"Nella speranza siamo stati salvati". La seconda enciclica di papa Benedetto
La scienza, la ragione, il progresso esaudiscono molte attese ma non danno la "vita eterna". Papa Joseph Ratzinger rimette i cristiani e il mondo davanti al giudizio di Dio. E porta ad esempio due santi, tra i più umili e sconosciuti
di Sandro Magister
ROMA, 30 novembre 2007 – L'enciclica "Spe salvi" sulla speranza, che Benedetto XVI ha firmato e pubblicato oggi, festa di sant'Andrea apostolo e antivigilia dell'Avvento, muove da questa motivazione, descritta così nel paragrafo 22:
"È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza.
"In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire.
"Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire delle proprie radici".
In questa doppia "autocritica" della cultura moderna e del cristianesimo, prosegue il papa, "ragione e fede hanno bisogno l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione".
* * *
Bastano queste poche righe per capire quanto l'enciclica rechi l'impronta fortissima di Joseph Ratzinger filosofo, teologo e papa.
Sbaglierebbe però chi aspettasse di leggervi solo una dotta lezione. Lo stile è vibrante, l'argomentazione ricca di immagini, il racconto animato di personaggi.
Scorre davanti agli occhi del lettore l'intera storia del mondo, dal principio fino al suo compimento. Le pagine finali su Cristo giudice, sull'inferno, sul purgatorio, sul paradiso, sono folgoranti per i temi in se stessi – quasi spariti dalla predicazione nelle chiese – e ancor più per come sono sviluppati.
La lettura intera del testo è d'obbligo, come sempre per gli scritti di Benedetto XVI, che non hanno mai la pagina clou, la frase manifesto facilmente isolabile.
Ma per mostrare come la lettura di "Spe salvi" può riservare parecchie sorprese, ecco riportati qui di seguito due brani, tratti dal paragrafo 3 e dal paragrafo 37.
Portano ad esempio della speranza cristiana due santi, e non dei più famosi.
La prima è un'africana del Darfur, il secondo è un martire del Vietnam.
Santa Giuseppina Bakhita
Giungere a conoscere Dio, il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile. L'esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio.
Penso all'africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All'età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, tornò in Italia.
Qui, dopo "padroni" così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un "padrone" totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava "paron" il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo.
Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un "paron" al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona.
Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei, anzi, che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal "Paron" supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava "alla destra di Dio Padre". Ora lei aveva "speranza", non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e, qualunque cosa accada, io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona.
Mediante la conoscenza di questa speranza lei era "redenta", non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo, senza speranza perché senza Dio.
Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era disposta a farsi di nuovo separare dal suo "Paron". Il 9 gennaio 1890 fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del patriarca di Venezia. L'8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò i voti nella congregazione delle suore Canossiane e da allora – accanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione. La liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Gesù Cristo sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l'aveva "redenta", non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.
San Paolo Le-Bao-Thin
Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell'amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine.
Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore.
Vorrei in questo contesto citare alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin († 1857), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede:
"Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia (cfr Salmo 136 [135]).
"Questo carcere è davvero un'immagine dell'inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza.
"Ma Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me [...]. Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Salmo 80 [79], 2) e i Serafini? Ecco, la tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov'è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell'ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore.
"Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti [...]. Fratelli carissimi, nell'udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia. [...] Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l'àncora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore...".
Questa è una lettera dall'"inferno". Si palesa tutto l'orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s'aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse ulteriori strumenti della crudeltà degli aguzzini.
È una lettera dall'inferno, ma in essa si avvera la parola del Salmo: "Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti [...]. Se dico: “Almeno l'oscurità mi copra” [...] nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce" (Salmo 139 [138] 8-12; cfr anche Salmo 23 [22],4).
Cristo è disceso nell'"inferno" e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili.
È sorta, tuttavia, la stella della speranza, l'àncora del cuore giunge fino al trono di Dio. Non viene scatenato il male nell'uomo, ma vince la luce: la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode.
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