martedì 19 febbraio 2008

PICCOLO COMMENTO

Ho ascoltato l'intervista fatta su rai 3 a Giuliano Ferrara.
Mi e' piaciuta,soprattutto spero che l'intento di non camminare solo si possa realizzare.
Ferrara non teme di dichiarare i suoi limiti.
Non ha timore di gridare che lui stesso ha voltato le spalle a ben tre vite.
Non teme il giudizio,sa bene che ogni uomo porta il suo fardello di errori e che nessuno potrebbe lanciare la pietra.
L'intervistatrice e' molto imbarazzata,ha di fronte per la prima volta un uomo capace di tale nome.
Vorrebbe portarlo alla contraddizione ma lui stesso ammette che l'uomo e' contraddizione.Solo riconoscendosi incapaci,peccatori si impara a guardare la realta' in modo piu' vero.
Le sue parole non distruggono nessuno ma esaltano un grande Maestro per i credenti e non credenti,il nostro grande BENEDETTO.
Benedetto il grande successore di Giovanni Paolo che non teme il giudizio dell'uomo ed incoraggia i vescovi a mettere in ogni diocesi un prete esorcista.
Si il DIAVOLO e' per il Papa il vero nemico dell'uomo.
Oggi ancor piu' nemico perche' gli uomini vivono non riconoscendo piu' la sua presenza.
Cosi' il suo lavoro di creare discordia riesce bene.
Dobbiamo puntare tutto sull'unita'. Puntiamo sull'unita' dobbiamo aiutarci a riprendere in mano i veri valori della vita.
Giuliano Ferrara e' certo di poter trovare l'appoggio di una gran porzione di popolo.
Se cammina solo non condivido la strada ma se si unisce ad altri sono anch'io convinta che molti(compresa anch'io)lo voteranno.
Le donne,se sanno ascoltarlo potranno comprendere che Ferrara non le giudica ma desidera aiutarle a riprendere in mano la vera liberta'.
Se chi sta correndo per poter governarci lavorera' sull'unita' e testimoniera' la possibilita' di far trionfare il bene comune piuttosto che la propria idea aiutera' nel tempo l'uomo a ritrovare la strada del vero Bene.
All'interno inserisco un intervista fatta a Cesana comparsa sul foglio nel 2006
intitolata Ragioni per amare le ragioni


Società - mar 22 ago '06

Contro l’intellettualismo dei chierici clericali e dei chierici relativisti • Cesana al Meeting
di Giancarlo Cesana

Tratto da IL FOGLIO del 22 agosto 2006

Trascrizione dell'intervento di Giancarlo Cesana, responsabile di Comunione e liberazione, al Meeting di Rimini. Lunedì 21 agosto 2006.

Il presidente del Senato Marini ieri ha espresso una tensione all’unità dei cattolici, che per i giornali ha fatto emergere subito la paura del ritorno della Dc.

Io non l’ho sentita così, solo in termini politici, ma come esigenza che nasceva da una radice di appartenenza, dalla storia della sua famiglia, dalla sua parrocchia.

Ma l’unità tra gli uomini, questo obiettivo che tutti gli uomini cercano (siamo in tempi di guerra, non dimentichiamolo), non si realizza né sul sentimento, né sulla volontà; non che questi non siano necessari, ma non sono sufficienti, soprattutto la volontà. La volontà è una condizione necessaria dell’agire umano, ma non è sufficiente, non basta, perché troppo grandi sono i tradimenti e le contraddizioni che ciascuno vive. Troppo fragile è il nostro voler essere diversi domani. L’unità si realizza su qualcosa che è più forte della volontà, su una concezione di sé e del mondo; ma una concezione si basa o su una filosofia o, più laicamente, su un’esperienza.

Dico più “laicamente” perché – come suggerisce la radice greca laos, che vuol dire popolo – l’esperienza è qualcosa di possibile a tutti.

Una concezione che si basa sull’esperienza è possibile per tutti, anche per quelli che non hanno studiato; mentre, una concezione che si basa su una filosofia è possibile solo per coloro che hanno studiato, che sanno veramente interpretare la realtà, che spiegano agli altri come vanno le cose.

Infatti, il contrario dell’essere clericale non è l’essere cattolico, o cristiano, o credente: il contrario del clericalismo è l’intellettualismo. La nostra è una società di chierici perché dominata da un intellettualismo acido, che impedisce agli altri di entrare.

Quindi, l’unità, la tensione che l’uomo ha all’amicizia, cioè quello che ciascuno di noi cerca, si realizza su una concezione come approssimazione, che si fonda sull’esperienza. E l’esperienza non è solo provare le cose, ma è provare le cose trattenendone il valore; «Vagliate tutto e trattenete il valore», diceva San Paolo (è la definizione più bella di cultura, commentava don Giussani).

L’unità si realizza sull’esperienza della propria umanità, di che cosa significa essere uomo o donna; ma l’umanità di che cosa è fatta? Di libertà (Meeting dell’anno scorso), di ragione (Meeting di quest’anno) e anche di esperienza.

Ciò di cui vi parlo, io non sono un filosofo, è appunto, della mia esperienza. E l’appello che faccio è alla vostra esperienza.

Nella nostra esperienza, che cosa significa che la ragione sia esigenza di infinito? Dove vediamo questa esigenza di infinito? La vediamo nel rapporto che abbiamo con la realtà. Nel rapporto con la realtà – sia quando la realtà si manifesta a noi positivamente; sia, ancora di più ovviamente, quando la realtà si manifesta negativamente, quando ci viene incontro facendoci male – manca sempre qualcosa. Come dice la parola stessa – dal latino satis facere, fare abbastanza – il soddisfacimento è, appunto, abbastanza, non è mai tutto.


La percezione dell’infinito, per un uomo che abbia una sensibilità, nasce come malinconia. Scrive Giussani in Realtà e giovinezza. La sfida: « Io, in quella prima liceo, nel canto di Tito Schipa avevo proprio percepito il brivido di qualche cosa che mancava; qualcosa che mancava non al canto bellissimo della romanza di Donizetti, ma alla mia vita: qualcosa che mancava e che non avrebbe trovato soddisfazione, appoggio, compiutezza, risposta, da nessuna parte. (…)


C’è come un punto di fuga, c’è qualcosa che sfonda l’oggetto che afferriamo, per cui non lo prendiamo mai a sufficienza e per cui c’è sempre come un’intollerabile ingiustizia, che cerchiamo di celare a noi stessi, distraendoci. Il buttarsi nell’istinto è il modo più bieco di chiudersi a questa apertura che tutte le cose reclamano, cui tutte le cose spingono».

Don Giussani mi raccontava che, vivendo questa esperienza, aveva per la prima volta capito chi potesse essere veramente Dio. Era già in seminario e questa non è una notazione secondaria proprio perché la percezione di Dio non è un fenomeno intellettualistico, ma proviene da una “fame”, nel senso che capisce molto di più il valore del cibo l’affamato, piuttosto che l’esperto di cucina. Anche se l’affamato in genere mangia peggio, tuttavia il valore del cibo lo capisce di più. Le cose si capiscono quando si va verso di esse con una tensione. E’ la malinconia della vita (viviamo al sabato, non la domenica); è la tristezza di Dostoevskij, quella tristezza che si prova nel rapporto non compiuto con la persona che si ama di più, perché io non sono capace, perché lei non è capace: questo è il sospiro. La ragione è esigenza di infinito e culmina nel sospiro.


Quando c’è un giudizio sulle cose; quando si vive; quando non si è distratti, quando non ci si butta nell’istinto; quando si mantiene il giudizio, cioè quando la ragione è presente, quando io sono presente: la caratteristica più umana della vita quotidiana è questo sospiro, la coscienza dell’incompiutezza, dell’attesa perenne che è la vita.

Come diceva Cesare Pavese ne “Il Mestiere di vivere”: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo? ». D’altra parte non si può attendere qualcosa che non c’è: se fosse così, se sentissimo che la nostra attesa è verso qualcosa che non c’è, saremmo presi dalla paura dell’ignoto (è il richiamo di u altro titolo del Meeting). L’ignoto è il buio oltre il quale non c’è niente, il contrario del mistero che, invece, è la manifestazione di ciò che c’è,


anche se non siamo capaci di prenderlo pienamente. Come diceva Melany Kleim, una psicanalista che ha studiato l’insorgere della paranoia come fenomeno psicotico nei bambini, l’assenza diventa una presenza cattiva. Ma se guardiamo alla nostra esperienza, non è così: la nostra attesa non è paura.

Il cuore arde nel petto, come dicevano i discepoli di Emmaus accompagnati da colui che non avevamo riconosciuto, ma era Cristo risorto. Il cuore arde nel petto, perché la promessa c’è nella realtà e bisogna stare a questa promessa, a questo presentimento – ecco l’altro termine che definisce la tensione della ragione all’infinito –: a questo sentimento che viene prima di tutto perché, anche quando la palpebra si chiude nell’ultimo atto della vita, la realtà, tutto il bene che c’è non può essere negato.

L’essere c’è e, anche se la vita ti azzoppa, non puoi negare il braccio che ti sostiene; anzi, se non ci fosse questo braccio che ti sostiene, la vita non ci sarebbe più. L’essere c’è. Sempre nel testo che citavo prima e anche nel capitolo decimo de “Il senso religioso” (a cui è dedicata una mostra di quest’anno), don Giussani dice: immaginate di uscire dalla pancia della vostra mamma con la testa che avete oggi; il primo moto dello sguardo sarebbe di stupore per tutto quello che c’è, perché si sentirebbe che tutto è fatto per me.

Poi, magari, la realtà ti viene contro come un camion che deraglia sulla strada e allora il problema è che devi decidere con la ragione: qual è il senso della realtà? Il positivo che originalmente avverti, che pre–senti, l’essere che c’è; o il negativo che ti schiaccia? Se fosse questo secondo, sarebbe inutile vivere; sarebbe inutile qualsiasi azione, qualsiasi pensiero. Allora la vita non può che affermare la sua positività, cercare il suo senso.


Ma rifacciamoci ancora alla nostra esperienza: quando noi facciamo l’esperienza di questo presentimento, di questo sentimento che viene prima di tutto a riguardo della positività dell’essere, della positività di ciò che c’è? Quando si fa questa esperienza? Quando abbiamo bisogno: quando quella mancanza, che è malinconia, la sentiamo prorompere come ricerca di ciò che ci può rispondere: l’infinito si presenta sempre quando insorge il bisogno di qualcosa di finito.

Qualunque cosa: non solo i soldi, ma anche un gesto d’amicizia, una possibilità, qualcosa che si cerca nella vita.

Gesù ha detto che la vita è dei poveri, proprio perché se non hai bisogno non ti accorgi. E per questo don Giussani diceva che la vita è domanda. Una volta ho detto al mio parroco in confessione: «Io prego male»; e lui ha risposto: «Nel Vangelo non c’è scritto che bisogna pregare bene. C’è scritto che bisogna pregare sempre».

Cioè, come diceva don Giussani, la vita è domanda. Domanda di qualcosa di finito. Sempre don Giussani, ne “L’io, il potere, le opere”: «I desideri che partono veramente dal cuore, quelli veramente costitutivi, sono desideri senza limite, hanno un orizzonte che è come un angolo aperto all’infinito, perché mirano, partendo da un qualsiasi punto, alla realizzazione della persona intera». Qualsiasi punto – il bambino che vuole il trenino, tu che vuoi passare l’esame, che vuoi la ragazza – se il desiderio è sincero. Che il desiderio è sincero significa che deve essere deciso, cioè espresso e, in secondo luogo, bisogna riconoscere che la sua realizzazione non dipende da te, altrimenti non è un desiderio.

Il Foglio ultimamente sta raccogliendo una serie di saggi sulla concupiscenza: la concupiscenza non è il desiderio in questo senso,


ma è il desiderio che prende; è l’uomo che mangia la mela per mangiare tutto; è la ragione misura di tutte le cose, l’esatto contrario della ragione come tensione all’infinito.

Partendo da un qualsiasi punto, il desiderio tende alla realizzazione della persona intera. Don Giussani ci ha educati, ha tirato su questo movimento perché – mi permetto di dirlo – contrariamente a molti altri preti, non ha avuto paura dei desideri, cioè non ha avuto paura di mischiare la ragione al desiderio, perché non c’è una ragione senza desiderio.

L’infinto non è una cosa più un’altra, più un’altra, più un’altra; non è un insieme infinito di cose. L’infinito è un’altra cosa. È qualcosa di più grande, è un’altra dimensione. Nella realizzazione del desiderio l’infinito si manifesta come imprevisto; quello descritto da Montale: ho preparato tutto per il viaggio, ma mi dicono che è un imprevisto che cambia la vita e mi dicono anche che non vale la pena parlarne.


Che il desiderio introduca all’infinito lo spiego con un esempio banale: quando un ragazzo prende trenta, perché è contento? Perché capisce che non dipende tutto da lui, che c’è, appunto, qualcosa di imprevisto oltre allo studio. La vita è dominata dall’imprevisto.


Eugenio Borgna, a un incontro del Centro Culturale di Milano di quest’anno, significativamente intitolato “La sconfitta del razionalismo”, diceva: «La ragione conosce la realtà se si trasforma in passione». Alla ragione oggi non mancano i neuroni, i neuroni ci sono come ieri; manca l’affetto, manca la passione, perché la ragione senza affetto non sussiste. Noi non siamo un computer, un circuito elettrico. Ci vuole l’affetto, ma l’affetto non dipende da noi; dal latino affectus, colpito, l’essere colpiti non dipende da noi, ma dipende da un incontro.

La ragione si fa con un incontro che introduce all’infinito di cui sopra. Marco Bona Castellotti all’incontro con i volontari del Meeting, ha richiamato l’intervento che Giussani fece nel 1987 ai responsabili di Comunione e Liberazione in università, dove diceva che i giovani di oggi, rispetto a quelli di ieri, eravamo nel 1987, era come se fossero stati esposti alla radiazione di Chernobil: uguali fisicamente, ma malati dentro, senza capacità di affezione. Come si può fare per uscirne? Con un incontro. Devi trovare un altro che ti colpisca; devi trovare un’attrattiva, altrimenti la ragione è fredda, non si attacca a niente e, in effetti, non capisce niente.


E’ diverso pensare all’amore di una donna in generale rispetto all’essere innamorati di una donna precisa: è molto più ragionevole la seconda posizione, anche se ardi di passione tanto fa fare delle scempiaggini. Perché gli uomini hanno i desideri? Perché noi non ci facciamo da soli; il mio io non è una monade, è un rapporto. L’io, per essere, ha bisogno di un altro; il bambino, per nascere, ha bisogno della sua mamma. Vedo mia figlia che ha il bambinetto piccolo e deve tenerlo in braccio tutto il giorno: l’io non esiste senza l’altro, senza riconoscere la necessità dell’altro.

Senza passione e senza attaccamento, la ragione è una presa in giro, è appunto il discorso clericale dei chierici, che ti dicono che devi ragionare come loro per essere a posto. La ragione cerca il senso e il senso è rapporto che le cose hanno tra di loro e con tutto.

Quando don Giussani diceva che l’educazione è introduzione alla realtà totale non voleva dire che bisogna spiegare tutta la realtà, tutte le cose che ci sono nella realtà, perché non si riesce. Voleva dire che un particolare introduce al tutto, cioè fa cogliere i nessi con tutto; sono state fatte le università – uni–versitas, verso l’uno – per affermare che la conoscenza del particolare è qualcosa che introduce al tutto. Altro che la laurea specialistica.

La ragione degna di questo nome è tensione all’infinito perché capisce che questo senso ultimamente sfugge; la fede cioè non è una specie di fortuna – beato te che ce l’hai – ma è una necessità, perché capisci così tanto che non ti fai da solo, che devi affidarti a qualcuno.


Come suggeriva Chesterton, gli atei non sono quelli che non credono a niente, ma quelli che credono a tutto. Il compimento del desiderio dipende dell’effettiva presenza di un Altro da te che ti introduca al senso delle cose. Perché ti sposi? Perché riconosci questo altro da te fondamentale per tutta la vita. Perché ti parla di Dio, del senso. L’io dipende da altro ed è in un Altro che trova soddisfazione.

E’ l’amore: io vivo se rendo felice te. Questo Altro non è un Altro generale, è un Altro particolare: mia moglie, i miei figli, i miei amici, le persone che mi sono vicine; è un altro particolare che, però, ti mette in rapporto con tutto. Cristo è il nome di questo altro che mette in rapporto con tutto il resto. L’Innominato diceva e lo ripeto anch’io: «Dio, se ci sei, rivelati a me»; lo ripeto anch’io perché, se non ci fosse Dio, il mio nome non servirebbe a niente, anch’io sarei un innominato. Cristo è l’Altro per eccellenza di cui abbiamo bisogno perché ha vinto la morte. La morte è ciò che nega il rapporto, è ciò che nega il senso, è l’assenza. La presenza cattiva, il diavolo, il salario del peccato, come dice la Bibbia.

Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a sconfiggere questo. La nostra fede nasce perché abbiamo incontrato qualcuno che ci ha parlato di questa presenza. Voi capite quanto questo sia legato alla ragione, al rapporto con la realtà! Perché la ragione serve per entrare in rapporto con la realtà; che uno sia ragionevole anziché folle lo si capisce dal fatto che ha un rapporto adeguato con la realtà. Quello in cui noi siamo stati coinvolti, il cristianesimo, è una sequela, è andar dietro a qualcuno, come facevano gli apostoli che andavano dietro a Cristo e poi, improvvisamente, quando erano sulla barca e Lui aveva calmato le acque, lo conoscevano già da tre anni, eppure domandarono: ma chi è questo qua? Questo è il cristianesimo: seguire questa presenza, seguire questa domanda che è la domanda della vita.

Questa domanda è proprio l’anima di quello che siamo ed è il fattore centrale dell’incontro, di ciò che ci parla del senso delle cose, di Dio. Come mi diceva don Giussani poco prima di morire «Non si può amare gli uomini se non si ama Dio e non si può amare Dio, se non si amano gli uomini ». Per noi Cristo è la presenza particolare che ci mette in rapporto con tutti.

Quando il Papa parla della Chiesa e dice che la Chiesa è una grande amicizia, indica che è la presenza particolare dei volti dei nostri amici che ci mettono in rapporto con tutti, cioè potenziano la ragione perché la mettono in condizioni di cercare fiduciosa un senso, di percepire la positività che c’è, di percepire che tutto è dato per me. Non c’è nulla a cui io sono estraneo. Come quando un ragazzo si innamora, la prova che il rapporto è vero, non è che il ragazzo abbia il desiderio di stare sempre e solo con la sua ragazza, ma che gli cresca il desiderio di stare con tutti.

All’inizio dicevo che siamo in tempo di guerra. Quanto ho detto fin qui non riguarda solo un giudizio privato, sulla propria vita. E’ un giudizio che riguarda la storia, riguarda la nostra condizione umana, riguarda la giustizia, riguarda la pace; la pace che deve essere per tutti, per tutti! E, permettetemi di dire, soprattutto per Israele.




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