Tracce N. 11 > dicembre 2003
Primo piano
Uomo-donna. Se non è per sempre, non vale
Giorgio Paolucci
La Preside di Psicologia in Cattolica legge l’attualità del giudizio sul matrimonio. «Il gesto sacramentale più valorizzatore dell’umano». In un’epoca che esalta la “magia” di esperienze affettive istintive e momentanee
Il matrimonio viene spesso contrabbandato come un’armonia magica, mentre è un’impresa che ha in sé un’evidente drammaticità, in cui le differenze sono un dato naturale e ineliminabile. Non serve applicarsi a limarle, come se volessimo cloroformizzare la realtà e, in fondo, negarla. L’amore vero chiede che l’incancellabile alterità del partner non venga nascosta o appiattita, ma accolta e abbracciata. Giussani lo spiega anche nel libro Il miracolo dell’ospitalità: «Se un uomo accoglie una donna - paradossalmente acuendo la consapevolezza della diversità - e l’abbraccia in questa consapevolezza, mai l’avrà accolta così interamente».
Elogio del matrimonio. Un elogio impopolare in questi tempi segnati dalla fragilità dei rapporti, e in cui aumentano le libere convivenze, si discute di divorzio breve e si chiede il riconoscimento delle unioni omosessuali. Il fatto che ci sia chi, come don Giussani, definisce il matrimonio come «il segno più grande dell’identità tra umanità e fede cristiana», sembra una provocazione. Un pugno nello stomaco dei benpensanti, ma anche di tanti cattoliconi adagiati sul divano delle buone abitudini che non danno troppo fastidio a un’esistenza fatta di mediocrità.
Conversando della Lettera al Santo Padre con Eugenia Scabini, docente di Psicologia sociale della famiglia e preside della facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, ci si accorge che la breve, ma intensa rilettura del magistero di Giovanni Paolo II che Giussani fa, arriva alle profondità dell’esperienza umana.
Cosa impariamo dall’esperienza del matrimonio?
L’amore durevole tra l’uomo e la donna è l’esperienza umana primaria per eccellenza, il segno più eloquente che l’uomo si realizza pienamente attraverso un legame con l’altro, che l’io è costitutivamente aperto all’incontro con un tu, che l’io si esprime in una relazione.
Oggi va di moda la parola autorealizzazione: ebbene, il matrimonio ricorda che l’uomo non si fa da sé, ma realizza la sua identità entro una relazione privilegiata, un legame amoroso con un altro profondamente diverso da sé (un altro genere) eppure a sé simile. Questo legame non è un fatto privato tra due persone. Tutte le culture hanno dato un riconoscimento pubblico all’amore tra l’uomo e la donna: la presenza dei testimoni alle nozze sta a sottolineare che c’è un “terzo” che riconosce questo legame.
E l’unione tra uomo e donna in una prospettiva generativa è essenziale per la sopravvivenza della società.
Perché la Chiesa ha eletto il matrimonio alla dignità di sacramento?
Il sacramento del Matrimonio suggella l’esperienza umana dell’amore, dandole una solidità e una prospettiva di integrità, fedeltà e stabilità che da sola non avrebbe.
È come se la natura diventasse sacra: un legame naturale viene sacralizzato. E in questa sacralizzazione la coppia trova anche la possibilità di superare le fragilità che appartengono alla natura umana e di continuare il suo percorso. Per questo Giussani definisce il Matrimonio come «il gesto sacramentale più valorizzatore dell’umano».
Nell’esperienza della coppia le differenze vengono vissute come fonte di attrazione reciproca e di complementarietà, ma anche come obiezione alla realizzazione di una vera unità. La differenza finisce per diventare scandalo, fino a chiedersi: come è possibile che l’unità perduri?
Tenere insieme, legare in un rapporto profondo e duraturo un uomo e una donna (la differenza originaria, si potrebbe dire) è la sfida. Come già diceva Lévy Strauss in una prospettiva antropologica: «Il matrimonio è far diventare familiare l’estraneo».
Il punto di partenza di un rapporto di coppia è solitamente l’esperienza dell’innamoramento. Come è possibile che l’innamoramento diventi amore stabile e duraturo, specie in un contesto come quello attuale in cui l’effimero e la provvisorietà sono i canoni dominanti?
L’innamoramento parte da un’attrattiva naturale verso l’altro che spinge a incontrarlo. C’è, al fondo, una “presunzione di somiglianza”: si tende ad attribuire all’altro una forte similitudine a sé e la possibilità di intesa viene avvertita come molto facile. Questo ha in sé una forte valenza emotiva, ma anche una buona dose di illusorietà e nell’impatto con l’esperienza subisce un ridimensionamento: l’altro si rivela non sempre all’altezza delle primitive e spesso irrealistiche aspettative. Possiamo dire che questa prova, se superata, fa transitare dall’innamoramento all’amore vero. Si passa dalla idealizzazione all’ideale, una presenza quest’ultima che muove a percorrere i sentieri anche difficoltosi del rapporto. L’amore è un lavoro che impegna, l’intesa va costruita giorno dopo giorno, il rapporto coniugale va nutrito incessantemente, altrimenti inaridisce. Occorre passare dall’esperienza esaltante dell’innamoramento all’assunzione di responsabilità e di costruzione comune dell’amore. Il passaggio dall’innamoramento all’amore è cruciale e spesso i matrimoni non reggono a questo “salto”. Possiamo provocatoriamente dire che oggi occorre sposarsi più volte nella vita, ma con la stessa persona, rinnovare costantemente quel patto che va nutrito e sostenuto nel tempo con un lavoro che tocca profondamente la libertà personale di chi ha contratto il patto di fedeltà nella gioia e nel dolore. Il passaggio cruciale che la coppia è chiamata a fare è da «sposo questo (aspetto) in te» a «sposo te».
L’alternativa che la “modernità” propone è invece sposarsi più volte nella vita con persone diverse,
la strada illusoria di cercare in altre esperienze affettive la risposta al desiderio di compiutezza che ciascuno porta nel cuore. C’è una mentalità che giustifica il cambio di partner a motivo degli ostacoli che nascono in una relazione: la fatica viene vissuta come ostacolo alla relazione medesima, la quale - chissà perché - dovrebbe godere di una sorta di “armonia prestabilita”, indenne dalle fatiche del vivere.
Rovesciamo la prospettiva e chiediamoci: perché all’enfasi sul rapporto di coppia non risponde un altrettanto forte richiamo a impegnarsi in un suo nutrimento? Ci si prende giustamente cura dei figli, perché non ci si prende altrettanto cura del legame di coppia, di una sua educazione? La generazione anche psichica fiorisce da un amore che precede. Il figlio è frutto dell’amore coniugale e non il suo sostituto.
Giussani paragona lo sguardo del Papa sull’amore - che definisce «cosciente di quell’approssimazione all’Ideale che c’è in ogni momento umano» - a quello di Dante. Il quale è consapevole che «l’uomo nella sua vita terrena sta con un pezzo di se stesso» in attesa del compimento.
Una posizione vertiginosa, difficile da mantenere…
Nella lettera sono commoventi i versi della Vita Nova che accompagnano la descrizione di questa posizione: «Uno spirito soave pien d’amore, va dicendo a l’anima: Sospira». Citando Dante, Giussani evoca la dinamica profondamente umana del desiderio che è cosa diversa dal soddisfacimento immediato dei nostri bisogni o per lo meno ci spinge ad andare oltre essi. Nel legame tra uomo e donna il desiderio “smonta” la pretesa che l’altro sia la risposta totale alla tua tensione verso la felicità, e nello stesso tempo alimenta la domanda di infinito, di “per sempre” che è l’anima profonda della relazione.
Nell’amore si fa esperienza di qualcosa di più grande, di un mistero che eccede i due e che si esprime con un sospiro, non certo un sospiro di rassegnazione, ma un sospiro che esprime un anelito.
Se non c’è sospiro è inevitabile cadere nella pretesa verso l’altro e nella rabbia per la propria ed altrui inadeguatezza.
Due persone che vivono l’esperienza dell’amore vero “sospirano”, perché attraverso l’altro si affacciano all’infinito, tenendosi per mano si incamminano insieme verso il compimento di entrambi. Sperimentano che l’amore all’altro coincide con l’amore per il destino dell’altro. Hanno un comune destino e sono frutto di un amore che li ha preceduti.
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