mercoledì 5 settembre 2007

Notizia, notizia! Langone non è ciellino. È giussaniano.

langone spiega perché
(per colpa di Farina)
non può non dirsi giussaniano
di Camillo Langone
IL FOGLIO

Io non sono ciellino ma, e dai e dai, sono diventato giussaniano. Il primo “dai” è stato “Un caffè in compagnia. Conversazioni sul presente e sul destino” pubblicato da Rizzoli. Il secondo “dai” è questo “Don Giussani.

Storia di un amico” pubblicato da Piemme. Entrambi i libri sono firmati da Renato Farina e perciò quasi senza accorgermene sono diventato pure fariniano, la qual cosa non mi ha troppo giovato nella considerazione universale.

I libri per piacermi mi devono servire e “Don Giussani” mi è subito servito non per apprezzare (quello ancora no) ma per sopportare la presenza di Mammona al Meeting di Rimini, l’appuntamento di Comunione e Liberazione dove gli sponsor sono invadenti anche a livello estetico e i banchi di articoli religiosi sono pochi, piccoli e defilati, più vicini a Santarcangelo di Romagna che al centro della fiera. Farina racconta che Giussani scelse di vivere i suoi ultimi anni non in un monastero immerso nel silenzio e nel verde ma a cento metri dalla tangenziale di Milano, sotto l’immenso cartellone pubblicitario di una banca. Da cattolico integrale ed etimologico, che tende a tutto comprendere, il prete brianzolo che nel ’69 ispirò la nascita di CL non temeva quindi le contaminazioni. “Odiava la parola spiritualità. Per lui lo Spirito non era la rarefatta alternativa alla materia ma l’energia che rende il tempo vibrante”. Caspita.

Giussani beveva vino, gradiva l’Amarone, nei bar vicini alla Cattolica ordinava Sherry e a chi andava a trovarlo in ufficio offriva un bicchiere di Porto. Fumava il sigaro, di solito il toscano, qualche volta l’Avana. A un amico che gli comunicava di aver chiuso col tabacco disse: “Hai fatto male a smettere. Il godimento della bellezza esige il dominio”. Qui si capisce come un Paolo Massobrio poteva scaturire solo da CL, non dai focolarini e meno che meno dai neocatecumenali, movimenti meno gaudenti. Giussani mangiava e beveva e non temeva nemmeno di sporcarsi le mani con la politica. Durante la campagna elettorale del ’48, quando i comunisti minacciavano le libertà d’Italia, scrisse una lettera agli amici di Desio invitandoli a votare secondo l’indicazione della chiesa. Pronunciò immediatamente frasi ultimative, senza menare il torrone della laicità nemmeno per una riga: “Per essere cristiani bisogna ubbidire alla Chiesa. Gesù ha detto ai suoi discepoli nel Vangelo: Chi ascolta voi ascolta me, chi non ascolta voi non ascolta me”.

Negli ultimissimi tempi, invece, non trovava nessun partito per il quale valesse la pena di spendersi. Tre anni fa, nella casa con vista sulla tangenziale, disse a Farina: “Non scorgo un solo punto da cui possa scaturire una ricostruzione politica”. Non voglio spingermi a dire che gli era sfuggito Pier Ferdinando Casini ma forse quello sconforto era da addebitare, almeno in parte, al passato di verdure che la dieta di malato gli imponeva quella sera, lui che vegetariano non era stato mai. Perché, al tempo del seminario, proprio Giussani aveva raccolto e rilanciato il “cristocentrismo estetico”, un metodo che consente di cogliere la scintilla divina anche nelle opere e nelle persone apparentemente più refrattarie. Soltanto lui avrebbe potuto capire Isabella Santacroce, satanista in mancanza di meglio cioè in mancanza di cristianesimo, ma purtroppo non è andata così, alla scrittrice sono toccati gli elogi di Renato Barilli che la inchiodano al suo calvario di croci rovesciate.

La biografia di Giussani è in qualche misura anche l’autobiografia di Farina, come dichiara onestamente il sottotitolo: “Storia di un amico”. I due erano amici e una foto riprodotta nel libro testimonia l’atteggiamento protettivo del vecchio prete verso il giovane giornalista sovrappeso ed entusiasta, con la chiara tendenza a cacciarsi nei guai. Non a caso gli consigliò di affidarsi alla Madonna, contro “possibili e naturali debordamenti”. Entrambi di Desio, cittadina a nord di Milano, nel libro c’è parecchia Brianza, landa dai confini incerti, dalle caratteristiche nebulose e dal fascino dubbio, almeno per un nonbrianzolo. E c’è oltre mezzo secolo di storia ecclesiastica milanese, con la costante ostilità dei vescovi verso l’uomo che al contrario di loro sapeva parlare ai giovani: nel cuore degli anni Sessanta, quando nelle scuole italiane l’adorazione di sé stessi stava per sostituire l’adorazione di Dio, il cardinale Colombo ebbe la bella pensata di spedirlo negli Stati Uniti, in esilio. Giussani obbedì allora come obbedì sempre e l’ubbidienza gli evitò il moralismo che invece, per contrappasso, affligge i superbi che si ribellano alla materna autorità della chiesa. Nel ’71, alla presenza di Farina che oggi riporta le sue parole, si scagliò contro il cristianesimo intimista e onanista: “I nostri nemici non sono gli atei, ma chi privatizza la fede”. Com’era combattivo don Giussani, e come vedeva lungo: sapeva che nel 2007 il solco tracciato da Odifreddi lo avrebbe difeso Rosy Bindi.

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