Il dovere di rianimare
di Marina Corradi
Tratto da AVVENIRE del 5 febbraio 2008
Un neonato che si mostri vitale deve essere rianimato. Anche se mancasse il consenso dei genitori: dal momento che ha vita autonoma, ha diritti pari a quelli di ogni altro.
Se, successivamente, ci si rende conto dell’inutilità degli sforzi, bisogna evitare a ogni costo che le cure intensive possano trasformarsi in accanimento terapeutico. Questo dice un documento firmato dai titolari delle cliniche universitarie di Roma.
Sembrerebbero affermazioni largamente condivisibili. Leggendo i giornali, pare invece che in concomitanza con l’appello del Papa alla difesa della vita dalle Università – cattoliche e laiche – di Roma un fronte di oltranzisti abbia manifestato una volontà di un accanimento terapeutico sui prematuri. In particolare, ha destato scandalo l’idea di una rianimazione del figlio prematuro, anche se madre e padre non fossero d’accordo. Il ministro Turco ha detto che si tratta di un’ipotesi «crudele».
In realtà, se si confronta il documento romano con le linee guida della 194 da poco elaborate da un comitato di esperti nominato dal ministero della Salute, si nota che la sostanza non è diversa (infatti, tra gli estensori delle linee guida figurano anche alcuni dei cattedratici romani). Nelle linee ministeriali si afferma che fino a 22 settimane e 6 giorni di gestazione devono essere – a fronte di possibilità di sopravvivenza scarsissime – praticate cure «compassionevoli», salvo che in quei casi, statisticamente eccezionali, in cui il bambino «si mostra vitale»: e quindi ovviamente lo si rianima. Il concetto è lo stesso: se un neonato per quanto prematuro è vitale, ha diritto a essere rianimato. Poi, nelle ore successive, si valuterà se l’intervento dei medici non sta solo procrastinando di qualche giorno una morte inevitabile – cosa che sarebbe accanimento terapeutico.
È ciò che disse un mese fa in un’intervista a questo giornale il professor Fabio Mosca, responsabile della Patologia neonatale della Mangiagalli e fra gli estensori delle linee ministeriali: in sala parto, con pochi secondi a disposizione per scegliere, si rianima «senza se e senza ma» ogni prematuro vitale. Poi viene il momento di parlare con i genitori, e di valutare se è giusto passare a «cure compassionevoli ». Ciò che afferma anche il documento di Roma: valutare, e evitare a ogni costo l’accanimento terapeutico. Dov’è allora lo scandalo? Sembra un chiasso ideologico, quello imbastito sul documento delle Università romane. Forse, ciò che ha destato fastidio è l’affermazione netta del diritto alla rianimazione di ogni prematuro vitale, quando una bozza di documento espressa da alcuni neonatologi di area laica mesi fa ipotizzava la non rianimabilità prima delle 23 settimane, cioè un 'paletto' fisso, per molti medici inaccettabile – e che ricalca la norma olandese: prima della 26esima settimana nessuna rianimazione, per l’alto rischio di invalidità. Norma in sostanza eugenetica, tesa com’è a eliminare i figli potenzialmente imperfetti.
Oppure, ciò che ha urtato è il sostenere il diritto alla rianimazione del nato, anche senza l’assenso dei genitori. E stupisce molto che un ministro definisca questa ipotesi «crudele». Perfino la 194 afferma che il medico deve prendere ogni misura per salvaguardare la vita del feto, se dopo l’aborto è vitale, e non menziona alcun necessario consenso della madre. Il contrario del resto sarebbe inconcepibile: se è vitale e ormai autonomo, come si può immaginare che non lo si curi perché i genitori non vogliono? La vita di un uomo appartiene a sua madre o a suo padre? E non è un medico, obbligato a quel soccorso?
È quel «crudele» detto dal ministro a proposito di una scelta anche giuridicamente obbligata, che fa temere che su aborto e diritto alla vita siamo ancora nell’alto mare della polemica ideologica. Mentre le possibilità di intesa fra laici e cattolici su questi temi, crediamo, si possono trovare.
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