di don Giacomo Tantardini
«Come è bello il mondo e come è grande Dio!».
Tanti ricordi e pensieri mi vengono in mente e commuovono anche il mio cuore rendendo più semplice il silenzio e la preghiera. Ma dal momento che è il direttore di 30Giorni a richiedermi queste righe prevale il ricordo della stima piena di fiducia che don Giussani aveva nei confronti di Giulio Andreotti. Nell’intervista alla Stampa, come cattolici in politica «attenti al bene comune e con competenza reale e adeguata» Giussani citava «De Gasperi, La Pira, Moro e Andreotti». Era il 4 gennaio 1996, tante cose erano cambiate nelle vicende politiche italiane e anche nelle vicende ecclesiastiche di Comunione e liberazione.
«Il mio seminario»
Così scrivo alcuni ricordi cari, iniziando dal suo ultimo gesto pienamente cosciente quando, accettando di morire per Cristo («Voglio morire per Cristo»), Giussani ha domandato a Julián Carrón, il sacerdote che egli stesso aveva chiamato dalla Spagna per guidare Cl, l’assoluzione all’ultima sua confessione.
Che grazia grande è stato l’essermi confessato da Giussani e l’aver confessato Giussani! Confessandoci così come Gesù ha voluto, come la Santa Chiesa ha stabilito, come nel seminario di Venegono ci era stato insegnato. Sapeva che mi faceva tanto contento quando diceva «il mio seminario». Sapeva bene che era anche il mio seminario. E che quell’insegnamento ricevuto, per cui proprio la Tradizione della fede cattolica poteva condividere con simpatia l’istanza moderna del soggetto, cioè della libertà, era l’ipotesi positiva dello sguardo al mondo di oggi. L’insegnamento del seminario aveva semplicemente confermato le parole della mamma, mentre accompagnava il piccolo Luigi alla messa in parrocchia in quel mattino di marzo: «Come è bello il mondo e come è grande Dio!».
Mi raccontava che monsignor Figini, suo insegnante di dogmatica, il giorno prima dell’ordinazione sacerdotale, lo aveva chiamato per dirgli: «Ti raccomando una sola cosa. Leggi tutti i giorni i giornali». Poi, alzando gli occhi sorridenti verso di me: «No. Non mi ha detto: “leggi”. Mi ha detto: “guarda”».
E allora gli accennavo che anch’io avevo conosciuto monsignor Figini, quando accompagnavo il mio parroco d’estate a trovarlo alla Culmine di San Pietro (poche case, situate su un passo di montagna a pochi chilometri dal mio paese). A quel tempo ero piccolo ed ero solamente colpito da questo anziano sacerdote che passava i mesi estivi in una canonica di montagna dove la luce elettrica non era ancora arrivata. Poi avrei saputo che a quel sacerdote, che nelle sere d’estate leggeva al lume della lampada a petrolio, Paolo VI avrebbe chiesto di correggere le prime formulazioni della dottrina sulla collegialità da presentare ai padri conciliari. Poi avrei saputo che a quel sacerdote Giussani avrebbe chiesto l’imprimatur ai primi libri di Gs. E Figini dette l’imprimatur senza correggere una parola. Aggiungendo solo che la riscoperta della parola esperienza avrebbe procurato a Giussani
sofferenze e incomprensioni. Prima per l’accusa di modernismo. Accusa cui facilmente si poteva rispondere: bastava l’imprimatur di Figini. Poi, negli ultimi decenni, tanti avrebbero opposto, magari inconsapevolmente, esperienza a Tradizione.
Come se l’esperienza cristiana non fosse «l’accorgersi della corrispondenza tra l’avvenimento (e quindi la dottrina coi dogmi e i comandamenti) e il cuore».
Sorrideva contento quando gli dicevo che questa sua definizione di esperienza giudicava e poneva termine alla grande controversia teologica tra tradizionalisti e théologie nouvelle del secolo scorso. In fondo quel piccolo libro sull’esperienza, con l’imprimatur di Figini, riprendeva ciò che l’apostolo prediletto aveva scritto riguardo ai «seduttori che non riconoscono Gesù venuto nella carne»: «Chi va oltre e non si attiene alla dottrina di Cristo non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina possiede il Padre e il Figlio» (2Gv.7.9)
Anche così si comprende la devozione senza pari che Giussani ha avuto per Montini. L’arcivescovo che con discernimento evangelico aveva per primo riconosciuto «i frutti buoni» del suo apostolato tra gli studenti. Il Papa del Credo del popolo di Dio, cioè della «proclamazione autentica del dogma, sine glossa, con chiarezza». «Il nostro Paolo VI» disse davanti a tutti, durante uno degli ultimi corsi di esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e liberazione.
(Noi non sappiamo chi era, noi non sappiamo chi fu, ma si faceva chiamare Gesù. Pietro lo incontrò sulla riva del mare, Paolo lo incontrò sulla via di Damasco. Vieni, fratello: ci sarà un posto, posto anche per te. Maria lo incontrò sulla pubblica strada, Disma lo incontrò in cima alla croce. Vieni, fratello: ci sarà un posto, posto anche per te. Noi lo incontrammo all’ultima ora, io l’ho incontrato all’ultima ora. Vieni, fratello: ci sarà un posto, posto anche per te. Ora sappiamo chi era, ora sappiamo chi fu: era Colui che cercavi, si faceva chiamare Gesù.)
«Si faceva chiamare Gesù»
Mi hanno detto che, dopo aver domandato di ricevere l’ultima assoluzione, guardando chi era attorno al suo letto, ha chiesto che gli cantassero Noi non sappiamo chi era. Mi hanno detto che ha chiesto più volte di cantargli quel canto anche all’infermiere che lo ha assistito negli ultimi giorni di vita. Come mi ha commosso riconoscere quella gratuita prossimità, quella gratuita predilezione, anche in quest’ultima sua domanda! Non era certamente il canto metafisicamente, culturalmente più profondo. Era semplicemente il canto in cui il nome più caro (la cosa più cara, per riprendere le parole dello starets russo Giovanni) veniva più volte ripetuto: Gesù. «Si faceva chiamare Gesù».
E questo mi riporta a uno dei primi ricordi che ho di Giussani. Fine anni Sessanta. Un’assemblea al Centro Péguy a Milano. Giussani domanda: «Che cosa ci mette in rapporto con Cristo?».
Le varie risposte più o meno dicevano tutte: «La comunità, la Chiesa». E alla fine la risposta di Giussani alla domanda di nuovo ripetuta: «Che cosa ci mette in rapporto con Cristo? Il fatto che è risorto».
Un seminarista, un prete della Chiesa di Milano non può dimenticare l’annuncio «Christus Dominus resurrexit / Cristo Signore è risorto», che «la voce apostolica del sacerdote» (come dice l’Exsultet ambrosiano) per tre volte ripete nella veglia pasquale. Se non fosse risorto, se non fosse Lui vivo nel Suo vero corpo che gratuitamente si rende presente ai suoi, rendendoli, per Sua grazia, Suo corpo visibile, la nostra fede sarebbe vana, come scrive Paolo (cfr. 1Cor 15, 14.16), e la Chiesa sarebbe un semplice apparato, come scrive Giussani in Perché la Chiesa.
«Si faceva chiamare Gesù». Ricordo quando mi parlò del titolo che aveva suggerito di dare al libro in cui sono raccolte forse le cose più belle che ha detto. Mi disse: «Vedi, mi avevano proposto come titolo “L’affezione a Cristo”. Ma io ho suggerito “L’attrattiva Gesù”».
E anche quella volta mi ha guardato e ci siamo guardati commossi e grati per la grazia di «una comunanza di spirito» (Fil 2, 1). «Comunanza di spirito» che ha voluto esprimere davanti a tutti con la frase: «L’entusiasmo della dedizione è imparagonabile all’entusiasmo della bellezza».
Il nostro sì a Gesù nasce infatti dall’attrattiva che Lui è. E così è possibile sempre dire sì, perché il sì coincide con una domanda: «Vieni!» (Ap 22, 17). Come da bambini avevamo imparato a cantare alla comunione: «Gesù caro, vieni a me, e il mio cuore unisci a Te…».
«Si faceva chiamare Gesù». Un giorno sorridendo mi disse: «Vedi, in Paradiso tu starai vicino a santa Teresa di Gesù Bambino». E io, ridendo: «Se ci sei anche tu vicino». E poi aggiunse: «Quando hai fatto mettere in copertina di 30Giorni la sua frase: “Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me”, per me è stato come l’inizio della fine, cioè l’inizio del Paradiso».
E così la frase della piccola Teresa di Lisieux l’ha voluta citare davanti a tutti in piazza San Pietro nel suo ultimo incontro con Giovanni Paolo II: «Al grido disperato del pastore Brand nell’omonimo dramma di Ibsen (“Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?”) risponde l’umile positività di santa Teresa del Bambin Gesù che scrive: “Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me”».
Don Giussani con Papa Giovanni Paolo II
«La testimonianza del Figlio di Dio»
Il suo ultimo intervento pubblico è stato letto al Tg2 la sera della vigilia del Santo Natale. Un testo in cui preghiera, poesia e giudizi sulla condizione della Chiesa e del mondo si intrecciavano. Tre parole ricordo ancora come scintille, per usare l’immagine del libro della Sapienza (cfr. Sap 3, 7) tanto cara a Giussani: «… quello che deve rimanere sono le scintille: devono essere acchiappate come lucciole nelle mani di un bambino».
1)La prima parola: «Un Essere nuovo, in quel luogo, fiorì».
Quel fiorì mi ha subito ricordato la frase scritta da Giussani nel lontano 1991 a un comune amico. Una frase di Eraclito: «L’armonia nascosta è più potente dell’armonia conclamata». Cristo è il fiore di Maria. Quante volte un sacerdote ambrosiano, recitando l’inno di Natale di sant’Ambrogio, ha ripetuto: «Fructusque ventris floruit / E il frutto del ventre fiorì».
2)Seconda parola: «Tutto viene da Lui, ma qui la novità di una vita predomina».
Nel mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, per noi prevale la Sua umanità. Predomina il fatto che Colui che è eterno, rimanendo eterno, ha incominciato a esistere nel tempo. Ricordo il buon Augusto Del Noce che diceva (e ha scritto) che nella teologia di Giussani prevale il tempo sull’eternità.
Se il Figlio di Dio non avesse assunto la nostra umanità, se non avesse compiuto nel tempo gesti di un istante che passa, i due ciechi di Gerico non Lo avrebbero sentito passare, e anche noi con loro non avremmo gridato a Lui. «Transit Iesus ut clamemus / Passa Gesù perché possiamo domandare». Così sant’Agostino.
3)Terza parola: «Nel ricordo e nella memoria di quel Fatto, la testimonianza del Figlio di Dio emerge sempre più forte…».
La Sua testimonianza (cfr. 1Cor 1, 6). E subito mi sono ricordato quel 19 marzo 1979, nell’aula magna dell’Università Lateranense a Roma, quando Giussani ha ripercorso tutta la storia di Gs e di Cl per arrivare a un punto «dell’oggi e del domani», a un punto «ultimo»: «Noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli opera in noi. È il concetto di testimonianza». Queste parole, a pochi mesi dall’inizio del nuovo pontificato, confermavano e anticipavano il cammino della vita di un povero cristiano. Come le parole del Salmo tanto care: «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei Tu che agisci» (Sal 39, 10). Come le parole di Giussani quando ha compiuto ottant’anni: «Le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle. Facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva e mi accade davanti agli occhi».
Nella vigilia del Santo Natale le ultime parole pubbliche di Giussani. A dire il vero le sue ultime parole a tutti sono quelle dell’intenzione della santa messa dell’11 febbraio, anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e liberazione, pochi giorni prima che la malattia precipitasse: «Ricordiamoci spesso di Gesù Cristo, perché il cristianesimo è l’annuncio che Dio si è fatto uomo e soltanto vivendo il più possibile i nostri rapporti con Cristo noi “rischiamo” di fare come Lui».
Le parole di Giussani confortano la vita. E quando in questi giorni il Signore dona di pregare per lui e con lui, non è tanto il ricordo delle parole quanto il rinnovarsi di quella commozione che rigava il volto di lacrime perché ci era dato di riconoscere e amare la stessa presenza. Non era bruciata la distanza tra la sua carità e la mia povertà, ma tutti e due eravamo abbracciati dalla stessa grazia.
Come erano vere in quei momenti le parole di san Tommaso d’Aquino: «Gratia facit fidem / La grazia crea la fede».
Quelle lacrime erano lacrime di letizia («Habet et laetitia lacrimas suas / Anche la letizia ha le sue lacrime», sant’Ambrogio), lacrime di uno stesso riconoscimento («Lacrimae confessionis / Lacrime di riconoscimento», sant’Agostino).
Giussani è morto il 22 febbraio, giorno in cui la liturgia romana ricordava la Cattedra di san Pietro.
Nel breviario si leggevano queste parole di papa Leone Magno: «Le porte degli inferi non possono impedire questo riconoscimento della fede che sfugge anche ai legami della morte. Infatti questo riconoscimento solleva al cielo».
Me, per grazia come bambino che guarda domandando. Te, che ora vedi faccia a faccia, nella gloria, Colui che mi hai aiutato a riconoscere e ad amare. Così faccia a faccia ora puoi ottenere dalla Madonna, come mi hai detto in uno degli ultimi incontri per confermare la mia fragile speranza, che si manifesti quale Regina non solo del cielo, ma anche della terra.
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