.....Penso che aprire a trent’anni di distanza un dibattito sull’aborto dovrebbe voler dire riflettere anche sui nostri errori, e su tutto questo. E poi non voglio più quel clima ideologico, quel muro contro muro di trent’anni fa. L’ideologia acceca, non serve a nessuno, non fa vedere la realtà, a nessuno. Quando fra le lettere sulla moratoria ritrovo, a volte, quei toni, non ne sono affatto contenta. Mi ha molto rincuorato ascoltare il Cardinale Ruini, qualche sera fa, a Otto e Mezzo. Le sue parole di riconciliazione cristiana, di accoglienza, pronunciate senza rinunciare a dire la verità, possono essere sicuramente un punto di incontro per tanti, anche di fronti opposti.....
Il Foglio 5.2.2008
Sono contro l'aborto, ho combattuto la 194. Adesso riparliamone senza ideologia.Assuntina Morresi
Quando mia madre rimase inaspettatamente incinta del suo quarto figlio aveva quarantaquattro anni; al terzo mese di gravidanza si ammalò. Le dissero che probabilmente era rosolia.
Era il 1971, e non sembrò particolarmente eroico a nessuno che mamma continuasse tranquillamente la sua gravidanza, anche se si sapeva che poteva essere pericoloso per il figlio che portava in pancia. Non c’era la legge che regolava l’aborto, allora, e di abortire nessuno parlò mai. Mia sorella è nata senza problemi, e adesso è avvocato. Penso di aver sentito per la prima volta parlare di aborto alla televisione, quando qualche anno dopo si fece la legge: per me era qualcosa di lunare, perché non avevo mai sentito storie a riguardo, in casa, fra i parenti o anche in paese. E quando ho realizzato che nelle condizioni in cui si era trovata mia madre abortire sarebbe stato considerato consigliabile, ne ho avuto orrore.
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Quando cominciò la campagna referendaria del 1981 ero sinceramente convinta che l’aborto fosse un qualcosa che riguardava pochissime donne, che per motivi a me del tutto incomprensibili erano disposte a sottoporsi a torture assurde, e facevo sinceramente fatica a credere che ci fosse qualcuno pronto a farsi infilare proprio lì un ferro da calza, come quello che usavano le mie zie per la lana, e che era così chiaro che partorire era meno pericoloso, che sicuramente tutte quelle cose che ci dicevano sugli aborti clandestini non erano vere. Balle, panzane. Ricordo ancora in un incontro pubblico un sostenitore della 194 che raccontava di una ragazza minorenne disabile violentata e rimasta incinta, che si batteva disperata pugni sulla pancia per abortire. I toni erano molto drammatici e patetici, e nessuno di noi credette neanche a una parola. Ci dicevano che erano migliaia e migliaia in quelle condizioni, e io mi chiedevo dove fossero mai tutte quelle handicappate minorenni violentate incinta. Alle donne morte per aborto non ci pensavo. Mi dicevo che se qualcuno avesse spiegato loro che era tanto pericoloso, se avessero detto loro che potevano partorire il bambino e poi affidarlo ad altri, non avrebbero cercato di abortire e non sarebbero morte. La colpa era di chi le aveva portate lì, su quel tavolaccio col ferro da calza, ammesso e non concesso che le cose fossero andate veramente così, come le raccontavano i radicali. ***
Credo sia giusto ricordare come si arrivò al referendum del 1981: nel marzo del 1978 si ratificò la 194. Nel 1980 i radicali raccolsero le firme per un referendum che ne avrebbe abolito alcuni articoli, facilitando il ricorso all’aborto. Se ci fosse stato solo il referendum radicale, gli italiani avrebbero quindi dovuto scegliere fra liberalizzare ancora di più la legge, oppure mantenerla (la stessa situazione si è ripetuta due anni fa, con la legge 40). L’ alternativa fu ritenuta inaccettabile.
I cattolici proposero un ulteriore referendum, per abolire una parte sostanziale della 194, e limitare al massimo l’accesso all’aborto. Bisognava mettere una croce sul “si” della scheda verde. Scheda-verde-vota-si, divenne il nostro slogan. Ma non tutti erano d’accordo per la scelta referendaria.
Molto interessante rileggere di Emilio Bonicelli “Gli anni di Erode”, un librettino militante allegato al settimanale cattolico “Il Sabato”. A pag.106 vengono spiegate le ragioni di quei cattolici che, pur contrari alla legge, non volevano un referendum:
“Da una parte si fa osservare che una eventuale sconfitta renderebbe la 194 “intoccabile”, modificabile, se mai, solo in senso peggiorativo. L’uso del referendum favorirebbe anche la ricomposizione dello schieramento unitario laicista-marxista provocando un’ulteriore grave emarginazione dei cattolici.
A livello politico potrebbe infine determinare fortissime tensioni sociali in una situazione già gravemente dilacerata”. Il referendum si fece, e tutto quello che temeva chi prevedeva la sconfitta si è puntualmente verificato.
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Il 18 maggio 1981 non ho potuto votare perché – per un mese - non ero ancora maggiorenne. Però la campagna referendaria l’ho fatta tutta: ero da poco entrata in Comunione e Liberazione, e in quella battaglia ho messo anima e corpo.
Per mesi abbiamo partecipato ad assemblee infuocate ed incontri pubblici di una violenza verbale inaudita: stiamo parlando di piccoli paesi sulle colline marchigiane, ognuno “disteso come un vecchio addormentato”, come dice la canzone, ma i toni dello scontro erano sempre accesissimi, ovunque, e partecipare era una vera e propria sofferenza.
Si gridava senza ascoltare, e ognuno era pregiudizialmente indifferente alle tesi altrui. Ma soprattutto la nostra difesa della vita nascente si scontrava con una dialettica che ci vedeva sempre perdenti.
Ricordo in particolare un’assemblea in cui iniziai il mio intervento dicendo che l’aborto era un omicidio. La platea rumoreggiò, e mi fu chiesto se ritenevo che le donne fossero assassine. Rimasi zitta: non me la sentivo proprio di rispondere di si. Quella volta non sono più riuscita a parlare, sommersa da fischi e urla.
Noi avevamo davanti agli occhi i feti uccisi, mentre la loro bandiera era quella delle donne morte di aborto clandestino, una lugubre battaglia fra rappresentanti di morti, e ci fronteggiavamo ostili e nemici.
Organizzammo un porta a porta nel nostro paese, bussando letteralmente ad ogni casa, beccandoci insulti e sostegni, porte in faccia e accoglienze calorose; l’ultimo giorno abbiamo volantinato dentro la cantina sociale, distribuendo ai tavoli i facsimili delle schede elettorali con la croce sul “si”. Giravamo in coppia, come i carabinieri.
Io ero insieme a Fabio, un ragazzo dei focolarini. Ci siamo rivisti l’anno scorso, dopo più di vent’anni, e ci siamo salutati come neanche due reduci di guerra.
Sapevamo di andare incontro ad una sconfitta, che però fu più dura di quanto ci eravamo immaginati.
Mi viene ancora adesso l’amaro in bocca a ripensare alle immagini in TV del trionfo dei fan della 194, radunati e gaudenti in una qualche piazza: pochi giorni prima c’era stato l’attentato al Papa, che era ancora ricoverato al Gemelli. In silenzio, guardavamo sullo schermo i nostri avversari festeggiare, e ci pareva che avessero sparato pure a noi. Alla sola idea di tornare a scuola e dover affrontare le facce dei vincitori, mi faceva male lo stomaco.
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Per me tutto è ricominciato un sabato pomeriggio di due anni fa. I primi di novembre del 2005. In Italia si discuteva della sperimentazione della pillola abortiva, ed avevo promesso a Nicoletta Tiliacos un pezzo per il Foglio. Mi sono seduta al computer pensando che un metodo così schifoso di abortire non poteva non aver fatto danni; su google ho digitato “death” e “Ru486”, ed è apparsa – non lo scorderò mai – la foto di una ragazza sorridente, bionda, giovane e bella. Ho conosciuto così Holly Patterson, morta all’indomani del suo diciottesimo compleanno, dopo aver abortito con la Ru486. Quella foto era insieme alla lettera con cui i suoi genitori ne raccontavano la morte, con cui denunciavano le autorità sanitarie americane, con cui puntavano il dito contro la pillola abortiva, la “kill pill”, che aveva ucciso la loro Holly. Era la prima volta, dopo tanti anni, che mi ritrovavo di fronte a una donna morta per aborto, ma stavolta non c’erano referendum, né – almeno allora così pensavo – battaglie da affrontare, e sono rimasta seduta davanti a quello schermo con l’unica preoccupazione di capire bene cosa fosse successo. In Italia non se ne era saputo niente, eppure quella ragazza era morta due anni prima, nel settembre del 2003.
Lo dovevo assolutamente dire a qualcuno: prendo il telefono e chiamo Eugenia Roccella, che è in campagna e sta pulendo casa. Le racconto tutto, poi continuo a cercare in rete. E trovo che in quei due anni sono morte altre tre donne, in California, e prima ancora un’altra, in Canada, sempre per la stessa misteriosa infezione, dopo l’aborto chimico. Allora richiamo Eugenia, anche lei sempre più stupefatta, sebbene avessimo già letto, in un libro scritto da femministe americane e australiane, che la Ru486 era molto pericolosa.
Dalla rete continuano a venir fuori centinaia di testimonianze: interventi in extremis su gravidanze extrauterine, emorragie, complicazioni cardiache, altre morti, racconti che sembrano presi a prestito da film dell’orrore. Sono le schede dell’Fda, l’ente americano di farmacovigilanza, con le segnalazioni spontanee delle donne che hanno sofferto eventi avversi dopo aver abortito con la Ru486.
Oramai sono praticamente attaccata al telefono con Eugenia, che ha interrotto le pulizie e si è messa pure lei a cercare su internet. E’ l’inizio della nostra comune battaglia sulla pillola abortiva, e soprattutto l’inizio della nostra amicizia, militante e granitica.
Per la prima volta mi sono resa conto veramente di cosa significasse morire per aborto. Non avevo mai considerato l’aborto dalla parte delle donne. Avevo letto tante testimonianze, negli anni, di donne che avevano abortito, e ne avevo conosciute alcune, ma Holly Patterson mi ha costretto a starci davanti in modo diverso. Ho letto le lettere della sua amica preferita, il racconto del suo fidanzato, le interviste a suo padre e a sua madre. E’ stato suo padre a condurre tutta la battaglia sulla Ru486: ha lottato a mani nude contro il mondo intero, da solo, soprattutto all’inizio, raccontando senza pudore la storia di sua figlia (non è facile per un padre spiegare in TV che la figlia è morta per aborto), per cui ha chiesto e sta ancora chiedendo giustizia. Ci siamo scritti, e ci ha ringraziato commosso quando ha visto che il libro sulla pillola abortiva, Eugenia ed io, lo abbiamo dedicato alla sua Holly. Così, in questi giorni, dopo aver scovato le sedici donne morte di aborto legale (per non parlare del numero indefinito, che non conosceremo mai, di cinesi, indiane, e chissà di quante sconosciute dei paesi in via di sviluppo, di cui nessuno si preoccupa mai), sono andata a rileggermi quel famoso libretto “Gli anni di Erode”, nei passi in cui si davano le cifre degli aborti clandestini italiani, e delle donne che ne morivano.
A pag. 33 si riportano le parole del Prof. Bernardo Colombo, autore dello studio “più acuto e documentato svolto per definire le dimensioni della abortività clandestina, prima della introduzione della legge 194”.
“Riconosco il mio scetticismo di fronte a stime che vadano al di là dei 200.000 aborti (clandestini, ndr) provocati all’anno nel nostro paese. Aggiungo che una cifra intorno ai 100.000 mi riuscirebbe più persuasiva”.
Fra 100.000 e 200.000 aborti all’anno, in uno studio pubblicato su Medicina e Morale (la rivista dell’Università Cattolica) nel 1976, due anni prima che la 194 entrasse in vigore. Considerando che quest’anno gli aborti legali sono stati 130.000, di cui quasi un terzo di straniere, abbiamo la misura di quanto l’aborto fosse già diffuso tra le donne italiane anche prima che la legge entrasse in vigore.
Io quel libretto l’avevo letto, riletto e anche venduto, al tempo del referendum, ma quei numeri mi erano sfuggiti allora, in tutta la loro enormità. Non li avevo visti. Quindi gli aborti erano tanti, anche prima che la 194 entrasse in vigore. E’ per questo che abbiamo perso il referendum. Anche considerando quei numeri nella loro stima più bassa, anche fossero stati “solo” centomila aborti all’anno, significava che le famiglie coinvolte erano tantissime: più o meno come adesso, almeno in numero assoluto.
Per quanto riguarda le donne morte, Colombo parla di “alcune decine di casi all’anno”. Ho ritrovato un articolo apparso sulla Stampa nel 1977, nel quale si spiega perchè i numeri delle morti per aborto sbandierati dai radicali sono falsi, e con somma tranquillità si dice : “Nel 1972 sono morte, in Italia, per aborto 43 donne; per complicazioni della gravidanza del parto o del puerperio (che comprendono certamente altri aborti) 409”.
Anche considerando “solo” 43 donne in un anno, si ha quasi una donna morta a settimana. E quante ne dovevano morire, per avere un allarme sociale? Quante ne dovevano morire, perché io me ne accorgessi? Perché non me ne ero resa conto? Se per esempio in Italia morisse non una donna a settimana, ma “solo” una donna al mese per aborto con la Ru486, cosa succederebbe? Cosa direbbe l’opinione pubblica? Cosa diremmo tutti noi? Molte donne morivano perché dopo un aborto clandestino, se c’erano complicazioni, erano restìe ad andare in ospedale: se le avessero scoperte sarebbe scattata la denuncia, e sarebbero state processate, con tutto quello che poteva significare un processo pubblico per aborto negli anni ’60 e ’70.
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Prima della 194 c’era il codice Rocco, che rubricava l’aborto come “delitto contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Un problema per la stirpe italica, quindi, e non una maternità da soccorrere e sostenere.
Ripensare alla questione aborto non significa cambiare idea. Io non ho cambiato idea rispetto a trent’anni fa. Non credo che la risposta agli aborti clandestini sia semplicemente legalizzarli. E sono ancora convinta che nessuna legge che autorizzi l’aborto, anche la più restrittiva, possa essere giusta.
Credo invece che se già nei primi anni ‘70 c’erano tutti quegli aborti, e tutte quelle morti, allora su tutta la faccenda c’è stato un tragico errore di valutazione da parte nostra.
Dovevamo evitare che le donne andassero in galera, e soprattutto dovevamo preoccuparci del fatto che tante donne fossero disposte a correre tanti pericoli pur di abortire: perché tutte quelle maternità difficili? Dov’era il problema? Di cosa non ci siamo accorti? Cosa è stato sottovalutato? Come si poteva intervenire a livello legislativo? Perché tanta difficoltà nel valorizzare la maternità? C’era qualcuno a cui quelle donne in difficoltà avrebbero potuto chiedere aiuto? Era solo l’avanzare della cosiddetta “modernità”, o c’era un altro tipo di disagio? Era anche il fatto, come ci diceva Don Giussani, che “il cristianesimo come presenza stabile non c’è più”?
Penso che aprire a trent’anni di distanza un dibattito sull’aborto dovrebbe voler dire riflettere anche sui nostri errori, e su tutto questo. E poi non voglio più quel clima ideologico, quel muro contro muro di trent’anni fa. L’ideologia acceca, non serve a nessuno, non fa vedere la realtà, a nessuno. Quando fra le lettere sulla moratoria ritrovo, a volte, quei toni, non ne sono affatto contenta. Mi ha molto rincuorato ascoltare il Cardinale Ruini, qualche sera fa, a Otto e Mezzo. Le sue parole di riconciliazione cristiana, di accoglienza, pronunciate senza rinunciare a dire la verità, possono essere sicuramente un punto di incontro per tanti, anche di fronti opposti.
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