........«Cominciò il periodo di confino e al suo inizio il cancro. Nell’autunno del 1953 sembrava assai probabile ch’io avessi solo pochi mesi di vita. In dicembre i medici […] confermarono che non mi rimanevano più di tre settimane.
«Tutto quanto avevo memorizzato nei lager minacciava spegnersi con la mia testa.
«[…] Durante quelle ultime settimane promesse dai medici […], di sera e durante le notti rese insonni dal dolore mi urgeva la necessità di scrivere: con scrittura minutissima riempivo i fogli, ne arrotolavo diversi insieme e li infilavo in una bottiglia di spumante vuota. Sotterrai la bottiglia nel mio orto e a capodanno del 1954 partii per Taškent per morirvi........
.....«Tuttavia non morii (dato il trascuratissimo tumore acutamente maligno, questo fu un miracolo di Dio, e solo come tale lo interpretai. L’intera vita che mi è stata restituita da allora non mi appartiene più nel senso completo della parola, vi è stato immesso uno scopo»[1]. È la narrazione del disvelamento di una vocazione, della percezione, nel silenzio interiore del confronto con la morte, di una chiamata ad una missione. La missione di salvare la memoria della tragedia del comunismo e della sua realizzazione tipica, il GULag – l’universo concentrazionario, che è il regime duro di una negazione della libertà e dell’umana dignità che nel resto del territorio è praticata con regime ordinario, secondo la lezione di Alain Besançon –, e di combatterlo narrandolo.....
La scomparsa di Solženicyn
di Giovanni Formicola
Tratto da L'Occidentale il 4 agosto 2008
Ho appena appreso della scomparsa di Alexandr Solženicyn (1918-2008). La mezzanotte è ormai passata da un pezzo, ma non posso fare a meno di scrivere qualcosa su di lui.
Certo, non pretendo così di pagare il debito che nel processo della mia formazione (del cui esito certamente non è colpevole) ho contratto con questo autentico gigante della letteratura e del pensiero – ma ancor più gigantesco nel coraggio e nella forza della volontà sottomessa allo spirito e non alla libido, fino all’eroismo vero –, che il nostro tempo non ha saputo apprezzare e amare come meritava.
Incommensurabile è il mio debito rispetto a queste poche righe, così come le stesse non hanno alcun’altra pretesa se non quella di esprimere gratitudine ad un uomo che ha aiutato, chi lo ha conosciuto anche solo attraverso la sua opera, a essere uomo, in un tempo in cui è stato ed è difficile esserlo, senza piegare la schiena e la mente alle menzogne ideologiche in voga. E poi, ancorché in modo peculiare, secondo la logica di un itinerario che non può essere invertito, dopo aver aiutato ad essere uomo, ha aiutato anche a essere cristiano, tanto che il suo nome è uno dei pochi di autori contemporanei profani e neppure cattolici a essere stato citato in documenti del Magistero pontificio.
Certo, neanche posso pretendere di rendergli omaggio e men che meno di provare a delinearne anche solo un abbozzo di profilo. Per farlo – attesa la dimensione dell’uomo e della sua opera – occorrerebbero altro talento, altro spazio e soprattutto una conoscenza completa della sua sterminata produzione, o almeno delle sue parti essenziali. E chi come me ha saputo leggere della sua storia della Rivoluzione in Russia in forma romanzata – ma pur sempre storia! – Krasnoe koleso, la Ruota rossa, solo la minima parte tradotta in italiano, Lenin a Zurigo e Agosto 1914, deve limitare le proprie mire.
E le limito tanto da ricorrere non più alle parole mie – anche troppe fin qui –, ma anzitutto alle sue, così dense di significato quanto possono esserle quelle con le quali si ricorda l’illuminazione ricevuta circa il senso della propria vita in circostanze tanto drammatiche da far risaltare solo l’essenziale, l’unum necessarium.
«Cominciò il periodo di confino e al suo inizio il cancro. Nell’autunno del 1953 sembrava assai probabile ch’io avessi solo pochi mesi di vita. In dicembre i medici […] confermarono che non mi rimanevano più di tre settimane.
«Tutto quanto avevo memorizzato nei lager minacciava spegnersi con la mia testa.
«[…] Durante quelle ultime settimane promesse dai medici […], di sera e durante le notti rese insonni dal dolore mi urgeva la necessità di scrivere: con scrittura minutissima riempivo i fogli, ne arrotolavo diversi insieme e li infilavo in una bottiglia di spumante vuota. Sotterrai la bottiglia nel mio orto e a capodanno del 1954 partii per Taškent per morirvi.
«Tuttavia non morii (dato il trascuratissimo tumore acutamente maligno, questo fu un miracolo di Dio, e solo come tale lo interpretai. L’intera vita che mi è stata restituita da allora non mi appartiene più nel senso completo della parola, vi è stato immesso uno scopo»[1]. È la narrazione del disvelamento di una vocazione, della percezione, nel silenzio interiore del confronto con la morte, di una chiamata ad una missione. La missione di salvare la memoria della tragedia del comunismo e della sua realizzazione tipica, il GULag – l’universo concentrazionario, che è il regime duro di una negazione della libertà e dell’umana dignità che nel resto del territorio è praticata con regime ordinario, secondo la lezione di Alain Besançon –, e di combatterlo narrandolo.
E da allora Solženicyn non è venuto meno a tale impegno di vita contratto con il Creatore stesso. Egli si è impegnato a far capire in tutti modi possibili che il comunismo altro non era che un cancro[2], dalla natura irrimediabilmente malvagia, e che se tutto aveva avuto origine dalla «dimenticanza di Dio» (citando Dostoevskij [1821-1881], ricordava a Londra il 1 maggio 1983, in occasione della consegna del premio «Templeton», che «la Rivoluzione parte sempre dall’ateismo»), tutto poteva finire solo tornando alla «santità come ideale sociale»[3].
E la cosa più straordinaria è che, contro ogni speranza umana, l’esule perseguitato e poco amato in Occidente perché ne stigmatizzava i vizi (i «liquami» penetrati dall’ovest nelle società vittime del comunismo passando «al di sotto del Muro»), primo fra tutti la viltà nei confronti dell’impero rosso, ha compiuto la sua missione.
Torno a rispettare l’impegno a usare parole non mie e trascrivo quelle di Ernesto Galli Della Loggia, intervistato da Lucio Caracciolo:
«Ma perché in Italia la koinè di sinistra, certo non solo comunista, resiste impavida alle repliche della storia?
«Se permette una battuta: perché in Italia non si legge Solženicyn. La maggior parte delle persone colte che conosco non l’ha mai letto. Sembra incredibile, ma è così. Non esiste una edizione tascabile delle opere di Solženicyn. Se lei oggi cerca Arcipelago Gulag in libreria non lo troverà, a meno di esser straordinariamente fortunato. Il grande autore russo viene considerato da noi uno strano personaggio, del quale non si può dir male perché, poverino, è stato per tanti anni prigioniero in un gulag. In Francia, per prendere il paese dove è accaduto l’esatto opposto di quanto accaduto in Italia, i libri di Solženicyn hanno annichilito i gauchistes»[4].
Probabilmente, poiché anche in Italia, finalmente, i gauchistes sembrano essere stati annichiliti, Solženicyn sarà stato letto più di quanto si pensi.
Certamente non può dirsi «persona colta» chi non l’abbia letto.
Ma soprattutto, pur non potendo dichiarare certezze, credo proprio che – nonostante certe sue asprezze degli ultimi anni – il Signore avrà già riconosciuto la fedeltà del suo servo, che ha ben impiegato i talenti ricevuti, e l’avrà accolto tra le sue braccia.
[1] Alexandr Solženicyn, La quercia e il vitello. Saggi di vita letteraria, trad. it., Mondatori, Milano 1975, pp. 11-12.
[2] Cfr. Idem, L’errore dell’Occidente. Gli ultimi interventi su comunismo, Rrussia e Occidente con, in appendice, il «discorso di Harvard, La Casa di Matriona, Milano 1980, p. 20.
[3] Idem, La millenaria fede popolare è il nostro bene supremo (in occasione del conferimento del premio Templeton, in Ricostruire l’uomo. Scritti e interviste su Polonia, Russia e Occidente, La Casa di Matriona, Milano 1984, pp. 12-15.
[4] E. Galli della Loggia, Intervista sulla destra, a cura di L. Caracciolo, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 132
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