tratto dal FOGLIO di Giuliano Ferrara
Mi scambiarono per Pavarotti, gridando Pa-fa-rot-ti, sulla Unter den Iinden la notte dell'ultimo dell'anno 1989. Cantai volentieri qualche aria verdiana a quella folla di berlinesi ubriachi almeno quanto me, appena risorti al melodramma della libertà.
Pavarotti era insidiato dal sosia, come ha notato con cattiveria snobistica un articolo del Foglio in sua memoria, perché era tipico nella sua unicità E lo sapeva, da quel magnifico bambinone goloso che era, ma molto più intelligente e magisteriale di quanto non pensino i pedanti, tanto è vero che ha chiesto di essere ricordato come un cantante d'opera. Non un genio musicale, non un talento irripetibile, una metafora risonante del divino: un cantante d'opera, e basta.
Il suo genio non fu la dismisura bensì il senso del limite. Sapeva che il belcanto è una forma sublime di analfabetismo musicale, che i tenori petano più del normale nello sforzo dell'emissione, che la messinscena è spesso eccezionalmente ridicola, che il melodramma italiano, e in particolare il suo repertorio più noto, non è musica e non è teatro ma una variante popolare e festiva della tenerezza romantica e delle sue sciocche nostalgie, un circo nomade alla perenne ricerca di nuovi clown. Per questo big Luciano tirava alla folla più vasta possibile, al botteghino degli stadi e dei parchi, al cielo stellato della celebrità, ma non se la tirava da Maestro. E in questo fu veramente grandissimo, specialmente esagerato, una grande stella femmina, lui che aveva soltanto figlie e soltanto sorelle a seppellire geneticamente una rivalità vocale con il papa panettiere e, come lui, dilettante del belcanto.
Poteva il New York Times capire un simile fenomeno, una così rigorosa lezione di stile sgangherato, impartita dall'alto di un potere di seduzione senza eguali nel suo tempo da un cantante d'opera che alternava la piccola messa solenne di Rossini alle allegre combriccole con Zucchero Fornaciari e alla più comica dizione napoletana che si ricordi nella storia? No, non poteva. Michele Serra ha ragione, quanto alla doppia capacità italiana di ostentare indifferenza in vita e commozione in morte per le personalità dominanti. Tra l'evasore fiscale e il grande italiano il confine immaginario è spesso labile. Dissento dal presidente Napolitano: Pavarotti ha felicemente disonorato l'Italia, altro che onore, confermandone la cifra informale, lo spreco di talento, la viziosa tendenza a tirar via.
Quando mi richiamano al dovere di lustrarmi e asciugarmi il sudore sotto le telecamere, dico sempre agli assistenti di studio: Pavarotti canta e suda, ragazzi, lasciatemi in pace. Fazzoletto alla mano, quel colosso immobile restituiva al suo pubblico estasiato il senso perentorio e triste della performance, della fatica di palcoscenico, e agitava il suo drappo umido come una bandiera di fisicità dirompente. La sua adesione all'arte in cui eccelleva si è vista nella forza del suo declino, bello e nobile allo stesso titolo della sua grande stagione di apprendimento, di esecuzione e di strepitoso rigore vocale. Chi ascende il monte del melodramma soffocato dagli stami e dai petali di gloria del sipario che si chiude tremando e si riapre, esegue poi il comando metafisico di Wittgenstein, e getta via la scala, esponendosi al vuoto che precede la caduta e consegnandosi alla canonizzazione post mortem. È il rimedio santificante alla vastità eroica del peccato e della virtù che Pavarotti condivide con la Callas, su un registro diverso. In più, Pavarotti ebbe questo senso acuto delle proporzioni, una percezione di sé come cantante d'opera, e niente di più o di diverso, che fa onore - stavolta sì, si può tirare in ballo l'onore - alla sua miracolosa intelligenza di bambino e al suo carattere mostruoso di italiano totale.
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