di Davide Rondoni
Tratto da AVVENIRE del 17 novembre 2007
Si torna a lui. Assetati, confusi. Come cervi che cercano l’acqua, direbbe il salmo. Come animali, creature che bramano sollievo. Insomma, come coloro che non hanno perso la sete.
Viene da pensare così, vedendo che in due giorni «La Repubblica» ospita gli interventi di due tra le firme più illustri, Pietro Citati e Adriano Sofri, che meditano intorno al vangelo. Con la loro sincerità, la loro diversità, le loro storie così lontane. E però ora si accostano al vangelo, mossi da inquietudini che
ogni uomo desto in quest’epoca non può non avere. Non è la prima volta che lo fanno.
Ma in questi loro interventi c’è uno speciale accento personale. Citati riflette sulla figura del mendicante, e sul significato della pura gratuità dell’elemosina.
Mette per così dire tutta la sua cultura, i mille e mille libri letti e quelli scritti, per arrivare a 'giustificare' il gesto di elemosina che compie. Senza voler niente in cambio e senza moralismi. Nella certezza di cui parla il vangelo: quel che vien fatto a un mendicante, viene fatto a Cristo.
La stessa cosa che diceva e faceva Madre Teresa, e tutti quelli come lei. E Sofri, sul quotidiano (che anticipava un suo libro in uscita da Sellerio) e su «L’Espresso», in dialogo critico e rispettoso con il libro di Benedetto XVI su «Gesù di Nazareth», offre il suo commento alla parabola del buon samaritano. Lo fa per insistere sulla immedesimazione che Cristo fa con il viandante bastonato e abbandonato dai ladroni. E chiosa che da quell’immedesimazione sorge il valore del farsi prossimo. Al di là del rilievo che Sofri fa al commento del libro di Ratzinger, ponendo l’accento più su questo immedesimarsi con il bisognoso che con colui che si ferma a farsi prossimo lungo la via, resta il gesto compiuto dai due intellettuali.
In un momento in cui infiniti mutamenti mettono in crisi sicurezze, assetti, consuetudini, essi tornano al vangelo. In un momento in cui roghi vicini e lontani mostrano che anche la miglior organizzazione sociale non preserva dal divampare del male, in questa guerra quotidiana, essi rimettono il viso su quelle pagine.
C’è un tono personale in queste letture. Sofri arriva a dire che lui, a causa della riflessione sulla parabola, ha capito di essere come Priebke, il decrepito nazista tenuto ancora agli arresti in Italia. Cioè ha imparato a mettersi in quei panni.
O arriva a dire che «l’altruismo si autogiustifica», in opposizione a coloro che vedono la bontà solo come egoismo mascherato. Il che, tradotto, significa intuire che l’Essere è bene, e nel fare il bene, nella iniziale esperienza di gratuità dell’aiuto all’altro – la carità –, l’uomo conosce qualcosa di assoluto.
Insomma, è come se il vangelo riaprisse continuamente la partita. Portando dove non si pensava di dover arrivare. Sofri a sentirsi in qualche modo simile al soldato nazista, e il grande dotto Citati a «confessare di praticare l’elemosina» come uno dei miei bambini per la strada. Il vangelo è sempre stato per gli intellettuali un libro provocante. Naturalmente, c’è sempre un rischio intellettuale davanti al vangelo. Il rischio di trattare il vangelo come un libro, invece che un annuncio.
Solo come un racconto morale di gran valore. E fermarsi a discettare sulle infinite suggestioni che provoca, senza fare il passo che la ragione urge: dare del tu a Cristo, o condannarlo come un pazzo.
Sarebbe come se uno trovasse in un libro o in un giornale il racconto che nella sua città è atterrata un astronave e non corresse poi a vedere se è vero. Il Dio che ha dato il massimo valore ai mendicanti, e che ha rivelato agli uomini che fare il bene li compie, ben più che la fama o il successo, è lì che vive, presente nella compagnia che inizia ad essere raccontata in quelle pagine. La nostalgia, la domanda di Lui sta riempiendo le pagine dei nostri giornali.
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