lla Parrocchia San Rafael nella periferia di Asuncion, gestita da Padre Aldo Trento, missionario originario di Feltre. Nella Parrocchia funzionano da diversi anni una clinica per malati terminali, un asilo, un centro di raccolta e distribuzione di generi di prima necessità per i poveri, una pizzeria, un caffè dove si svolgono anche attività culturali, e molte altre iniziative sociali.
«È stata la grazia di un'amicizia, prima di Giussani, poi di padre Alberto e dei confratelli della San Carlo Borromeo, a salvarmi».
LA STORIA
Gli anni della contestazione, la malattia, l’incontro con don Giussani che lo rilancia nella vita Oggi padre Aldo accoglie i derelitti di Asuncion e li accompagna ad affrontare con dignità la fine dell’esistenza Un uomo che ha conosciuto il dolore aiuta gli agonizzanti a viverne il significato
Abbiamo fatto una clinica da nord Europa, con solo l'immagine della Madonna davanti al letto, e nessun Crocefisso, perché in quelle stanze il Crocefisso è il morente. Ai nostri medici insegniamo a stare di fronte ai malati come davanti all'Eucarestia. Tutti quelli che arrivano, moribondi di Aids, agonizzanti con le gambe in cancrena, vengono abbracciati, lavati, messi in un letto le cui lenzuola devono sempre essere candide. Io sto loro accanto senza i guanti e la mascherina, perché non voglio che pensino che li considero diversi da me. Parlo di Cristo, e vedo uomini disperati diventare capaci di assistere nella morte i vicini di letto, e poi morire in pace. I bambini della scuola della missione vedono che gli ammalati muoiono, ma anche in che modo muoiono, e imparano che quando c'è Cristo la morte non fa più paura».
«Così rinascono i miei moribondi»
«Una casa per terminali: come la facciamo?» «Noi come vorremmo morire?» «Prima di tutto, accompagnati da qualcuno che ci vuole bene E in una stanza pulita e bella» Oggi è una clinica-modello «La mia malattia è stata come una ruspa che ha scavato dentro di me, svuotandomi da tutto quello che ero prima Occorreva che venissi triturato perché Gesù potesse farsi largo e diventare tutto in me» Quelli che arrivano, segnati dall’Aids, vengono abbracciati lavati, messi in un letto con le lenzuola candide«Parlo di Cristo e vedo gente disperata capace di assistere nella morte i vicini di letto, e poi morire in pace»
Di Marina Corradi
«Estimado Director, pido disculpas por usar el español para escribirle…». La lettera che arriva in redazione da Asuncion, Paraguay, è di un missionario italiano, ma dopo quasi vent'anni laggiù a padre Aldo Trento, classe 1947, da Feltre, provincia di Belluno, lo spagnolo viene più spontaneo che l'italiano. Il sacerdote scrive dalla sua parrocchia di San Rafael, dove ha aperto una scuola, un ospedale, una casa per i moribondi. Ma in quelle due pagine fitte non sollecita aiuti. Dal Sudamerica segue su Internet le cronache italiane, e la storia di Welby lo ha colpito. Scrive, padre Trento, non per domandare, ma per raccontare una storia, la sua.
Che comincia alle pendici delle Dolomiti nel dopoguerra, cinque fratelli in una famiglia povera. Aldo vuole andare prete, i genitori sono contrari. Lui svuota un sacco di patate e ci infila dentro due vestiti. Poi si mette sul ciglio della strada a fare l'autostop. Lo raccatta un trattore. Aldo, 11 anni, è partito per il seminario.
Dove, a prenderlo, esitano un po'. Quel montanaro non sembra abbastanza intelligente per studiare il latino. Comunque, diventerà prete. Negli anni giusti per essere travolto dalla contestazione. Si avvicina a Potere Operaio. Nel liceo di Battipaglia dove insegna organizza le manifestazioni contro l'America e la guerra nel Vietnam. Un gruppetto di ragazzi gli si oppone: «Padre, per noi la liberazione della società dal male comincia con Cristo. E dovrebbe essere lei a insegnarcelo». Per il prete - compagno è uno schiaffo, che lo riporta bruscamente alla sua fede di ragazzo, alla decisione con cui salì a 11 anni su quel trattore.
Si avvicina a Cl quando, alcuni anni dopo, viene preso da una violentissima depressione. Una viscerale voglia di morire che per anni non gli dà tregua. «Non riuscivo a dormire, tanto che mi si spaccavano i capillari degli occhi per l'affaticamento, e come un nottambulo cadevo dalle scale. Ero disperato e desideravo solo morire. Se qualcuno si fosse preoccupato di rispettare la mia volontà, come nella vicenda di Welby, oggi non sarei a scrivere questa lettera».
«Io mi fido di te»
Il 25 marzo 1988, padre Aldo non dimentica questa data, incontra don Giussani e gli dice piangendo che vuole farla finita. «Lui mi ha risposto: bene, io ora ti tengo con me. Mio fratello voleva farmi ricoverare in ospedale, ma Giussani mi ha portato con sé per mesi. Diceva che era certo che quella malattia era per un progetto che Dio aveva su di me. Io stavo come un cane, ma mi sono fidato. Un giorno mi ha annunciato: "Ora è tempo che parti per la tua missione". E io sbalordito: ma dove vado, cosa annuncio, io che ho solo voglia di essere morto? "Io mi fido di te", mi ha risposto. E sono partito». L'impatto col Paraguay è durissimo. Quaranta gradi, la miseria delle periferie di Asuncion, e sempre quella voglia di morire addosso, e quell'insonnia spietata, tormento che toglie il respiro. Padre Alberto, un sacerdote «fidei donum» (missionario diocesano), gli si mette accanto come un fratello, lo conduce con sé per le favelas di Asuncion. Dialoghi fra due preti in una missione cattolica nel fondo di notti torride: «Ma perché devo soffrire tanto? Perché Dio non mi fa morire?» E l'amico: «Dio conosce il perché, di quel che ti domanda». «Lui lo saprà - rispondevo io - ma io non ne posso più di soffrire».
Nove anni così, a sperare di addormentarsi per sempre. Padre Aldo si sente talmente incapace e vuoto che «nomina» parroco della missione il Santissimo Sacramento, lo espone in chiesa 24 ore al giorno, in un affidamento totale: Me entregue totalmente a Cristo, dice in quella lingua spagnola che rende ancora di più il senso di un affidarsi, un mettersi fra le braccia. E come nella muta compagnia di Cristo comincia a prendersi cura dei moribondi delle periferie di Asuncion, stremati dal cancro e dall'Aids, abbandonati come cani ai bordi delle strade. Intanto padre Alberto se ne è andato, ma dalla Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo, che da qualche anno lo ha accolto, gli è stato mandato un nuovo compagno («uno che come me aveva conosciuto il dolore»). Insieme i due italiani cominciano a prendersi cura dei moribondi, e poi a seppellirli. Nasce l'idea di fondare un consultorio medico, e poi una casa per malati terminali. «Come la facciamo?, mi chiede il mio compagno. Tu, come vorresti morire?, gli rispondo io. Prima di tutto, ci diciamo, vorremmo morire accompagnati da qualcuno che ci vuole bene. E poi, in questo Terzo Mondo di baracche e cemento e mosche, vorremmo poter morire in una stanza pulita e bella. Abbiamo fatto una clinica da nord Europa, con solo l'immagine della Madonna davanti al letto, e nessun Crocefisso, perché in quelle stanze il Crocefisso è il morente. Ai nostri medici insegniamo a stare di fronte ai malati come davanti all'Eucarestia. Tutti quelli che arrivano, moribondi di Aids, agonizzanti con le gambe in cancrena, vengono abbracciati, lavati, messi in un letto le cui lenzuola devono sempre essere candide. Io sto loro accanto senza i guanti e la mascherina, perché non voglio che pensino che li considero diversi da me. Parlo di Cristo, e vedo uomini disperati diventare capaci di assistere nella morte i vicini di letto, e poi morire in pace. I bambini della scuola della missione vedono che gli ammalati muoiono, ma anche in che modo muoiono, e imparano che quando c'è Cristo la morte non fa più paura».
La morte non fa più paura
Stai ad ascoltare, come sbalordito dalla forza di una fede antica, come riportato nelle corsie dei primi ospedali dell'Europa cristiana, a Beaune, in Borgogna, dove davanti ai moribondi - per la prima volta curati e puliti e assistiti - veniva spalancato davanti agli occhi, nell'ultima ora, un trittico raffigurante la vita eterna. O più indietro nel tempo, ancora.«Un'infermiera un giorno mi ha detto: padre, mi è morto fra le braccia un ragazzo di vent'anni e ho pensato alle donne che andavano al Sepolcro con gli olii e i profumi. Ho detto: bene, facciamolo anche noi». Un'altra morte, una morte che non fa paura nella periferia di una città del Sudamerica. Quel missionario legge del caso Welby in Italia e scrive a un giornale: non è dell'eutanasia che avete bisogno. Sa cos'è il male di vivere, questo prete, e ricorda bene di quando leggeva solo Pavese, perché soltanto nelle sue pagine, nella sua sofferenza non si sentiva straniero. Si ricorda, padre Trento, quando passava le notti a pregare di morire, e non gli interessavano più i pensieri di Dio perché lui, comunque, era stanco. «È stata la grazia di un'amicizia, prima di Giussani, poi di padre Alberto e dei confratelli della San Carlo Borromeo, a salvarmi». E cosa è stata allora, e perché, quella notte così lunga da sembrare infinita?
«Solo dopo tanti anni ho capito. La mia malattia è stata come una ruspa, che ha scavato dentro di me facendo il vuoto, svuotandomi da tutto quello che ero prima. Occorreva che venissi scavato, triturato perché Cristo potesse farsi largo e diventare tutto in me. Perché prendesse il posto dei miei poveri progetti». Poi, una mattina, lo spazio allargato dalla ruspa è stato abbastanza. «Mi sono svegliato e dopo tanto tempo mi sono accorto che i fiori nel cortile della missione erano belli». Dopo nove, o forse cento anni di buio, ha potuto vedere di nuovo che i fiori erano belli. Ma di quei nove anni ciechi resta, al prete italiano, la memoria di chi è stato ultimo. La silenziosa affinità con gli abbandonati a morire per le strade di Asuncion. Dal viottolo dove un trattore raccattò un ragazzino su una strada di Feltre, la strada è stata lunga e tormentata. Padre Trento conclude la sua lettera con una frase in spagnolo, che non ha bisogno di traduzione: «Donde abundo el odio por la vida, ahora sobreabunda la vida».
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«Così rinascono i miei moribondi»
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