Claudio Risé, da “Tempi”, 14 giugno 2007, www.tempi.it
...."E ancora: i genitori amano i loro figli più dei loro sogni? Infatti sembra evidente che tanti genitori di oggi vivano un’adesione morbosa ai loro sogni giovanili tanto da creare le condizioni nelle quali i propri figli muoiono, moralmente ma sempre più spesso anche fisicamente»".
Un padre che sta cresimando la figlia, ed è quindi impegnato in un confronto con quel che resta della tradizione, mi scrive, ponendomi due domande. La prima è questa. «Ho cinquant’anni ed appartengo alla generazione che ha fatto, o subìto, il 68. La mia generazione, si dice, ha prodotto uno strappo con la storia precedente ed ha creduto di poter ricostruire la propria vita a prescindere da qualunque dato appartenente alla tradizione. Ma siamo stati noi gli attori di questo strappo, o le prime vittime di qualcosa già avvenuto in quella che l’ha preceduta?
Invece che un’uccisione del padre non c’era forse stato un suicidio dello stesso, tramite il quale una generazione ha deposto la propria responsabilità verso quella successiva?».
Presento subito la seconda domanda, perché c’entra molto con la prima. «La mia generazione, definita da un mito rivoluzionario, mutuato da quella precedente, oggi ha a sua volta figli. Osservando tanti comportamenti mi domando però: ma questi genitori amano i loro figli? E ancora: i genitori amano i loro figli più dei loro sogni? Infatti sembra evidente che tanti genitori di oggi vivano un’adesione morbosa ai loro sogni giovanili tanto da creare le condizioni nelle quali i propri figli muoiono, moralmente ma sempre più spesso anche fisicamente».
Il lettore va dritto a questioni che da tempo assillano anche me, che ho ugualmente partecipato, anche se più da grande, al generale sommovimento del 68. Questioni non teoriche, ma molto pratiche. Che ci aiutano a rispondere, per esempio, a come mai la classe dirigente italiana, unica in Europa, abbia completamente nascosto e rimosso per vent’anni il rischio cannabis, in cui i loro figli e nipoti cominciavano ad affondare, con conseguenze a loro perfettamente note.
La mia risposta, caro e cari lettori, è che, in effetti, il 68 non ha ucciso nessun padre, e nessuna tradizione. Col movimento iniziato nel 68 i figli hanno percepito, sofferto, e anche confusamente protestato contro la sostanziale assenza affettiva e simbolica dei padri, che cercavano di convincerli del carattere allegorico, e non sostanziale delle tradizioni, e che voler bene a loro, ai figli, non voleva dire impegnarsi fino in fondo, e coerentemente, per un mondo migliore.
Il relativismo non l’ha inventato il 68. Il relativismo quotidiano, quello per cui nessuna tradizione era autentica, ma tutto l’esistente era un bric a brac “culturalmente costruito”, pezzi diversi messi insieme e smontati a seconda delle necessità, l’ha inaugurato l’era del “centro sinistra”, iniziata nel 1960 quando la piazza sindacalizzata di Genova costringe il legittimo Governo Tambroni alle dimissioni, e ingloba da allora il Partito Socialista, ancora in buona parte marxista, nel governo. Sorretto comunque dai sindacati, e dall’esterno (come hanno dimostrato i politologi americani) dal PCI.
Quest’azione, da parte della classe dirigente cattolica e liberale, comunque anticomunista, non fu un gesto d’affetto ed impegno verso i figli, ma di resa, e di comodità.
I padri scelsero la spartizione del potere anziché l’affermazione dei principi e delle tradizioni ad esse legate, suggerendo ai loro figli che non c’erano verità, ma solo interessi, negoziabili con accordi. I figli protestarono in nome di rivoluzioni immaginate (che nella realtà erano stermini organizzati).
Ed oggi, a loro volta al potere, si regolano nello stesso modo: un “carpe diem” brutalmente individualista, che non si fa carico dei figli e delle prossime generazioni
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