Con questo blog desidero dare la possibilita' a tutti di leggere articoli ,commenti ,interventi che mi aiutano a guardare la realta', a saperla leggere ed essere aiutati a vivere ogni circostanza positivamente. Mounier diceva "la vita e' arcigna con chi le mette il muso" (lettere sul dolore). E' importante saper abbracciare la realta' tutta per poter vivere la giornata con letizia.
sabato 10 novembre 2007
SIAMO SOFFIO ACCENTO D'ETERNO
Davide Rondoni
Tratto dal quotidiano "Avvenire" del 02 novembre pagina1
Oggi la notizia è la morte. Ma non come tutti gli altri giorni. Quando la morte di uno o di tanti ci arriva come notizia, violenta e penosa, e pur così consueta, triturata e quasi predigerita per il fatto stesso d’esser divenuta titolo o articolo sui giornali o in tv. No, oggi la morte arriva come notizia che ci riguarda. Siamo una società dominata dalla morte, dal suo sentimento e dalla sua spettacolarizzazione. Nutriamo depressioni e sensi opprimenti del limite, nell’arte spesso esibiamo corpi in preda ad anatomie o autopsie. E notiziari e vari youtube pullulano di immagini di morte. Di sorella morte, come la chiamò rispettoso e familiare il primo grande poeta e santo italiano, facciamo spesso carnevale e commedia, esorcizzando. A volte simpaticamente. A volte, con più banale e oscura ovvietà, seguendo mode e misere magie.
Fissata in un tempo in cui non c’erano giornali e tv, la ricorrenza della memoria dei defunti arriva a ricordarci la notizia della nostra stessa morte, che per così dire inizia e più ci duole in quella dei nostri amati. Arrivava sui calendari e oggi sui giornali la notizia che portiamo scritta nelle ossa, nel correre del sangue, tra le linee della mano: siamo qui provvisori. Siamo meno di un soffio: così avrebbero dovuto titolare oggi i giornali. E forse avrebbero offerto, una volta tanto, un colpo salutare. Un salutare scoramento, un venir meno di sicurezze cristallizzate, una ferita. Siamo un soffio in un turbinoso e vasto movimento di astri e millenni. Ben prima che la scienza ce lo facesse vedere, e analiticamente calcolare, i salmisti e i poeti da sempre dicevano che la vita di un uomo è un 'quasi' niente nel gran teatro della vita. Notizia dunque che ben più di altre abbatte la nostra superbia e la ubriaca alacrità con la quale tutti, o quasi tutti, sembriamo presi dal breve giro degli affanni, dei tornaconti immediati. E notizia che ben più di altre innalza la nostra dignità: non siamo fatti solo per misurarci e compierci in un soffio d’anni, ma per confrontarci con il grande mare dell’eterno che si apre dietro a quella porta. La morte è un problema della vita. Un laicissimo e religioso problema della vita. Come dire: un ragionevole problema. Da come guardiamo la morte – altrui e nostra – si capisce come guardiamo la vita. Siamo quasi niente. La morte dunque è la conferma del nostro niente? O al contrario la conferma, del nostro esser 'quasi' niente? In altre parole, è una sorta di coperchio finale che cala sulla nostra esistenza breve o lunga, e sigilla nel nulla tutto quel che abbiamo vissuto e sentito? O è una specie di accento finale, di intonazione ultima data alla vita, di accordo trovato tra il tempo e l’eterno, tra il finito e l’infinito? Mille e mille sono i modi con cui gli uomini hanno immaginato di trovare questo accordo. Mille i modi con cui hanno cercato di modulare questo accento, di lanciare il ponte tra tempo e durata oltre di noi. Modi religiosi e modi idolatri. Oggi prevale la cura della fama, come se essa piccola o grande che sia, assicurasse un merito alla vita. Durare sì, nelle chiacchiera degli uomini o nelle intitolazioni delle strade. I famosi sembrano i più fortunati e forti tra gli uomini. Ma 'l’uom s’etterna' solo perché la sua fama dura oltre la sua fine? O forse, come ha espresso Dante, la fama è la preoccupazione un po’ isterica di intellettuali come Brunetto Latini, una finta, una malacopia dell’eterno? Solo l’incontro con Beatrice, con una presenza amata e piena di grazia, introduce l’uomo a sperimentare la vertigine e il mistero buono dell’al di là, dell’eterno che inizia nel tempo e ci chiama. Senza quell’incontro, la memoria dei morti diventerebbe solo un incubo, un farsi amaro sangue, un’ombra da cui dopo breve sosta fuggire, come nelle struggenti epigrafi antiche. Invece oggi li ricordiamo, i nostri cari morti, con dolente desiderio. Sapendo che l’aggettivo cari è più importante e duraturo di quell’altra parola lì accanto.
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