitare il dolore che la mancata alimentazione e idratazione comporta.
Non c’è più un bene in sé da tutelare. Se, come sostengono i cultori della bioetica utilitaristica, bene è ciò che fa bene a me (singolo o gruppo), ciò che considero utile per me sulla base della mia autonoma e insindacabile decisione, allora anche la vita diventa uno strumento per qualche altra cosa. Il procuratore generale della Cassazione proprio questo soffio di vento utilitaristico ha colto, quando ha detto che il procuratore generale di Milano non aveva titolo a presentare ricorso, perché la vicenda è «privata» e non esiste un «interesse pubblico da tutelare». Proprio così, il bene, l’etica, è questione privata e nessuno può sindacare il comportamento di un altro. Altro bene, quello di per sé, indipendente dagli apprezzamenti degli individui, non esiste più. Non dicono forse i filosofi che «l’etica è senza verità», «il bene è senza fondamenti», «i giudizi di valore sono soggettivi»? E non c’è scritto su tutti i giornali che dobbiamo rispettare le decisioni degli altri, che dobbiamo ascoltare la scienza, che dobbiamo essere aperti e tolleranti e rispettosi di tutti i costumi, di tutte le culture, di tutte le decisioni private e di gruppo? Non lo dice anche la televisione quando all’ora di cena ti presenta ossessiva il caso pietoso con il sottinteso che è meglio risolverlo come dice quel dottore sapiente, vuole quella famiglia premurosa, predica quel politico laico? E se qualcuno, un credente, un sacerdote, un Papa, un’anima semplice, si alza ad opporsi, non dicono in tanti che la religione deve essere una questione anch’essa privata e che la chiesa non deve interferire?
Una società che perde il senso del sacro, dell’invalicabile, del proibito, del dovere oltre i suoi comodi, pensa di essere aperta e democratica. Addirittura pensa di essere liberale. Non si accorge che invece è dispotica e si scava la fossa. Non capisce che oggi a te e domani a me, che se la vita è uno strumento, allora qualcuno si arrogherà il diritto o si impadronirà della forza di usarlo come meglio crede, a seconda che oggi vuole una élite presuntuosa, domani una maggioranza inerte, dopodomani un dittatore etico. È già accaduto, perché non dovrebbe accadere ancora? Forse perché siamo pieni di lacrime quando commemoriamo le vittime? No, quelle sono lacrime di cerimonia, lacrime spremute e dovute, commozioni a comando. Per questo passano in fretta. Dopotutto, se è privato e soggettivo, anche il bene e il male sono commozioni che si possono comandare.
A questa idea del bene morale senza fondamenti i giudici si arrendono, anche con compiacimento, ma i popoli per fortuna ancora si ribellano. Persino nella California del supermercato etico i cittadini dicono no a una decisione che giudici come i nostri avevano preso annusando l’aria. Il bene del matrimonio, hanno detto in un referendum quei cittadini progressisti che pure hanno votato Obama, non è cosa che si possa modificare con una sentenza, neppure di una corte suprema. Il caso Eluana è lo stesso. Se l’opinione pubblica reagirà, se avrà la forza di invertire il relativismo etico che la seduce e l’ammorba, se avrà voce e le sarà data voce, allora anche la sacralità della vita, la dignità della persona, torneranno ad essere valori in sé, beni pubblici da proteggere. Quando ciò accadrà il giudice avvertirà altra aria culturale e si comporterà di conseguenza. Ma bisogna lottare per arrivare a quel giorno. Bisogna vincere lo spirito del tempo con lo spirito dell’umanità.
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