Eutanasia - mar 31 lug
A proposito di recenti dichiarazioni sul testamento biologico
di Francesco D'Agostino
Tratto da Avvenire del 31 luglio 2007
Potrei anche dichiararmi del tutto d'accordo con l'intervista che Giorgio Lambertenghi - presidente dell'Associazione dei Medici Cattolici di Milano - ha rilasciato a Simona Ravizza sul Corriere della Sera del 25 luglio, a commento della morte di Giovanni Nuvoli, se nell'intervista stessa e nel titolo che le è stato dato non apparissero espressioni come: «Bisogna avere il coraggio di fare morire in modo dignitoso i malati senza false ipocrisie».
"Far" morire? E chi dovrebbe avere questo "coraggio"? Chi è che assume atteggiamenti "ipocriti"? Smettiamola di usare parole forti, che finiscono per dividere le persone, che spesso si trovano davanti a dilemmi insolubili, in "buone" (quelle che "fanno" morire?) e "cattive", e soprattutto lasciamo cadere il riferimento, del tutto fuor di luogo, all'ipocrisia.
Vediamo piuttosto qual è la sostanza del problema. Riassumerei le istanze di Lambertenghi - sia pure in modo molto sintetico e quindi approssimativo - nel modo seguente: a) il medico deve astenersi dall'accanimento; b) è doveroso lasciar morire senza dolore ed evitare quindi una morte tremenda a chi l'abbia espressamente richiesto; c) cattolici e laici devono affrontare la questione del testamento biologico senza preconcetti per arrivare ad una soluzione etica bipartisan; d) è necessario introdurre in Italia regole chiare che riconoscano una volta per tutte il principio di autodeterminazione del paziente.
Sui primi tre punti sembra che Lambertenghi sfondi porte aperte: a) il no dei bioeticisti all'accanimento è, da decenni, unanime; b) sul fatto che esista un dovere stringente di ogni medico di alleviare le sofferenze dei malati terminali non credo ci sia da insistere; e infine c) mi limito a ricordare che sul testamento biologico, e sulle numerose questioni casistiche che esso suscita - quando il malato non sia competente - il Comitato nazionale di Bioetica, nelle sue componenti cattoliche e laiche, ha da tempo individuato una soluzione condivisa: la domanda da fare è perché il Parlamento insista a non volerla assumere come base di partenza per una nuova, possibile legge, al posto delle diverse ambigue proposte che si contendono il campo. Ripeto: su questi primi tre punti concordo perfettamente con Lambertenghi, a condizione, naturalmente, di assumerli per quello che esplicitamente dicono e non per quello che da parte di alcuni si vorrebbe che dicessero (stravolgendone la valenza). Così, il no all'accanimento non deve diventare pretesto (esso sì, ipocrita) per l'abbandono dei pazienti terminali; non si può far passare per terapia del dolore la soppressione eutanasica del malato; attraverso un testamento biologico non si possono avallare surrettiziamente richieste di eutanasia.
Veniamo quindi al punto decisivo, che avevo intenzionalmente lasciato per ultimo: è vero o non è vero che mancano in Italia norme che garantiscano la libertà di scelta del paziente? In senso proprio, sembra di no: non c'è bisogno di ricordare che a livello giuridico abbiamo l'art. 32 (secondo comma) della Costituzione, che garantisce ciascuno contro ogni pratica medica coercitiva, articolo che è ribadito, come se non bastasse, dalla Convenzione di Oviedo e dal Codice di deontologia medica. Il punto è che queste norme, che - come tutte le norme - si applicano senza difficoltà ai casi ordinari, divengono di difficilissima applicazione in quei casi estremi, in cui gli esseri umani divengono estremamente fragili, fisicamente e soprattutto psicologicamente, quando cioè si ha a che fare con individui estremamente anziani, con pazienti terminali, con persone incapaci, in stato di confusione mentale o colpite da patologie degenerative gravemente invalidanti.
Lo scenario che si apre in queste circostanze è inquietante. Invocare nuove norme o ribadire che bisogna comunque rispettare la libertà di scelta delle persone non centra l'essenza della questione. In merito, due sono le linee che si contrappongono nel dibattito bioetico. La prima è quella di chi pensa che rilevare la volontà di malati in stato di estrema fragilità e dar poi esecuzione a tale volontà non crei particolari problemi e che, per garantire comunque l'autodeterminazione del malato, quando la sua capacità sia venuta meno, ci si possa riferire a quella di un fiduciario, legalmente riconosciuto. Ma chi potrà e come si potrà controllare che la volontà del fiduciario corrisponda al miglior interesse del malato? L'altra via è quella di chi ritiene che non si debba trasformare in vuoto feticcio il principio (pur sacrosanto) dell'autodeterminazione. Ne segue che quello stesso medico, che ha il preciso dovere di rispettare la volontà di rinuncia alle terapie formulata da un malato pienamente competente, è destinatario di un dovere ancor più stringente: a) non deve presumere frettolosamente, e in particolare in casi palesemente controversi, l'esistenza di questa capacità e b) deve sempre presumere - quando il malato non sia competente - la sua volontà di essere curato, ovviamente senza attivare pratiche inaccettabili di accanimento.
È sul confronto tra queste due linee di pensiero che va portata l'attenzione dell'opinione pubblica, oggi distratta dalle tragiche cronache di casi che sono sì reali, ma ben poco esemplari per una serena riflessione bioetica. Come dicono gli inglesi, hard cases make bad laws: dai casi complicati e estremi non possono che scaturire leggi cattive
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