Da "L'Osservatore Romano" di domenica 11 novembre 2007
di Patrizia Clementi
La polemica, creata da una lettura approssimativa della normativa e dalla malevola distorsione dei dati oggettivi, dura ormai da un paio di anni e si arricchisce via via di elementi che, estranei alla questione originaria, lasciano trasparire la volontà di attaccare l'attività sociale che la Chiesa svolge in Italia attraverso i tanti enti che la compongono.
La recente campagna mediatica contro i presunti privilegi ingiustamente concessi agli enti della Chiesa cattolica ha preso avvio da una nuova richiesta di informazioni al Governo italiano partita dalla Commissione europea ed è stata rafforzata dalla presentazione di un emendamento alla legge finanziaria 2008 volto a sopprimere l'esenzione Ici spettante agli immobili nei quali vengono svolte attività socialmente rilevanti.
La polemica, creata da una lettura approssimativa della normativa e dalla malevola distorsione dei dati oggettivi, dura ormai da un paio di anni e si arricchisce via via di elementi che, estranei alla questione originaria, lasciano trasparire la volontà di attaccare l'attività sociale che la Chiesa svolge in Italia attraverso i tanti enti che la compongono.
È perciò utile ripercorrere sinteticamente i fatti obiettivi, con riferimento a ciò che ha originato la polemica: l'interpretazione dell'esenzione Ici. Tra le ipotesi di esclusione dall'imposta previste fin dal 1992 vi è quella che riguarda gli immobili «utilizzati dai soggetti di cui all'art. 87, c. 1, lett. c) del testo unico delle imposte sui redditi approvato con D. P. R. 22. 12. 1986, n. 917, e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive» (decreto legislativo 504/92, art. 7, c. 1, lett. i). La norma richiede il contestuale verificarsi di due condizioni: gli immobili sono esenti solo se utilizzati da enti non commerciali — tali sono quelli indicati attraverso il rinvio al D.P.R. 917/86 — e se destinati all'esercizio esclusivo di una o più tra le otto attività individuate.
I destinatari dell'agevolazione sono gli enti che costituiscono il cosiddetto mondo del non profit, cui appartengono, oltre agli enti della Chiesa cattolica, anche quelli delle altre confessioni religiose, gli enti pubblici, le onlus, le associazioni di volontariato, le organizzazioni non governative, le associazioni sportive, quelle di promozione sociale e persino i partiti politici. Sono soggetti sottoposti a precisi e rigorosi vincoli normativi che garantiscono l'assenza del lucro soggettivo: essi non possono distribuire utili e avanzi di gestione, né devolvere a fini lucrativi il patrimonio residuo in caso di scioglimento.
Dopo un lungo periodo di pacifica applicazione dell'esenzione lo scenario è cambiato quando, nel 2004, la Corte di Cassazione aggiunge un nuovo requisito a quelli previsti dalla legge: per avere diritto all'esenzione si richiede non solo che l'immobile sia utilizzato da un ente non commerciale e sia totalmente destinato a una o più delle attività previste dalla legge, ma anche che l'attività non venga svolta in forma di «attività commerciale». La «singolarità» dell'interpretazione è evidente se si considera che sotto il profilo tributario un'attività è considerata commerciale se «organizzata» e se resa a fronte di corrispettivi, cioè con il pagamento di rette — anche se tanto contenute da non coprire neanche i costi — o in regime di convenzione con l'ente pubblico.
Per ristabilire l'originario ambito dell'esenzione il legislatore è intervenuto con due norme di interpretazione autentica, che hanno portato ora a precisare che l'esenzione è subordinata alla circostanza che le attività agevolate siano svolte in maniera «non esclusivamente commerciale».
Questi gli elementi oggettivi della questione. Ora il lettore può valutare l'inconsistenza di alcune delle accuse mosse. È falso che l'esenzione sia riservata agli enti ecclesiastici: essa riguarda tutti gli enti non commerciali. È falso che l'esenzione spetti per tutti gli immobili della Chiesa cattolica: essa è limitata a quelli utilizzati per le attività previste dalla legge. In tutti gli altri casi — librerie, ristoranti, hotel, negozi e per le abitazioni concesse in locazione — l'imposta è dovuta. La più odiosa delle accuse è quella secondo la quale l'esenzione verrebbe ottenuta inserendo una cappellina in un immobile non esente, così da farlo rientrare nel concetto di immobile destinato ad attività «non esclusivamente commerciali». È vero il contrario: una cappella all'interno del solito albergo perderebbe l'esenzione di cui, autonomamente considerata, godrebbe.
Da ultimo una precisazione circa l'esenzione spettante agli alberghi degli enti ecclesiastici. L'affermazione è falsa in quanto l'attività alberghiera non rientra tra quelle esenti. Lo sono invece gli immobili destinati alle attività «ricettive», quelli cioè ove si svolgono attività di «ricettività complementare o secondaria» definite da leggi nazionali e regionali e regolate, a livello di autorizzazioni amministrative, da norme che ne limitano l'accesso a determinate categorie di persone e che, spesso, richiedono la discontinuità nell'apertura: per esempio, pensionati per studenti, case di ospitalità per parenti di malati ricoverati in strutture sanitarie distanti dalla propria residenza, case per ferie, colonie e strutture simili.
Se qualche albergo si comportasse come una casa per ferie non ne conseguirebbe che l'esenzione è ingiusta, ma che è erroneamente applicata. Per questi casi i comuni dispongono dello strumento dell'accertamento, che consente loro di recuperare l'imposta evasa. E prima ancora essi dovrebbero contestare ai gestori l'esercizio di attività alberghiera con un'autorizzazione amministrativa incongrua.
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