giovedì 6 dicembre 2007

LA SPERANZA? E' "SOCIALE"


La speranza? È «sociale»
Religione - gio 6 dic
La «Spe salvi» insiste su un cristianesimo poco individualista e non solo occidentale, perciò critica il progresso Parla René Girard
di Daniele Zappalà

Tratto da Avvenire del 5 dicembre 2007



«Mi ha molto colpito l’accosta­mento nell’enciclica fra fede e speranza, quando si sottolinea che esse vengono quasi confuse lungo la sto­ria del messaggio cristiano. Il Papa sembra rimproverare al mondo più l’assenza di spe­ranza che di fede, dato che la speranza ha un ruolo essenziale nella fede». Il grande antro­pologo francese René Girard ha letto la Spe Salvi con gli occhi del credente, oltre che con quelli dell’instancabile e­sploratore del sacro.

Professore, quali impres­sioni hanno accompa­gnato la sua lettura?
«Ancora una volta, in que­st’enciclica si avverte con forza la volontà di Bene­detto XVI di mettere l’ac­cento sulle verità fonda­mentali del cristianesimo, oggi spesso trascurate. La speranza cristiana, ci vie­ne detto, non è così indivi­dualistica come la nostra epoca tende a far credere. Al contempo, affrontare il mondo sociale nell’ottica delle ideologie mo­derne è riduttivo e fuorviante».

In che senso lei parla di un’enciclica «socia­le »?
«Nel senso, direi, di un ritorno alle basi socia­li fondamentali del cristianesimo. La cristia­nità nel suo insieme è più importante di cia­scuno di noi. Ed essa è minacciata da una fal­sa concezione del progresso. Una minaccia diretta, in un certo senso fisica, grava sul no­stro mondo. Mi pare che l’enciclica alluda chiaramente ai problemi posti dagli arma­menti, dall’ambiente, dal consumo di petro­lio».

Nella prima parte, si rievoca l’avvento della speranza cristiana in un mondo pagano sprovvisto di prospettive.
«Ci viene detto molto chiaramente che gli dei del mondo antico, come quelli romani, non potevano apportare la speranza agli uomini. Il Dio dei cristiani è del tutto diverso. Il suo a­more e il suo interesse per gli uomini sono co­stanti, profondi, molto più profondi della no­stra stessa concezione della natura umana».

L’enciclica ricorda anche le prime rappre­sentazioni di Cristo come un filosofo. Perché, a suo parere?

«Si trattava di uno sguardo che non prestava sufficiente attenzione alla Passione, al dato es­senziale del cristianesimo. Quest’evento era talmente nuovo che mancava anche il lessico per parlarne. Ma pure oggi possiamo chiederci se non siamo ancora in cammino verso inter­pretazioni più profonde della Passione. L’en­ciclica invita, mi pare, a una riflessione co­stante sul fatto che Dio è più vicino a noi per­ché esiste questa sofferenza così necessaria nel rapporto fra Dio e l’uomo».

Una sofferenza ricordata dalle figure di san­tità citate.

«I modelli di santità nell’enciclica sono mo­derni e provengono da Paesi non occidentali che hanno enormemente sofferto e che non avevano una tradizione cristiana. L’enciclica insiste dunque sull’universalità del cristiane­simo e sul fatto che esso è vivo anche dove gli occidentali tendono a non volgere lo sguardo. In queste regioni, il cristianesimo cresce e rag­giunge espressioni per certi aspetti più inten­se che nell’Occidente rigonfio di scienza e del­le sue capacità di produzione».

«La fine di tutte le cose» di Kant viene indicata come come una pietra miliare dei dub­bi sul progresso. La sorprende questa cita­zione?

«Questo passaggio dell’enciclica è molto in­teressante perché sottolinea come la filosofia moderna, se la si guarda più da vicino, è me­no semplicista nella sua visione della moder­nità, della scienza e del progresso di quanto spesso si dica. Anche nella filosofia, dunque, la nostra coscienza può trovare spunti per ve­gliare di fronte ai pericoli che attraversano il nostro tempo».

Ma la filosofia, ad esempio quella di Marx, può diventare anche base di ideologie dram­matiche.


«L’enciclica ci ricorda proprio il vizio princi­pale delle utopie moderne. Esse credono pos­sibile di poter – per così dire – completare in modo definitivo l’umanità, ma ogni volta la realizzazione dell’utopia lascia l’uomo nello sconforto. Oltre che deteriore, questo genere d’utopismo oggi comincia ad apparire terri­bilmente superato, nella sua concezione pu­ramente materialistica e senza prospettive spi­rituali della felicità umana. Accanto a tutto ciò, il cristianesimo appare come un’apertura ver­so l’infinito che non può venire colmata».

E in quest’apertura infini­ta, il cristiano non può di­menticare il Giudizio uni­versale.


«La parte finale dell’enci­clica ci ricorda che il mo­do in cui il cristianesimo ha concepito il destino dell’uomo resta oggi per­fettamente valido. Vi è qui un ritorno alla tradizione ecclesiale della cristianità e un richiamo all’ap­profondimento del cristia­nesimo attuale attraverso le fonti originali e le virtù teologali, da opporre alle nostre piccole fedi e speranze quotidiane. A tratti, sembra che il Papa voglia mostrare co­me per questo mondo disilluso non sarebbe difficile volgersi verso il cristianesimo. Mi pa­re cruciale l’insistenza dell’enciclica sul fatto che non può esservi scoperta di strutture ca­paci di garantire la pace in modo permanen­te. L’uomo è tale che non può liberarsi da so­lo delle fonti della sua autodistruzione».

La speranza cristiana è anche quella dell’u­nione fra i cristiani.

«Sì, il ritorno all’unità è presente fra le righe co­me una missione essenziale. La preoccupa­zione dell’unità è costante perché si ricono­sceranno i cristiani proprio da quest’unione. Oggi non siamo riconoscibilmente cristiani perché restiamo profondamente divisi».



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