lunedì 3 settembre 2007

Parla Pierre Mertens, padre di una bimba gravemente disabile, che ora offre aiuto ad altri genitori in tutto il pianeta

«Conosco molti handicappati che sono felici. Bisogna raccontare le loro storie, per evitare che le leggi sulla qualità della vita vengano stabilite da chi non ha mai avuto problemi e far capire come i "diversi" ci assomiglino»

Nord e Sud uniti contro l'handicap
Di Enrico Negrotti
Non occorre essere bioeticisti per capire il valore della vita del proprio figlio, di qualunque figlio, anche quando nasce colpito da una malattia o da una disabilità. Ma occorre avere un atteggiamento fiducioso nel futuro per affrontare le inevitabili difficoltà e fatiche che la cura di un bambino con un handicap comporta. E ci vuole una grande forza d'animo per reagire alla sentenza del medico che del bimbo neonato, affetto da spina bifida, dice ai genitori: «Non vivrà, vi conviene pensare a un altro figlio».
Quella forza d'animo ebbero Pierre Mertens e sua moglie Mol quando, alla nascita della loro primogenita Liesje - nel 1978 in Belgio - dopo il dolore e il disorientamento, lottarono per la salute della propria figlia: la bimba venne curata e raggiunse un grado di autonomia apprezzabile, morendo poi a 11 anni in seguito a un intervento chirurgico. A distanza di dieci anni dalla morte di Liesje, il padre - che nel frattempo è diventato presidente della Federazione internazionale per la spina bifida e l'idrocefalo (If) - vede con preoccupazione il crescere della mentalità eugenetica, il cui tragico paradigma è rappresentato dal Protocollo di Groningen che in Olanda regola la possibilità di praticare l'eutanasia sui neonati.
Il fatto colpisce Mertens anche perché il Protocollo è stato elaborato su 22 bambini affetti da spina bifida, tutti inesorabilmente eliminati. Inizia quindi a rielaborare per iscritto la sua esperienza e scrive un libro (tradotto ora in italiano: Liesje, mia figlia. Parole per la nascita e la morte di una bambina speciale, Cantagalli, pagine 192, euro 14) che verrà presentato al Meeting il 23 agosto (ore 15) e che rappresenta una forte denuncia dell'assurdità dell'aborto "terapeutico" e della selezione eugenetica e dell'incapacità - spesso - dei medici di rapportarsi alle situazioni di sofferenza.
Perché ha deciso di scrivere un libro su sua figlia Liesje? E perché ha atteso dieci anni dalla sua morte?
«Voglio offrire una sincera testimonianza della mia ferma convinzione nelle possibilità di sopravvivenza di un bambino abbandonato da molti. Liesje era nata con spina bifida, e fu abbandonata dai medici subito dopo la nascita. È morta dopo una vita piena, in modo del tutto inatteso, per un errore medico. Aveva quasi 11 anni. Oggi solo pochi bambini nascono con il suo handicap: la diagnosi prenatale prima e l'aborto poi sono offerti come procedure standard ai giovani genitori. Oggi viene addirittura soppressa la vita dei neonati quando hanno una forma grave di spina bifida. Ho pubblicato la mia storia per stimolare il dibattito sulla interruzione tardiva della gravidanza quando la diagnosi prenatale indica che il bambino presenta un handicap grave. Il caso Perruche in Francia e le recenti iniziative per una legge che autorizza a uccidere i bambini con disabilità in Olanda rendono la problematica molto attuale».
Che cosa pensa del concetto di qualità della vita? Come viene vissuto dalle persone con spina bifida?
«Conosco molte persone con handicap che sono molto felici. Forse sono più propense a essere felici perché hanno imparato a occuparsi di ciò che è disponibile e non di ciò che non esiste. A giovani con gravi disabilità fu chiesto come giudicassero la loro qualità di vita. La stessa domanda fu rivolta a loro coetanei senza disabilità. I ragazzi disabili giudicarono la loro qualità della vita migliore di quanto fecero i loro coetanei sani. Ci sono più persone sane depresse e che mostrano tendenze suicide di quanto si riscontri tra le persone disabili. Chi stabilisce cosa significa qualità della vita? Troppo spesso persone estranee ai problemi, prive di disabilità, o il medico che guarda solo la lesione del bambino neonato. E che potrebbe non avere mai incontrato un adulto con spina bifida. Nel 2000, la nostra federazione (www.ifglobal.org) raccolse 270 persone con spina bifida e/o idrocefalo da 20 diversi Paesi per discutere come essi stessi valutassero la loro qualità di vita. Tra questi 270 c'erano diversi scienziati e anche un ex ministro, ma anche i cosiddetti casi gravi. Insieme hanno formulato una risoluzione forte che afferma che la disabilità, con la quale essi avevano convissuto per cinquant'anni o più, non era un motivo valido per l'aborto o l'eutanasia».
Come valuta l'atteggiamento della società verso i disabili: da un lato promozione dei loro diritti, dall'altro accettazione (quasi scontata) dell'aborto, della diagnosi pre-impianto (in caso di fecondazione in vitro) e addirittura dell'eutanasia?
«Non c'è campo che cambi così velocemente e abbia così tante implicazioni per il genere umano e i suoi valori come la scienza medica. Nuove terapie e nuovi strumenti diagnostici richiedono una rinnovata valutazione delle questioni etiche. Ci sono domande alle quali la società non ha ancora fornito alcuna risposta. Nei secoli scorsi, le religioni hanno stabilito direttive precise sulla vita e sulla morte. Queste indicazioni influenzano sempre meno l'attuale sistema sanitario: quando l'impalcatura religiosa viene trascurata, il professionista della salute deve decidere da solo cosa fare. Quindi sviluppa il suo standard etico basandosi sulla sua personale esperienza, sulla sua educazione, sulle sue paure, sulla sua conoscenza dei principi più comuni nel suo campo di lavoro e sulle ideologie. La pratica medica attuale ha un carattere cogente che viene poi utilizzato come norma nel sistema giudiziario a causa della mancanza di leggi adeguate. Le nuove possibilità delle scienze mediche stanno causando nuovi problemi etici. Nuovi punti di vista riguardo la vita e la morte sono stati sviluppati senza un appropriato dibattito pubblico. La società è obbligata ad accettare queste posizioni come fatti compiuti».
Il suo libro «non è scritto per rancore verso qualcuno», ma alcuni medici non vi fanno una bella figura. Quale ritiene dovrebbe essere il loro ruolo verso i pazienti (e le loro f amiglie), soprattutto se inguaribili?
«Sfortunatamente talvolta l'assistenza medica si ferma al termine della diagnosi. In tal caso, l'essere umano sofferente è lasciato con il nome della sua malattia, una descrizione del progredire e la prognosi. Anche se queste informazioni aiutano il paziente a capire cosa gli sta succedendo e a imparare a vivere con le conseguenze della sua condizione, quando si tratta di disturbi cronici bisogna cercare aiuto più attivamente per alleviare la sofferenza. I medici non hanno imparato a trattare con i disturbi non guaribili e ciò comporta che il paziente è lasciato solo senza un aiuto concreto. Ma se non si può guarire, si possono fare un sacco di cose anche se quell'aiuto non è una terapia. I medici sono stati istruiti a guarire e se questo non è possibile, spesso passano a un altro paziente o continuano cure inutili nonostante sappiano che non funzionano. Un buon medico chiede al suo paziente quali sono le sue esigenze per continuare a vivere con la sua malattia o disabilità».
Serve spiegare ai giovani che la vita è sempre degna di essere vissuta, che il rischio ne fa parte sostanziale, che un incidente può sempre capitare?
«A causa di mia figlia Liesje, la mia visione del mondo è cambiata notevolmente. In passato volevo essere diverso nel senso di eccellere. A causa delle sue difficoltà, Liesje era diversa e per questo "essere normale" aveva un valore straordinario. Camminare, andare a scuola, viaggiare, stare con altre persone, erano azioni più difficili e divennero obiettivi in sé. Abbiamo modificato la nostra casa e cercato aiuti pratici per ridurre le difficoltà delle sue limitazioni. Dopo un po' ci siamo accorti della sua capacità di consolare, del suo humour, del suo spirito combattivo e della sua capacità di amare. Tutte queste capacità resero le sue "disabilità" di secondaria importanza. Altri vedevano prima la sua sedia a rotelle piuttosto che la persona che vi stava sopra. Negli ultimi 25 anni so no stato coinvolto nella presa in carico di bambini con disabilità, qui e nel Sud del mondo. Ho incontrato centinaia di persone e lavorato bene insieme a loro. "Essere diverso" crea una distanza perché le persone si trovano a disagio con qualunque cosa sia distante dalla loro situazione. Questo comporta che le persone con disabilità vengano escluse senza necessità. Dobbiamo raccontare la vita delle persone con disabilità. Chi sono, come vivono, cosa li rende diversi, ma soprattutto come essi ci assomiglino»


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