sabato 1 settembre 2007

Claudio Chieffo

Tempi num.35 del 30/08/2007
Suonò in Russia e Kazakistan. Compose la Salve Regina del terzo millennio. Sempre cantando in ogni nota quel suo primo incontro con l'amico don Giussani

di Manes Enzo


Rimini
L'anno addietro, a casa sua, nel cuore di Forlì. Claudio Chieffo è lì sulla porta che ci attende. Ritto e bello, per come può esserlo un uomo molto malandato dalla malattia. E pienamente felice. La sera prima ha regalato un concerto che nessuno dei quattromila stipati nell'arena del Meeting di Rimini voleva finisse mai. Il suo popolo, ecco. Che conosceva a menadito le sue canzoni. Genitori e figli. Uomini e donne. Magnifica compagnia che cantava che «è bella la strada per chi cammina» e che «il Signore ha messo un seme nella terra del tuo giardino». Adesso che l'avventura di Claudio continua sul palcoscenico più prestigioso, artista a tu per tu con l'Artista, incalza la certezza che era proprio un tipo bravo. E tosto. Che gli riuscivano davvero bene le canzoni. Semplici, vere, di carne e sangue.
Il pittore americano Bill Congdon gli diceva spesso che le canzoni sono una finestra aperta sul mistero di Dio e della bellezza. La sua finestra verrebbe da dire che è sempre parsa spalancata. Quarant'anni di carriera, 113 canzoni, oltre tremila concerti in Italia e nel mondo. «Ho suonato pure in Russia e in Kazakistan», ci diceva con sacrosanta soddisfazione una volta passati nella sua stanza, piena di vita, di sana confusione, di aggeggi elettronici, computer, spartiti. E altre meraviglie tecnologiche e artigianali. Claudio quel giorno di un anno fa non ha concesso un'intervista a Tempi, ha concesso se stesso per qualche ora raccontando di una vita di grande sapore, dove tornava con parole e note tutta la sua gratitudine al buon Dio che gli aveva fatto incontrare dapprima un sacerdote di casa sua come Francesco Ricci e poi un altro sacerdote che stava a Milano, Luigi Giussani. Che tampinava non appena aveva da fargli sentire una nuova canzone. «Avevo 18 anni quando canto a Giussani La ballata dell'uomo vecchio e lui, secco, deciso, mi dice: "Ho capito chi sei". Io sono rimasto zitto, però tra me ho commentato: "Ma se non ho capito io chi sono. Uno che mi parla in questo modo mi interessa"».
Così, mosso da un interesse senza paragoni, Chieffo segue con fedeltà ed entusiasmo Giussani e il movimento di Comunione e liberazione. E appunto scrive canzoni. Non da cantautore cattolico che lui ha sempre ritenuto un'espressione da baraccone, bensì da artista capace di andare dritto dritto alla questione, un accesso semplice e mai banale alla verità della fede. Claudio ci guardava fisso negli occhi e con una dolcezza disarmante parlava delle sue canzoni come di un tutt'uno con un fatto e non di una teoria: «Sono persuaso che se fosse stata una teoria non sarebbe venuto fuori nulla di buono. Anzi, non avrei scritto alcuna canzone. Invece io avevo incontrato la risposta». E allora ci ha regalato tanto, tantissimo, consapevole, come solo tutti i grandi riescono ad esserlo, che prima di tutto gli è toccato a lui un dono e che dono. Insomma, se Dio vuole, nasce una canzone «perché le gravidanze isteriche non producono nulla», buttava lì mentre con gli occhi cercava conferma nei nostri.
Naturalmente ci parlò della malattia che progressivamente aggrediva, gli feriva il corpo e provava a fiaccarne lo spirito. Col cancro non si scherza mai, si prega. Per sé, se si riesce, per la moglie Marta e per i figli Benedetto, Maria Celeste e Martino. Domandando di guarire anche quando la resistenza è forte. «L'ho fatto, ho obbedito un'altra volta alla compagnia e così ho capito che il male non è l'ultima parola su di me, anche se il limite è stringente e non basta una vita per accettarlo».
Già, la compagnia. Come una carezza. Che lo ha ringraziato affollando (non ci passava neanche uno spillo) il duomo di Forlì e il piazzale. Tanto dolore, nessuna mestizia. Con una banda che ha aperto il corteo funebre, suonando proprio il suo celebre Avrei voluto essere una banda. Quasi una naturale atmosfera di festa, sensazione palpabile e per nulla blasfema. Come un'infinita stretta. Che, siamo certi, lo avrà commosso. Lui che parlava così al figlio Martino in uno degli ultimi giorni: «Di un po', Marti, dove vanno le persone felici?». Non lo so, papà. «Vanno dal Signore a dirglielo».
Chieffo era proprio così. Mica ci girava intorno alle vicende della vita, le ha sempre guardate in faccia e ne ha scritto canzoni. Per tutti. Ancora quel pomeriggio che ritorna impetuoso, l'uomo che apre il notebook e fa partire una base. Sentiamo un pianoforte che avanza. E Claudio inizia a mettere sopra a quel tappeto la sua voce. Che ricordiamo bella, ancora piena, sorprendentemente intatta come la sera dell'evento al Meeting. «E io ti sto aspettando, amico, ti sto aspettando, tu non sei solo come credi: cammino nelle tue scarpe. Sotto questo albero si sta bene e io non vedo l'ora di abbracciarti, di vederti arrivare». Questa canzone che si chiama Chanson de l'Ange l'aveva scritta per Elena, una sua cara amica morta. «Sono riuscito a cantargliela e i suoi genitori hanno voluto che lo facessi anche al funerale».
Quante emozioni un anno fa a Forlì. Chieffo contento e grato. Vero e ironico. Che si commuove parlando di Gaber e delle lunghe chiacchierate col signor G sul senso della vita e il suo mistero; che ci dice come il cardinale Giacomo Biffi, ascoltando la sua Ave Maria splendore del mattino, la consacrò la Salve Regina del terzo millennio; che il professor Amerigo Boiardi, oncologo dell'Istituto Besta di Milano, lo invita, se ne ha voglia, nonostante il male a continuare a cantare, «per te e per tutti noi»; che solo due mesi prima il concerto del Meeting sarebbe stato impossibile. Poi l'improvviso miglioramento con il cervello che si snebbia. «E poi dicono che siamo padroni di noi stessi. Mi viene da ridere». Sulla porta ci abbracciamo che fa buio. Ringrazia. Lui a noi. Quasi a farci coraggio, l'artista. L'abbiamo ritrovato un anno dopo nel Duomo di Forlì. Non lo perderemo più di vista.


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