Con questo blog desidero dare la possibilita' a tutti di leggere articoli ,commenti ,interventi che mi aiutano a guardare la realta', a saperla leggere ed essere aiutati a vivere ogni circostanza positivamente. Mounier diceva "la vita e' arcigna con chi le mette il muso" (lettere sul dolore). E' importante saper abbracciare la realta' tutta per poter vivere la giornata con letizia.
venerdì 8 giugno 2007
LA VITA E' COSI' BELLA DA NON POTER ESSERE BUTTATA
....."Lo ribadisco: la morte non è un diritto, fa parte di quel bellissimo dono che è la vita. Putroppo la morte subentra anche attraverso malattie provanti, forti, devastanti; però per fortuna abbiamo gli strumenti della medicina che permettono di accompagnare in maniera degna e dignitosa il malato fino alla fase conclusiva del suo percorso. Non esiste, o è bassissima, questa cultura nei confronti della vita e della bellezza di questo dono che, in quanto tale, va mantenuto sempre più bello possibile....."
Melazzini:
Nella foto: Mario Melazzini, primario di Oncologia alla Fondazione Salvatore Maugeri di Pavia, affetto da Sclerosi Laterale Amiotrofica.
Stando al modello imposto dai media, la scelta di morire sembra l'unica soluzione al dramma della malattia. Ma ci sono tanti malati nella stessa condizione di Welby che sono contenti di vivere e chiedono di poterlo fare in maniera più dignitosa, e a loro l'informazione non dà voce. Uno di essi è Mario Melazzini, primario di Oncologia alla Fondazione
Salvatore Maugeri di Pavia e affetto da SLA. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo e di chiedergli cosa c'è alla base di un amore alla vita come il suo, che stravolge il modo comune di rapportarsi alla malattia. Piergiorgio Welby, nella sua lettera al presidente Napolitano, lamenta che «il mio corpo non è più mio… se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo, ma sono italiano e qui non c’è pietà».
Dunque l’eutanasia sarebbe un atto d’amore?
No, assolutamente: l’eutanasia non può essere un atto d’amore. La frase, che non condivido, è detta da una persona sofferente dal punto di vista fisico e psicologico, e richiama ciò che è la realtà. A volte, cioè, chi chiede l’eutanasia non la chiede perché non sopporta la malattia, ma perché è totalmente abbandonato, perché si trova in uno stato di disagio emozionale. Dare la morte a qualcuno non è mai un atto d’amore, anzi è proprio l’essere umano, l’individuo sano ad avere forse uno dei compiti più importanti: accompagnare e stare vicino il più possibile a queste persone che soffrono non tanto nel fisico quanto nell’anima, e accompagnarle verso il momento finale, fisiologico, della vita. Ribadisco con forza il concetto: dare la morte a qualcuno non è mai un atto d’amore.
Lei scrive che «la vita è un dono». Che cosa intende e che conseguenze porta con sé questa affermazione?
Che la vita è un dono lo sapevo o forse ho avuto la presunzione di saperlo. Me ne sono veramente reso conto nel momento in cui ho avuto la fortuna di ammalarmi: questo mi ha permesso di aprire maggiormente gli occhi verso quelli che erano veramente i doni che la vita mi dava, anche in questa condizione di estremo disagio fisico. Quindi ho la consapevolezza che, grazie alla malattia, ho potuto scoprire quali siano i veri valori della vita.
Intendo cose semplicissime: il piacere di esistere, di sentirsi non una cosa ma un essere umano che, purtroppo o per fortuna, ha bisogno di tutto per poter fare qualsiasi cosa, ma che sente di esistere, di essere ancora utile. Ho scoperto quanto valga, quanto sia bello avere accanto persone che ti vogliono bene; ho scoperto la voglia di guardarmi in giro, di vedere quanto sono belle le cose che ci circondano; ho scoperto quanto sia importante ascoltare le tante persone che si trovano in uno stato di abbandono e di disagio e che hanno bisogno di essere ascoltate. La voglia di vivere non mi è mai mancata, e ho capito che la vita è veramente un dono e come tale vale la pena di essere vissuta in ogni sua sfaccettatura: bella o meno bella. Certo, la vita è anche sofferenza, ma la sofferenza va vissuta e va, uso un termine un po’ forte, “utilizzata” nel modo giusto. È un’esperienza che ci può permettere di far tesoro di tutto ciò che la sofferenza stessa ci dà.
In un contesto come il nostro, in cui si cerca in ogni modo di censurare il dolore, la sua esperienza appare quasi una follia. Perché vale la pena di vivere e affrontare la malattia?
Quello che voi dite è vero: la malattia, la sofferenza, il dolore fanno paura perché sono espressione e sinonimo di debolezza, di vulnerabilità. La grande fortuna di noi esseri umani è che abbiamo questa grande plasticità mentale. Ho la fortuna che in una malattia come la mia le funzioni cognitive rimangano abbastanza integre (anche se alcuni dicono che nel mio caso è falso...). Bisogna usarle nel verso giusto, quindi io chiaramente ho riplasmato la mia vita in un modo diverso. Personalmente, ho la fortuna di vivere questa situazione da malato esperto: essendo medico, posso sfruttare le mie capacità tecniche per capire anche come risolvere su di me, malato, delle problematiche per le quali altri malati, non avendo le conoscenze che io ho, si trovano in enormi difficoltà.
In tutto questo, la cosa positiva per me è che grazie alla malattia posso essere anche uno strumento reale, portavoce dei malati che sono in condizioni come le mie o anche peggiori: malati senza la SLA, malati con disabilità. Partendo dal presupposto che ne vale la pena, vivere con la malattia è comunque difficile. Se però la conosci e, soprattutto, se hai gli strumenti per poterne affrontare le problematiche, se non sei solo, vivere con la malattia diventa un accompagnamento: ti cammina a fianco, non cammina dentro di te. È un’esperienza di vita e come tale vale la pena di viverla, questo è quello che penso.
Lei lamenta che «chi vuole morire fa notizia, mentre non fa notizia chi – magari trovandosi in identiche o anche peggiori condizioni – viene volutamente trascurato». A chi ritiene possa far comodo questa situazione?
Quando io dico strumentalizzazione, lo dico senza paura delle parole che uso. Avete citato il caso di Piergiorgio Welby: lui era una figura politica, aveva un impegno politico. All’inizio della sua battaglia politica, se avete seguito bene la vicenda, Welby aveva chiesto di morire, aveva chiesto un atto eutanasico. Poi, a un certo punto, siccome era una cosa che non andava molto, hanno ripiegato sul concetto dell’autodeterminazione, dell’autonomia del malato, che è legittimo. Io per primo non avevo letto bene la Costituzione, perciò me la sono riletta: l’articolo 32 e lo stesso codice deontologico medico prevedono l’autonomia, l’autodeterminazione, quindi… perché parlo di strumentalizzazione? Perché si vuol far passare per un diritto già sancito dalla Costituzione un atto che invece è perseguibile dal punto di vista penale: l’atto eutanasico. Nel caso specifico di Piergiorgio Welby è stata fatta una strumentalizzazione a fini politici che ha fatto passare l’idea, ed è questo che io non accetto, che le persone in una determinata situazione clinica vogliono morire, perché la loro è una vita indegna. Questo non è vero. Io posso portare tantissimi esempi, lasciando perdere Melazzini, di malati con SLA, con distrofia, con patologie inguaribili, con una disabilità elevatissima, totalmente dipendenti dalla tecnologia per vivere, che però non chiedono assolutamente di morire.
Quello di Welby è l’evento singolo di una persona sola, perché lui, checché ne dicessero, era una persona sola (aveva solo sua moglie, erano quattro anni che non usciva da quella stanzetta lì, e questo ci deve far riflettere moltissimo). È stata una scelta, ma sono scelte difficili da condividere. Se uno grida che si sta per buttare dal cornicione stanno tutti sotto ad aspettare che si butti, ma se questo poi non si butta dicono: «Che peccato, non c’è stata la notizia, niente scoop». Fa più notizia chi grida di voler morire di chi dice «io voglio vivere, ma mi costa tot soldi (3mila, 5mila euro al mese di assistenza che non viene riconosciuta se non parzialmente). Io ho voglia di vivere: voglio il secondo ventilatore per andare in giro, voglio la macchina attrezzata…».
Queste cose non fanno notizia, chi vuole vivere anche in queste condizioni viene preso per matto. Inoltre c’è il grosso problema del costo: se lo prendi in considerazione, poi devi dare delle risposte concrete su cose che effettivamente sono diritti esigibili che dovrebbero essere soddisfatti. Sono cose che scottano. Quindi strumentalizzazione in questo senso. I radicali mi hanno dato il “premio nobel per la diffamazione” perché ho denunciato la strumentalizzazione dei malati in mero senso politico. Io per primo mi farei strumentalizzare se fossi sicuro di poter ottenere qualcosa per chi è nelle mie condizioni o in condizioni peggiori: lo farei subito se ci fosse un ritorno concreto.
L’impegno che sto cercando con grande fatica di portare avanti, come malato, come uomo e come medico, è far sentire la voce di chi è affetto da una malattia che purtroppo è mortale e che porta gravissime problematiche, come un’enorme dipendenza dalla tecnologia. Bisogna smettere di demonizzare la tecnologia: la macchina non è un accanimento. Io per nutrirmi uso la PEG, che la sera mi pompa dentro il mangiare, ma non lo sento come un accanimento: io dipendo da questa macchina, altrimenti come farei? Sarà dura, ma bisogna portare la cultura che la palliazione non è accompagnamento alla morte, ma tutto ciò che può essere messo in atto per migliorare la qualità della vita in quel momento. Io ho bisogno della palliazione perché mi permette di esser qui, di andare a Forlì adesso, di essere stanco… è una scelta che ho fatto, ma non per dimostrare chissà cosa, come dicono i radicali, “nel mio delirio di onniscienza”. No, assolutamente. Ma penso di avere un incarico nei confronti dei tanti compagni di malattia che ho l’onore e l’onere di rappresentare, e devo fare il possibile per esserne all’altezza e soddisfare le loro richieste. È un percorso, intanto andiamo avanti.
La pericolosa situazione in cui si trova il rispetto della vita, oggetto di violenti attacchi quotidiani, ci impone una responsabilità, ma noi cosa possiamo fare?
Io non sono più competente di voi in materia, sono semplicemente una persona che sta provando sulla sua pelle cosa significhi essere vivo e quanto sia importante essere vivo. Secondo me non c’è rispetto della vita perché non c’è cultura, non c’è sensibilizzazione su quello che è l’essere umano: basta vedere le continue diatribe sull’embrione. Noi diamo per scontate un sacco di cose e non ci fermiamo mai a pensare quanto la vita meriti un rispetto totale: la vita nel suo insieme, dal momento del concepimento fino alla fase fisiologica finale della morte.
La morte non è un diritto, è un fatto, un evento naturale. Il caso Welby ha insegnato questo: la vita non è un bene scambiabile che può essere ceduto piuttosto che concluso. Lo ribadisco: la morte non è un diritto, fa parte di quel bellissimo dono che è la vita. Putroppo la morte subentra anche attraverso malattie provanti, forti, devastanti; però per fortuna abbiamo gli strumenti della medicina che permettono di accompagnare in maniera degna e dignitosa il malato fino alla fase conclusiva del suo percorso. Non esiste, o è bassissima, questa cultura nei confronti della vita e della bellezza di questo dono che, in quanto tale, va mantenuto sempre più bello possibile.
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