venerdì 30 novembre 2007

LA DERIVA OLANDESE


giovedì 29 novembre 2007
La deriva olandese
Dal dossier sull'eutanasia pubblicato da Fides
La deriva olandese
Città del Vaticano (Agenzia Fides) - Diagnosi e prognosi devono essere certe. La sofferenza deve essere insopportabile e disperata. Diagnosi, prognosi e sofferenza devono essere confermate da almeno un medico indipendente. Entrambi i genitori devono fornire il loro consenso informato. La procedura deve essere eseguita secondo gli standard accettati dalla professione medica. Tutto deve essere scritto e sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria. A queste condizioni, in Olanda, si può essere messi a morte, da neonati.

E’ il 10 marzo 2005. Sul “New England Journal of Medicine”, Eduard Verhagen, pediatra, spiega che dei duecentomila bambini nati in Olanda ogni anno, circa mille muoiono nel primo anno di vita. Per circa seicento di questi neonati, il decesso è preceduto da una decisione medica sul fine vita.

”I bambini ed i neonati per i quali potrebbe essere presa la decisione di fine vita - scrive Verhagen nello spiegare le motivazioni di questa prassi e di questa necessità - possono essere divisi in tre categorie. Nel primo gruppo ci sono i bambini senza alcuna speranza di sopravvivenza. Questo gruppo consiste in bambini che moriranno poco dopo esser nati nonostante i migliori e più avanzati trattamenti disponibili localmente. Questi bambini hanno malattie estremamente gravi, quali la ipoplasia polmonare e renale. I bambini nel secondo gruppo hanno una prognosi pessima e sono dipendenti dalle cure intensive. Questi pazienti possono sopravvivere dopo un periodo di cure intensive, ma le aspettative sul loro futuro sono bieche. Sono bambini con gravi anormalità celebrali e danni estesi agli organi causati da ipossemia severa. Quando questi bambini possono sopravvivere oltre la degenza in terapia intensiva, hanno prognosi pessime ed una cattiva qualità della vita. Per ultimo ci sono i bambini con prognosi disperata che vivono quello che i genitori e gli esperti di medicina considerano una sofferenza insopportabile. Anche se è difficile definirlo in astratto, questo gruppo include i pazienti che non sono dipendenti da terapia intensiva ma per i quali è prevista una pessima qualità della vita associata a continua sofferenza. Per esempio, un bambino affetto dalla più grave manifestazione di spina bifida avrà una qualità della vita estremamente bassa, anche dopo molte operazioni. Questo gruppo include anche bambini che sono sopravvissuti grazie alla terapia intensiva, ma per i quali è chiaro che dopo il completamento delle cure intensive la qualità della vita sarà misera e non vi è alcuna speranza di miglioramento”.

Da e su questi presupposti si fonda il cosiddetto “Protocollo di Groningen”: l'accordo intervenuto tra la clinica universitaria di Groningen in Olanda e le autorità giudiziarie olandesi, riguardante l'estensione della possibilità di eutanasia anche per i bambini sotto i 12 anni, fino all'età neonatale.

I parametri “etici” sui quali si fonda questo Protocollo sono: “mancanza di autosufficienza”, “mancanza di capacità di comunicazione”, “dipendenza ospedaliera”, “aspettativa di vita”.

L’Olanda fa da esempio.

Secondo il Sunday Times del 5 novembre 2006, il “Royal College of Obstetricians and Gynecology” del Regno Unito ha proposto di prendere in considerazione “l’eutanasia attiva” per i bambini malati.

La proposta è emersa durante un’audizione del College nell’ambito dell’indagine svolta dal “Nuffield Council of Bioethics”, sul tema del prolungamento della vita nei neonati. L’audizione ha ricevuto il sostegno di John Harris, componente della Commissione governativa sulla genetica e professore di bioetica dell’Università di Manchester, come riportato dal Sunday Times: “Noi possiamo porre fine a gravi malformazioni fetali entro un determinato termine, ma non possiamo uccidere un neonato. Secondo la gente cosa avviene nel passaggio attraverso il parto, che rende legittimo uccidere il feto prima e reato farlo dopo?”, si è domandato.

Opposizione alla proposta è stata espressa da John Wyatt, neonatologo, consulente dell’Ospedale della “University College” di Londra: “La maggioranza dei medici e dei professionisti sanitari ritengono che una volta introdotta nella pratica medica la possibilità di uccidere intenzionalmente, si modifica la natura fondamentale della medicina”, ha affermato. “Essa diventa immediatamente una decisione soggettiva sulla valutazione di quale vita vale la pena di essere portata avanti”, ha aggiunto.

Poco tempo dopo, il “Nuffield Council” ha reso nota la sua decisione di rigettare la proposta di eutanasia attiva per i neonati.

“L’obbligo professionale dei medici è di preservare la vita ove possibile”, si afferma nel comunicato stampa del “Council”, del 15 novembre, che però si è espresso contro l’uso di cure intensive per i bambini nati prematuramente, prima della 23° settimana di gravidanza. Per quelli nati tra la 23° e la 24°, il Council ha detto che i casi andrebbero valutati da medici e genitori.


L’ “uccisione misericordiosa di persone non degne di vivere”


I nazisti definivano l’eutanasia “uccisione misericordiosa di persone non degne di vivere”. Nel “Mein Kampf”, p. 282, Hitler scriveva: "se non c’è più forza per combattere per la propria salute, il diritto a vivere viene meno."

Dalle prove fornite al processo di Norimberga, si stima che furono sottoposti ad eutanasia almeno 275.000 persone. Tra queste, almeno 8.000 bambini; per quelli handicappati, fisicamente e mentalmente, fu prevista – dall’agosto del 1939 - la registrazione obbligatoria: la loro nascita doveva essere segnalata agli uffici di sanità pubblica. I selezionati, venivano inviati in manicomio, dove venivano uccisi con farmaci o per mancanza di nutrizione.

Dai bambini, il programma di eutanasia, nell’ottobre 1939, si estese agli adulti. Vennero istituite quattro organizzazioni di copertura, sei centri di eutanasia, una sede principale, che venne collocata in una villa di Berlino, in Tiergartenstraße 4. Il programma prese il nome di quella strada e fu chiamato “T4”. Le vittime furono assassinate in camere a gas, camuffate come locali da bagno, per mezzo di monossido di carbonio emesso da bombole di gas oppure con overdose deliberata di analgesici e sonniferi o semplicemente a causa di condizioni determinate di esaurimento e malnutrizione.


La prima legge sull’eutanasia in Europa


Le procure olandesi non hanno mai arrestato o posto sotto processo i medici che praticano l’eutanasia sui nuovi nati, a partire dal primo caso registrato nel 1997. Secondo uno studio del “Journal of Medical Ethics”, il 59 per cento dei casi di eutanasia in Olanda non sono segnalati dagli ospedali. Un documento del 1992 della “Dutch Royal Society of Medicine” aveva già scritto una bozza di norme sull’eutanasia infantile, che comprendeva la previsione della possibilità o meno del bambino di avere una vita in grado di stabilire relazioni interpersonali. Si parlava della morte come passo per “il miglioramento della qualità della vita”.

Secondo un documentario trasmesso dalla Pbs, “Choosing Death”, tre delle otto unità pediatriche intensive in Olanda praticano l’infanticidio tramite iniezione letale. Per i minorenni fra i sedici e i diciotto anni non c’è nemmeno bisogno dell’autorizzazione dei genitori. L’eutanasia passiva è chiamata “fine senza richiesta o consenso”. Quella attiva è “sedazione terminale”.

I medici olandesi furono gli unici a non prendere parte al programma nazista di eutanasia. Nonostante questo, l’ Olanda è stato il primo paese europeo ad autorizzare l’eutanasia. La legge su eutanasia e suicidio assistito è del primo aprile 2001: sancisce sostanzialmente l’impunità di fatto di cui fino ad allora avevano goduto i medici che ponevano fine alla vita dei pazienti gravi o morenti con la somministrazione di dosi letali di farmaci o interrompendo cure ordinarie necessarie alla vita. La pratica dell’eutanasia ha smesso così di essere sottoposta al controllo della magistratura ed è stata affidata esclusivamente ai medici, come una qualsiasi forma di terapia.

La prima conferma ufficiale della prevalenza dell'eutanasia non volontaria in Olanda si è avuta il 10 settembre 1991, quando fu pubblicato il rapporto governativo “Decisioni mediche sulla fine della vita”. Conosciuto comunemente come il “rapporto Remmelink” (dal nome del presidente del comitato che lo ha divulgato), lo studio documentò i criteri seguiti dai medici nel far fronte alle richieste di eutanasia.

I risultati del “rapporto Remmelink” (“celebrato”, da associazioni e gruppi eutanasici italiani, che sostengono l’esistenza di una forte e radicata eutanasia “clandestina”, che dovrebbe essere, a loro dire, disvelata e regolarizzata) indicavano che in un anno i medici olandesi avevano deliberatamente posto fine alla vita di migliaia di pazienti, somministrando iniezioni letali oppure dosi letali di farmaci orali: 2.300 persone morirono in seguito a eutanasia praticata dal medico su loro richiesta; 400 persone si suicidarono con farmaci forniti dai loro medici per questo scopo; 1.000 persone, una media di 3 al giorno, morirono perché i medici avevano prescritto, fornito o somministrato un farmaco con il preciso scopo di causare la morte anche se il paziente non aveva fatto specifica richiesta di eutanasia . Di questi, il 14% era completamente capace, mentre il 72% non aveva mai dato indicazioni riguardo il termine della vita; 8.100 pazienti morirono in seguito a somministrazione da parte del medico di overdose di analgesici con il preciso intento di accelerare la loro morte. La decisione di somministrare intenzionalmente tale overdose non era stata discussa con il 61% dei pazienti, anche se il 27% dei pazienti morti in questo modo erano completamente capaci .

II capo del pediatri olandesi, Zier Versluys, nel 1992 disse che “l' eutanasia è parte della buona pratica medica in neonatologia". Nel 1993 Liesbeth Rensman, portavoce del ministro della Giustizia, fece sapere che "il governo sta proponendo di estendere l' intervento medico attivo per porre fine alle vite brevi senza un esplicito consenso". II dottor Molenar, capo del reparto di neonatologia del “Sophia Pediatric Hospital”, ha rivelato che 24 dei 500 nuovi nati handicappati erano stati uccisi o lasciati morire dai medici: "La Società olandese della pediatria ha abbracciato la pratica dell' eutanasia sugli infanti difettosi'". Un sondaggio del 1996 pubblicato dal “New England Journal of Medicine” sosteneva che il

64 per cento degli psichiatri olandesi accettava l’eutanasia attiva per i pazienti che soffrono di malattie mentali.

II 31 per cento dei pediatri olandesi avrebbe praticato almeno una volta l'eutanasia e in un quinto dei casi senza nemmeno il consenso dei genitori. Il 60 per cento dei medici si è detto "onorato" di poter "porre fine alla vita di un bambino sofferente".


Il “kit” per l’eutanasia: con sessanta euro si può


Nel 2002, in Belgio, è stata approvata la legge sull’eutanasia volontaria. Sancisce la non punibilità per i medici che praticano l’eutanasia su pazienti maggiorenni – o su minorenni, purché capaci d’intendere e di volere – che la richiedano in modo libero, consapevole e ripetuto, in presenza di una patologia “grave e incurabile”, che rechi sofferenze considerate insopportabili e costanti.

Queste sofferenze possono essere sia fisiche che psichiche, dilatando così indefinitamente i limiti di applicabilità della normativa; la richiesta dell’atto eutanasico deve essere messa per iscritto. In caso di incoscienza, hanno valore legale le direttive anticipate del paziente, che devono essere scritte, e che hanno validità quinquennale. Il medico, per quanto tenuto a informare il paziente sulle terapie del dolore disponibili (cure palliative), viene di fatto a essere un mero esecutore della volontà del paziente: il suo intervento si risolve nell’attuazione – con mezzi non specificati dalla legge – dell’atto eutanasico e nella compilazione di un rapporto da sottoporre a una commissione esaminatrice, che è chiamata a valutarlo sulla base della sola correttezza procedurale.

Dalla metà di aprile del 2005, in 250 farmacie del Belgio è stato messo in vendita il “kit per l’eutanasia”, un cofanetto dal prezzo di 60 euro non rimborsabili dal servizio sanitario che contiene tre dosi di un potente barbiturico, un paralizzante e qualche dose di sonnifero. Possono acquistarlo i medici di base previa presentazione alla farmacia di una prescrizione dettagliata simile a quella adoperata per la richiesta di sostanze stupefacenti.

La diffusione del kit fa seguito alle richieste dei medici di famiglia, che si erano ripetutamente lamentati delle difficoltà di accesso alle sostanze letali - precedentemente fornite solo dalle farmacie degli ospedali – e alle sollecitazioni della commissione federale del Parlamento, incaricata di valutare l’applicazione di una legge che ne agevola la vendita. Si tratta di un ulteriore passo verso la socializzazione e la banalizzazione della pratica eutanasica, in quanto il kit facilita il trapasso a pazienti che preferiscono morire a casa, assistiti dai famigliari.


Non chiamiamola eutanasia, ma “spirito umanitario” per aiutare il suicidio


L’articolo 115 del codice penale svizzero, datato 27 dicembre 2005, sancisce la punibilità di chi istiga o aiuta qualcuno a suicidarsi spinto da un movente di natura egoistica. Questo significa che se il movente è diverso – per esempio se è il suicida stesso a chiedere aiuto per morire – non si è perseguiti penalmente. La disposizione non ha, all’origine, alcun legame con la professione sanitaria né con il malato terminale, ma è stata utilizzata anche per porre in atto comportamenti eutanasici. Organizzazioni come “Exit” o “Dignitas” prestano assistenza al suicidio nell’ambito di questa legge, in quanto non è possibile addebitare loro motivi egoistici.

Si chiama “Progetto suicidio assistito”, quello del “Chuv”, il Policlinico universitario del cantone Vaud, a Losanna, che è stato il primo ospedale della Svizzera che ha accettato l'ingresso di medici esterni e dell'associazione “Exit” cantonale per “supportare” quei pazienti che hanno espresso il desiderio di una “morte dignitosa”.

Prima, fino al gennaio 2006, le due organizzazioni attive in Svizzera già dagli anni '80 sui temi di fine vita, potevano fornire questo tipo di aiuto solo a domicilio. Una condizione irrispettosa della libertà del malato, costretto alla degenza, di poter “esercitare la propria autonomia”, visto che “il soggiorno all'ospedale costituisce solo una tappa nel percorso di vita del paziente”: è ciò che sottolinea la direttiva interna con la quale l'ospedale si è adeguato alle disposizioni della Commissione nazionale d'etica per la medicina emesse nel 2005. Nel cui testo si evidenzia però anche che l'assistenza al suicidio non fa parte della “missione etica” di medici e infermieri e che quindi, di pari passo, va rispettata l'eventuale obiezione di coscienza del personale sanitario.

Come riferisce www.zenit.org del 14 febbraio 2007, John Elliot, affetto da un tumore, è partito dall’Australia alla volta di Zurigo, in Svizzera, per poter porre fine alla propria vita con l’assistenza dell’organizzazione “Dignitas”.

Elliot è stato accompagnato dall’avvocato australiano Philip Nitschke (autore di “The Peaceful Pill Handbook”, un manuale su come commettere suicidio), il quale ha ammesso di sperare che la pubblicità di questo caso possa contribuire alla sua lunga battaglia per la legalizzazione dell’eutanasia in Australia.

Con riferimento alla notizia della morte di Elliot, il ministro della salute australiano Tony Abbott ha ricordato che la legalizzazione dell’eutanasia “metterebbe gli anziani a rischio eliminazione”. Secondo il “Times” di Londra del 21 settembre 2006, Ludwig Minelli, fondatore di “Dignitas”, ha affermato, nel corso di una visita in Inghilterra, di ritenere giusto aiutare le persone depresse a porre fine alla loro vita. Minelli ha affermato poi, nel corso di un incontro a margine della conferenza di settembre dei liberal-democratici britannici, che “se si accetta l’idea dell’autonomia personale, non si può porre la condizione per cui solo i malati terminali possono avere questo diritto”. Secondo il “Times”, Minelli ha parlato su invito di Chris Davies, un liberal-democratico, membro del Parlamento europeo, impegnato per ottenere una modifica della legge britannica. Secondo un servizio del 3 luglio 2006 dell’agenzia “Reuters”, dalla sua fondazione nel 1998 fino a quella data, Dignitas avrebbe fornito assistenza per la morte a 573 persone.

Lo scorso anno, il Governo svizzero ha respinto la proposta di porre restrizioni alla legge sul suicidio assistito. Il ministro della giustizia Christoph Blocher ha reso nota la decisione del Governo di non modificare la legislazione vigente, secondo l’agenzia “Swissinfo” del 31 maggio. Poco dopo questa decisione, tre Vescovi, di Germania, Francia e Svizzera, hanno pubblicato congiuntamente una lettera pastorale in cui si pronunciano contro il suicidio assistito. L’Arcivescovo di Friburgo Robert Zollitsch, l’Arcivescovo emerito Joseph Doré di Strasburgo e il Vescovo Kurt Koch di Basilea, hanno ribadito che tutti sono tenuti al rispetto della sacralità della vita umana e dei diritti dei malati terminali o cronici, secondo l’agenzia tedesca “Deutsche Welle” del 4 luglio 2006. Ad una conferenza stampa, l’arcivescovo Zollitsch ha affermato che “oggi le persone malate, sofferenti e agonizzanti sono viste come un peso di cui disfarsi”.

Preoccupazioni più che mai urgenti dopo la decisione della Suprema Corte svizzera di ammettere al suicidio assistito anche i malati di mente (“persone affette da disturbi psicologici gravi, permanenti e curabili”). Il Tribunale federale ha emesso una sentenza relativa al caso di un uomo di 53 anni affetto da disordine bipolare che ha chiesto assistenza al suicidio, secondo l’”Associated Press” del 2 febbraio scorso. La Corte ha effettivamente rigettato la richiesta, chiedendo uno studio medico più esaustivo. Essa ha tuttavia affermato che nei casi di disordini gravi e incurabili, le persone malate di mente potrebbero essere aiutate a commettere suicidio.

Ulteriori preoccupazioni sono emerse dopo che Soraya Wernli, ex assistente di Minelli, ha accusato l’organizzazione “Dignitas” di facilitare eccessivamente le persone a morire. L’accusa è stata espressa in un articolo pubblicato sul quotidiano australiano “Sydney Morning Herald” il 3 febbraio scorso. Nel 2005, l’infermiera Wernli, dopo aver lavorato per Minelli per tre anni, ha deciso, insieme a suo marito Kurt, un direttore di “Dignitas”, di lasciare la clinica per motivi di coscienza. “Spesso - ha spiegato - vi era un’eccessiva fretta nelle procedure di accettazione della domanda di aiuto al suicidio. Inoltre, non tutte le persone erano malati terminali”. Secondo Wernli, “alcune delle persone che sono state assistite soffrivano di depressione, mentre altre erano solo anziani che volevano morire”.


Chi non voglia essere ‘terminato’ a sua insaputa, lo dichiari in precedenza


Il 22 aprile 2005 in Francia è stata approvata una legge sui “diritti dei malati e la fine della vita”, che regola l’eutanasia passiva e il testamento di vita. La legge autorizza i medici a interrompere la terapia e l’assistenza quando questa sembra “inutile, sproporzionata o non sortisce altro effetto se non quello di mantenere in vita artificialmente”, oltre che a prescrivere farmaci anti-dolorifici, anche se questi aumentano i rischi di decesso. In caso il malato sia impossibilitato a chiedere la sospensione dei trattamenti il testo autorizza i famigliari a farlo. Chi non volesse essere “terminato” a sua insaputa, deve dichiararlo in precedenza, per iscritto.

Per far valere il diritto al rifiuto delle cure (in caso d'incoscienza) la legge si appoggia allo strumento del testamento biologico. Qualunque persona maggiorenne può compilarlo e lasciarlo in custodia a chiunque di sua fiducia, si tratti di un medico, di un famigliare, di personale addetto all’assistenza, o di terzi. La scadenza è fissata ogni tre anni, e in caso di mancato rinnovo le direttive rimangono indicazioni per il medico ma non obbligo.

Il testo di legge non specifica se idratazione e alimentazione siano da considerarsi trattamenti medici alla stregua della prescrizione di farmaci o d’interventi chirurgici, oppure requisiti d’assistenza di base come riscaldamento, pulizia e movimento. Non si tratta solo di una questione di forma, in quanto, se ritenute terapie, potrebbero essere interpretate come forme di accanimento terapeutico, e sarebbe legale far morire i malati di fame e di sete.

Ma l’ambiguità non è solo della Francia. In Germania, l’istigazione al suicidio – quindi anche l'assistenza ad esso – non è punita, purché l'ultimo atto da cui consegue la morte venga praticato dal suicida stesso. I casi di suicidio direttamente assistito, come quelli di cosiddetta “eutanasia passiva”, vengono giudicati sulla base delle disposizioni sull’omissione di soccorso – che risulta piuttosto evidente quando la persona rifiuta l’aiuto perché vuole morire - e sul maltrattamento di persone tutelate, ma la legge è interpretata in modi diversi nei vari processi.


La discussione in Italia sul testamento biologico


In Italia, l’eutanasia non è mai consentita. La forma indiretta è considerata omicidio doloso e sanzionata secondo l'articolo 575 del codice penale. La forma diretta è assimilata all’omicidio del consenziente e punita meno gravemente secondo l'articolo 579 del c.p.. Vi è una valutazione negativa dell’ordinamento anche nei confronti del suicidio: non viene punito il suicida, nell’ipotesi in cui un suo gesto non raggiunga l’obiettivo, ma viene sanzionata l’istigazione al suicidio in base all'art. 580 del c.p.. In base al cosiddetto “consenso informato”, chiunque ha diritto di decidere se vuole essere curato per una malattia o sottoposto a una determinata terapia o esame diagnostico, dopo essere stato informato dal medico sugli effetti degli stessi; tale diritto è garantito dall'art. 32 della Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

In Commissione Sanità al Senato è iniziato l’esame di vari disegni di legge aventi a oggetto le cosiddette “dat” - dichiarazioni anticipate di trattamento; al momento, non è stato ancora adottato un unico testo di riferimento e si sta procedendo ad audizioni di tecnici o di rappresentanti di associazioni. Il quadro appare a volte confuso in quanto si fanno coincidere le “dat” con il rifiuto dell’accanimento terapeutico, per il quale non è necessaria una legge, essendo possibile, e anzi garantito già oggi. Sono dieci le proposte di legge. Il Parlamento italiano da oltre un anno non decide sul testamento biologico. Ci si barcamena tra principi condivisi (il cittadino, pur non avendo l’obbligo, può indicare in anticipo le cure che accetta o rifiuta nell’ipotesi di trovarsi in una situazione patologica in cui non può intendere o volere; nomina da parte del paziente di un fiduciario che interpreta il suo volere; possibilità di modifica in ogni momento delle volontà espresse nel testamento biologico; no all’accanimento terapeutico) e principi non condivisi (interruzione dell’alimentazione forzata e dell’idratazione; se il fiduciario del paziente e il medico sono in conflitto, il soggetto neutro che decide è il giudice o il Comitato etico dell’ospedale?; il medico sarà obbligato a rispettare la volontà del paziente o può esercitare obiezione di coscienza? chi decide quando la terapia sconfina nell’accanimento terapeutico?).

La dizione “testamento in vita” traduce l’espressione inglese “living will”, che significa “volontà espressa in vita” da un soggetto e riferite in modo particolare al proprio morire. Si parla anche di “advance care directives”, che in italiano è stato tradotto con “direttive anticipate per il medico” o “direttive anticipate”. I due termini sono stati utilizzati in modo intercambiabile, riferendosi a generiche dichiarazioni di volontà del paziente circa le scelte terapeutiche ed assistenziali che lo avrebbero riguardato.

“Bisogna, però, rilevare che lo scopo ultimo del testamento biologico, almeno come concepito nei Paesi che lo prevedono – ha scritto di recente Maria Luisa Di Pietro, professore associato di Bioetica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Presidente dell’Associazione Scienza e Vita - ha finalità anche eutanasiche. Il Comitato italiano per la Bioetica ha fatto, invece, propria la dizione ‘dichiarazioni anticipate di trattamento’, al posto di direttive anticipate, al fine di evidenziarne la non vincolatività per il medico”.

Alcune linee guida pubblicate su autorevoli riviste scientifiche della Gran Bretagna, dove il living will è già in atto, sostengono che laddove manchino direttive anticipate, scritte o espresse in forma orale inequivocabile e documentata, colui che fa le veci del paziente incosciente, può assumere decisioni riguardanti la vita del malato “interpretando” quale avrebbe potuto essere la scelta o effettuando egli stesso le scelte, sulla base di quel che ritiene essere “il miglior” interesse del paziente. Questo, malgrado il fatto che numerosi studi abbiano dimostrato che di fronte alle ipotesi di decisioni di fine vita, le scelte del fiduciario sono discordanti da quelle espresse dal paziente.

La sentenza con la quale la Corte di Cassazione, nell’ottobre scorso, ha deciso un nuovo processo in una diversa sezione della Corte di Appello di Milano, sul caso di Eluana Englaro, in coma dal 1992 a seguito di un incidente stradale, farà senz’altro molto discutere. In una nota, Il Primo Presidente della Suprema Corte, Vincenzo Carbone, spiega che la Corte ha escluso che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscano, in sè, oggettivamente, una forma di accanimento terapeutico, pur essendo indubbiamente un trattamento sanitario. Ha deciso che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzarne l'interruzione soltanto, dovendo altrimenti prevalere il diritto alla vita, in presenza di due circostanze concorrenti: 1) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacitá di percezione; 2) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.

L’invito, che la Corte fa, a ricostruire la volontà pregressa del malato, in realtà apre alla possibilità di un intervento del legislatore a favore del testamento biologico, che per molti è l’anticamera dell’eutanasia. Del resto, appare un’evidente forzatura consentire la possibilità che il giudice, concorrendo le due condizioni, autorizzi la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali di una persona in stato vegetativo. Una forzatura solo se si consideri i dubbi che tanti, anche tra i parlamentari, hanno su questa materia ed in particolare relativamente al fatto che la sospensione delle cure ordinarie equivalga ad una pratica eutanasica.


L’eutanasia attiva, passiva, l’accanimento terapeutico


Giovanni Paolo II, il Papa della enciclica “Evangelium Vitae”, ribadisce la condanna morale dell'eutanasia come "grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana" (n. 64) e insiste nel suggerire "una via ben diversa... la via dell'amore e della vera pietà, che la nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni. La domanda che sgorga dal cuore dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova" (n. 67).

Il n. 65 dell’Enciclica “Evangelium vitae”, definisce l’eutanasia come “un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni è tale da provocare la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”. L’accento è posto sull’intenzionalità: l’atto eutanasico richiede la volontà di eseguirlo (intenzione) e poggia sull’idea utilitaristica secondo cui il fine giustifica i mezzi.

L’”Evangelium vitae” non distingue fra metodo attivo (caso in cui il medico interviene direttamente per provocare la morte del paziente) e metodo passivo (in cui il medico si astiene dagli interventi indispensabili a mantenere in vita il paziente) di realizzazione dell’atto. Invece, correntemente, si assiste a revisioni che tendono a restringere l’eutanasia “propriamente detta” al campo dell’eutanasia attiva volontaria.

In un testo che compare su una pubblicazione di “Scienza e Vita” (l’associazione “che presidia le frontiere della vita, dal suo sorgere alla sua fine naturale”), Claudia Navarini, Docente di Bioetica presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, individua soprattutto tre restrizioni. La prima: l’eutanasia potrebbe essere solo “attiva”, mentre il “lasciar morire” (sospendere o non iniziare una terapia), corrisponderebbe ad una rinuncia terapeutica di altro valore etico, che non si salderebbe immediatamente e direttamente all’effetto mortale. Al contrario, è chiaro che non vi è differenza etica fra uccidere volontariamente e lasciar morire pur potendolo impedire. La seconda restrizione: l’eutanasia sarebbe solo quella “volontaria”, quella sancita dal “diritto” di morire rivendicato da chi ritiene la sua vita ormai inutile. E’ raro, però, che una richiesta di eutanasia sia davvero volontaria e non sia piuttosto condizionata da altri fattori (come la “falsa pietà”). La terza: l’eutanasia sarebbe l’unico rimedio alle “sofferenze insopportabili”. Poco si parla dei progressi della terapia del dolore e del fatto che frequentemente quel che risulta davvero insopportabile è la vista del sofferente, che richiama la nostra stessa morte.

Distinto dall’eutanasia, dall’abbandono terapeutico e dalla terapia vera e propria, è l’accanimento terapeutico, che, come dice Claudia Navarini, “non intende promuovere il bene globale della persona, ma va nella direzione di un’illusoria volontà di controllo totale sulla vita, al punto da esigerla oltre i limiti imposti dalla natura umana, che è finita e mortale”.

Il bilanciamento costi/benefici costituisce la dimensione oggettiva della valutazione di accanimento terapeutico. Ma esiste anche un aspetto soggettivo, da non sottovalutare. Un paziente potrebbe volersi sottoporre ad un trattamento gravoso e rischioso nella speranza di vivere un poco di più per adempiere a qualche scopo particolare . Un altro paziente potrebbe sentirsi pronto a morire, magari a casa sua, tra i suoi cari, rinunciando a trattamenti che in ospedale potrebbero garantire alcuni giorni di vita ancora. Questo non significa, come vogliono le posizioni eutanasiche, “decidere il momento ed il modo della propria morte”, ma aspettare la morte nelle condizioni ottimali per riceverla, avvalendosi nella fase terminale delle cure “normali” ed eventualmente delle cure palliative.

Il rifiuto dell’accanimento terapeutico si contrappone all’eutanasia, in particolare alla cosiddetta eutanasia passiva, che si indica anche a volte con le espressioni lasciar morire, diritto di morire, morire con dignità. Queste espressioni possono indicare sia l’astensione dell’accanimento terapeutico che l’induzione alla morte tramite omissione. Il valore etico dei due atti, però, è opposto: nel primo caso significa accettare la finitezza umana e con ciò l’ineluttabilità della morte naturale, nel secondo voler porre fine alla vita di un essere umano. Il secondo caso, nel rifiuto all’adeguamento delle leggi biologico-naturali che governano la vita corporea, rileva l’intento di costituirsi padroni della vita, determinandone l’ora e il modo della morte (propria o altrui) ed esasperando sia il concetto di paternalismo che quello di autonomia.


Anche la pratica del suicidio può servire a legittimare l’eutanasia volontaria


C’è anche chi – personaggi e studiosi di fama internazionale - nel tentativo di sostenere la legittimità dell’eutanasia volontaria, tira in ballo la questione del suicidio ed evoca la diffusione della pratica del suicidio nella storia umana, come qualcosa che in fondo sarebbe stato sempre accettato come possibile, inevitabile, addirittura doveroso e certamente “dignitoso”.

Il 10 settembre scorso, in occasione della “Giornata Mondiale per la prevenzione del suicidio”, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha diffuso gli ultimi dati disponibili.

Nel mondo, ogni anno circa un milione di persone muore per suicidio. Il suicidio rappresenta circa il 3 per cento delle cause di morte. Negli adolescenti sotto i 15 anni il suicidio è la prima causa di morte in alcuni Paesi: Cina, Svezia, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda. Il suicidio è invece la prima causa di morte per le persone dai 15 ai 24 anni in moltissimi paesi ed è una delle cause primarie di morte in tutti i Paesi del mondo per i giovani adulti e gli adulti tra i 25 e i 60 anni. Secondo l'Oms, dal 1950 al 1995 la percentuale di morti per suicidio è cresciuta globalmente del 60 per cento.

I tassi più alti di suicidio (dati Oms 2000) si riscontrano in Europa, in particolare nell'Europa dell'Est: in Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Ungheria, Russia e in Paesi asiatici come Cina e Giappone. Quelle più basse in America Latina, Paesi Arabi e in alcuni Paesi come Argentina, Brasile, Kuwait e Thailandia. I Paesi africani non forniscono dati sufficienti. In numeri assoluti il più alto numero di suicidi si trova in Cina e India che rappresentano da sole circa il 30 per cento dei casi.

Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, i fattori di rischio variano per continenti e paesi diversi, secondo variabili culturali, sociali ed economici.

I disturbi psichici sono associati al 90 per cento dei suicidi. In particolare depressione, schizofrenia, disturbi della personalità. E poi abuso di sostanze, alcolismo (tra il 5-10 per cento di chi è dipendente si toglie la vita), malattie fisiche croniche e dolorose, cancro e Hiv in primis, ma anche disturbi neurologici. Tra i fattori ambientali, problemi di relazione e familiari, violenze subite, lutti, divorzi.

In Italia – come riferisce “Telefono Amico” - si valutano tra 3.500 e 4.000 i suicidi ogni anno. I dati epidemiologici sui suicidi e i tentativi di suicidio provengono dall'autorità giudiziaria - verbali e rapporti di Polizia e Carabinieri - o da quella sanitaria, secondo i dati elaborati dall'Istituto di statistica sanitaria tratti dai certificati di morte. Tali fonti sono spesso non coerenti tra loro e i dati sono, per parere unanime degli esperti, molto sottostimati (soprattutto quelli forniti dall'autorità giudiziaria) e separazioni, altri eventi traumatici recenti, solitudine. Influiscono in modo rilevante le condizioni economiche, tracolli finanziari, povertà, disoccupazione, emigrazione. Il 10-14% di chi ha tentato il suicidio si toglie la vita.

Nel 2004 i suicidi "ufficiali" sono stati per l'Istat 3.265 (758 donne e 2.507 uomini), con un tasso di 5,6 su 100.000 persone, con prevalenza del Nord Est e valori molto più bassi nell'Italia Meridionale. Nel 2004 meno dell'1 per cento dei suicidi aveva meno di 18 anni, poco meno di due terzi erano in età lavorativa (dai 18 ai 64 anni) e oltre un terzo aveva superato i 65 anni. La tendenza al suicidio aumenta in percentuale all'aumentare dell'età. Tra i principali "moventi", così definiti dai verbali delle forze dell'ordine, si rileva la malattia psichica, presente in circa metà dei casi, motivi affettivi, economici, malattie fisiche.

Questi i dati sulla rilevante questione suicidio, della quale si occupa anche l’”Evangelium Vitae”, quando afferma che il suicidio “comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme” (n. 66).

La grave ingiustizia dell’atto suicida si riassume nel principio secondo cui la vita è un bene indisponibile, ovvero qualcosa che caratterizza in profondità il nostro essere e che non può pertanto essere eliminato, come accade invece di un bene che ci si procura autonomamente. Come avverte Claudia Navarini, “il suicidio, non indica solo il disprezzo della vita, ma lo sganciamento dalla realtà, dall’essere. Non a caso i padri della ‘rivoluzione sessuale’ esibivano, accanto ad atteggiamenti violentemente contrari alla difesa della vita innocente e della famiglia naturale, autentiche apologie della morte e del suicidio, come forme supreme di rifiuto dell’ordine naturale o verità dell’essere. Una società che ‘tutelasse’ il suicidio, sovvertirebbe infatti l’ordine naturale e scardinerebbe dalla base ogni possibile riferimento al bene comune”.

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