Procreazione Assistita - mercoledi' 13 giugno
Intervista con Clementina Peris
di Enrico NegrottiTratto da del 7 giugno 2007
A due anni dai referendum per l’abrogazione di alcune delle norme della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita (Pma), l’attenzione degli operatori è rivolta alla possibile revisione delle Linee guida, il cui iter si è avviato al Consiglio superiore di sanità. Uno dei punti che saranno più dibattuti, quando verranno resi noti dal ministro della Salute Livia Turco i risultati dell’applicazione della legge per il 2005 raccolti dal Registro nazionale della Pma, sarà l’efficacia della legge e le percentuali di successo delle tecniche prima e dopo la legge 40.
A dispetto delle catastrofi che qualcuno aveva annunciato (salvo lamentare poi che le coppie italiane vanno all’estero), «i risultati non sono variati significativamente dopo l’entrata in vigore della legge 40, salvo che per una particolare tipologia di pazienti» spiega Clementina Peris, responsabile della Struttura semplice di prevenzione e terapia della sterilità di coppia dell’Azienda ospedaliera Materno-infantile «Regina Margherita»-Sant’Anna di Torino. «Solo le coppie in cui la sterilità è dovuta a un fattore maschile grave – precisa la dottoressa Peris – hanno trovato un ostacolo nel limite dei tre embrioni da fecondare. Per tutte le altre coppie, nel nostro Centro, i risultati sono simili a quelli registrati prima della legge 40. Ma su questo tema è opportuno fare attenzione, perché i risultati possono variare grandemente a seconda di come vengono selezionati i pazienti. Noi, per esempio, abbiamo una media di gravidanze meno alta di quella di altri centri perché inviamo le coppie alla fecondazione in vitro solo alla fine di un percorso diagnostico-terapeutico accurato, che ci mette di fronte a quelle con problemi di sterilità non risolvibili in altro modo. Ovviamente in questo caso le probabilità di successo della Fivet si riducono perché le pazienti sono già rimaste gravide con tecniche più semplici».
Un’altra accusa alla legge 40 è di avere incrementato la frequenza di gravidanze gemellari e, soprattutto, trigemellari che si portano dietro un carico di maggiori rischi di complicazioni sia per la madre sia per i nascituri. «Anche in questo caso – puntualizza Clementina Peris – molto dipende dal modo di lavorare degli operatori: noi fecondiamo solo due ovociti se la donna, ad esempio, è giovane». Del resto, le più aggiornate posizioni sulle tecniche di fecondazione parlano a favore addirittura dell’impiego di un solo embrione per volta, ma soprattutto di una stimolazione ovarica «soffice»: «Una stimolazione leggera delle pazienti – spiega la dottoressa Peris – ci permette di minimizzare il rischio di andare incontro alla sindrome da iperstimolazione ovarica severa, una seria complicanza per la salute della donna. Questa stimolazione “soffice” fa sì che la donna produca pochi ovociti, in media quattro. E nelle donne in età riproduttiva avanzata, diciamo dopo i 35 anni, gli ovociti che si prelevano, anche solo uno o due, con questa stimolazione sono sicuramente anche i migliori: vale a dire che non servirebbe a nulla produrne in grande quantità, perché sarebbero affetti da anomalie genetiche che non permetterebbero lo sviluppo di embrioni sani». Si tratta di una strategia che si va sempre più affermando tra gli esperti di riproduzione assistita, ma che trova resistenze non legate a motivi scientifici: «Anche Robert Edwards (il “padre” della prima bimba in provetta, ndr) ha recentemente presentato con estremo favore i lavori nel campo della stimolazione “soffice” – sottolinea la dottoressa Peris –. Ma questa tecnica richiede di lavorare almeno sei giorni su sette: infatti se io devo prelevare solo 2-3 o 5 ovociti devo essere sicura che si trovino nel momento migliore della loro maturazione, non troppo oltre. E questo richiede un più attento monitoraggio. Nei centri dove si lavora solo tre giorni la settimana questo diventa impossibile da sostenere e si preferisce continuare a stimolare pesantemente le donne facendole produrre 10-15 ovociti».
Quanto alla sterilità da fattore maschile grave, il discorso si fa più complesso. «Indubbiamente questi pazienti – spiega Clementina Peris – che producono pochissimi spermatozoi, prelevati con biopsie testicolari o agoaspirato e che spesso non sappiamo nemmeno se sono vitali, hanno scarse probabilità di fecondare gli ovociti. In questi selezionatissimi casi, che sono anche rari (nel 2006 nel mio centro ne sono passati 18), si potrebbe forse autorizzare a fecondare un numero maggiore di ovociti, ma non più di sei, perché gli ovociti in più sono comunque ovociti non idonei». C’è però anche un altro discorso che preme alla dottoressa Peris: «In questi casi c’è da chiedersi se sia opportuno continuare a puntare sulla fecondazione in vitro, considerando che vi sono anche maggiori rischi di trasmettere alla prole anomalie genetiche. Mi sembra interessante l’approccio giapponese, rivelato dal dottor Teramoto a Londra nel dicembre scorso: poiché in questi casi gli uomini giapponesi si sentono responsabili della sterilità e non vogliono che le loro donne vengano stimolate con i farmaci, si procede alla fecondazione solo dell’unico ovocita prodotto naturalmente dalla signora con il suo ciclo mestruale».
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