Eutanasia - giovedi' 7 giugno
La lezione del polacco risvegliatosi dopo 19 anni • Questa vicenda è un'obiezione incisiva per tutti coloro che invocano l'eutanasia
di Giacomo Samek Lodovici
Tratto da AVVENIRE del 7 giugno 2007
Jan Grzeb-ski è un polacco che, nel 1988, è precipitato in uno stato di totale incoscienza, per un trauma cranico. I medici gli avevano dato solo due o tre anni di vita, invece Jan ha continuato a vivere. Solo la moglie Gertruda aveva creduto nel suo risveglio e ha svolto con amore il lavoro di un team di terapia intensiva. Gertruda ha avuto regione: Jan si è risvegliato nel 2007, dopo 19 anni, e ha conosciuto gli 11 nipoti nati ai suoi 4 figli.
«Mia moglie mi ha salvato, e non lo dimenticherò mai», ha detto alla tv polacca. Questa vicenda è un'obiezione incisiva per tutti coloro che invocano l'eutanasia per i malati in stato prolungato di incoscienza, per porre termine ad una vita che essi ritengono «indegna di essere vissuta». Per contro, anzitutto, la mancanza di coscienza non toglie all'uomo la sua intangibile dignità, quindi non autorizza ad ucciderlo; non è questo il luogo per dimostrarlo, ma si può almeno dire che, se avesse dignità solo chi è consapevole, sarebbe lecito uccidere chiunque non è attualmente cosciente: i neonati, i dormienti e gli uomini sotto anestesia. In tal senso, la nozione di "stato vegetativo", che si usa per alcuni (non tutti) di questi casi, induce erroneamente a pensare che il soggetto non sia più un essere umano, bensì un vegetale, privo di dignità. Già Nietzsche scriveva in modo spietato: «in certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in un'imbelle dipendenza dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo. I medici, dal canto loro dovrebbero essere i mediatori di questo disprezzo; non [dovrebbero dare] ricette, ma ogni giorno [far provare] una nuova dose di nausea di fronte ai loro pazienti». Inoltre, esistono pazienti solo apparentemente privi di coscienza i quali, dopo essersi ripresi, hanno spiegato che, in realtà, capivano ciò che accadeva e veniva detto loro, volevano parlare, ma non ci riuscivan o: è successo ad una donna inglese (ne ha parlato Science l'08.09.2006) e al siciliano Salvatore Crisafulli (che lo racconta nel libro Con occhi sbarrati, ed. L'Airone); quindi non è per niente detto che questi malati siano privi di coscienza, anzi ci sono casi in cui è vero il contrario. Infine, il malato privo di consapevolezza può riprendersi, talvolta, anche dopo molti anni; quindi non è detto che l'interruzione della coscienza sia permanente. Per esempio, il fotografo di Mao si è ripreso dopo 9 anni e Jan Grzebski dopo 19. Come lui anche Terry Wallis, un americano che, nel 1984, perse la coscienza dopo un incidente stradale e che si è risvegliato dopo 19 anni, nel 2003, a Mountain Wiew, in Arkansas, dove era ricoverato. L'uomo ha conosciuto la figlia, nata subito dopo l'incidente. Dunque sarebbe meglio evitare sia la nozione di stato "vegetativo", sia di parlare di privazione "permanente" della consapevolezza, perché non esiste la certezza assoluta che un paziente non possa mai più riprendersi. Insomma, non siamo certi che questi malati siano privi di consapevolezza, né che lo siano definitivamente. Perciò, dobbiamo applicare il principio di precauzione: ammesso e non concesso che l'intangibile dignità dell'uomo risieda nella sua consapevolezza, non dobbiamo rischiare di uccidere degli uomini che potrebbero essere coscienti e che potrebbero riprendersi. Non di eutanasia hanno bisogno questi malati, ma di amore, quello che non demorde e che non si scoraggia. Come quello della moglie di Jan.
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