Letture d'agosto: come gli ottocento di Otranto salvarono Roma
Furono martirizzati cinque secoli fa nella regione più orientale d'Italia, la più esposta agli attacchi dei musulmani. L'obiettivo del califfo Maometto II era di conquistare Roma, dopo aver già preso Costantinopoli. Ma lo fermarono dei cristiani pronti a difendere la fede col sangue
di Sandro Magister
ROMA, 14 agosto 2007 – Si legge nel Martirologio Romano, cioè nel calendario liturgico dei santi e beati aggiornato a norma dei decreti del Concilio Vaticano II e promulgato da Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ricorda e venera...
"... i circa ottocento beati martiri che a Otranto, in Puglia, incalzati dall'assalto dei soldati ottomani a rinnegare la fede, furono esortati dal beato Antonio Primaldo, anziano tessitore, a perseverare in Cristo, e ottennero così con la decapitazione la corona del martirio".
Il martirio di questi ottocento avvenne nell'anno 1480 e nel giorno della loro memoria liturgica, il 14 agosto.
Per loro, cinque secoli dopo, nel 1980, Giovanni Paolo II si recò a Otranto, la città italiana in cui furono martirizzati.
E quest'anno, il 6 luglio, Benedetto XVI ha autenticato definitivamente il loro martirio, con un decreto promulgato dalla congregazione delle cause dei santi.
Ma chi furono gli ottocento di Otranto? E perché furono uccisi? La loro storia è di straordinaria attualità. Come tuttora attuale è il conflitto tra islam e cristianesimo, nel quale essi sacrificarono la vita.
È quanto mostra nel racconto che segue – apparso il 14 luglio scorso su "il Foglio" – Alfredo Mantovano, giurista cattolico, senatore della repubblica e conterraneo di quei martiri, nato nel sud della Puglia, la regione di Otranto:
"Pronti a morire mille volte per Lui..."
di Alfredo Mantovano
Il 6 luglio 2007 Benedetto XVI ha ricevuto il prefetto della congregazione per le cause dei santi, cardinale José Saraiva Martins, e ha autorizzato la pubblicazione del decreto di autenticazione del martirio del beato Antonio Primaldo e dei suoi compagni laici, “uccisi in odio alla fede” a Otranto il 14 agosto del 1480.
Antonio Primaldo è l’unico del quale è stato tramandato il nome. Gli altri suoi compagni di martirio sono ottocento ignoti pescatori, artigiani, pastori e agricoltori di una piccola città, il cui sangue, cinque secoli fa, è stato sparso solo perché cristiani.
Ottocento uomini, i quali hanno subito cinque secoli fa il trattamento riservato nel 2004 all’americano Nick Berg, catturato da terroristi islamici in Iraq mentre svolgeva il suo lavoro di tecnico antennista e ucciso al grido di “Allah è grande!”. Il suo boia, dopo avergli recisa la giugulare, passò la lama attorno al collo, fino a staccare la testa, e quindi la mostrò come un trofeo. Esattamente come fece nel 1480 il boia ottomano con ciascuno degli ottocento otrantini.
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L’esecuzione di massa ha un prologo, il 29 luglio 1480. Sono le prime ore del mattino: dalle mura di Otranto comincia a scorgersi all’orizzonte e diventa sempre più visibile una flotta composta da 90 galee, 15 maone e 48 galeotte, con 18 mila soldati a bordo. L’armata è guidata dal pascià Agometh; e costui è agli ordini di Maometto II, detto Fatih, il Conquistatore, cioè il sultano che nel 1451, ad appena 21 anni, era salito a capo della tribù degli ottomani, a sua volta impostasi sul mosaico degli emirati islamici un secolo e mezzo prima.
Nel 1453, alla guida di un esercito di 260 mila turchi, Maometto II aveva conquistato Bisanzio, la “seconda Roma”, e da quel momento coltivava il progetto di espugnare la “prima Roma”, la Roma vera e propria, e di trasformare la basilica di San Pietro in una stalla per i suoi cavalli.
Nel giugno 1480 valuta i tempi maturi per completare l’opera: toglie l’assedio a Rodi, difesa con coraggio dai suoi cavalieri, e punta la flotta verso il mare Adriatico. L’intenzione è di approdare a Brindisi, il cui porto è ampio e comodo: da Brindisi progetta di risalire l’Italia fino a raggiungere la sede del papato. Un forte vento contrario costringe però le navi a toccare terra 50 miglia più a sud, e a sbarcare in una località chiamata Roca, a qualche chilometro da Otranto.
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Otranto era – ed è – la città più orientale d’Italia. Ha un passato ricco di storia: le immediate vicinanze erano abitate probabilmente già dal Paleolitico, certamente dal Neolitico. Era stata poi popolata dai messapi, stirpe che precedeva i greci, quindi – conquistata da costoro – era entrata nella Magna Grecia e, ancora, era caduta nelle mani dei romani, diventando presto municipio.
L’importanza del suo porto le aveva fatto assumere il ruolo di ponte fra oriente e occidente, consolidato sul piano culturale e politico dalla presenza di un importante monastero di monaci basiliani, quello di san Nicola in Casole, di cui oggi restano un paio di colonne, sulla strada che conduce a Leuca.
Nella sua splendida chiesa cattedrale, costruita fra il 1080 e il 1088, nel 1095 fu impartita la benedizione ai dodicimila Crociati che, al comando del principe Boemondo I d’Altavilla, partirono per liberare e per proteggere il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Di ritorno dalla Terra Santa, proprio a Otranto san Francesco d’Assisi era approdato nel 1219, accolto con grandi onori.
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Quando sbarcano gli ottomani, la città può contare su una guarnigione di soli 400 uomini in armi, e per questo i capitani del presidio si affrettano a chiedere aiuto al re di Napoli, Ferrante d’Aragona, inviandogli una missiva.
Cinto d’assedio il castello, nelle cui mura si erano rifugiati tutti gli abitanti del borgo, il pascià Agometh, tramite un messaggero, propone una resa a condizioni vantaggiose: se non resisteranno, uomini e donne saranno lasciati liberi e non riceveranno alcun torto. La risposta giunge da uno dei maggiorenti della città, Ladislao De Marco: se gli assedianti vogliono Otranto – fa sapere – devono prenderla con le armi.
Al nunzio è intimato di non tornare più, e quando arriva un secondo messaggero con la medesima proposta di resa, costui viene trafitto dalle frecce. Per togliere ogni equivoco, i capitani prendono le chiavi delle porte della città e in modo visibile, da una torre, le scagliano in mare, alla presenza del popolo. Durante la notte, buona parte dei soldati della guarnigione si cala con le funi dalle mura della città e scappa. A difendere Otranto restano soltanto i suoi abitanti.
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L’assedio che segue è martellante: le bombarde turche rovesciano sulla città centinaia di grosse palle di pietra (molte sono ancora oggi visibili per le strade del centro storico della città). Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, gli ottomani concentrano il fuoco contro uno dei punti più deboli delle mura: aprono una breccia, irrompono nelle strade, massacrano chiunque capiti a tiro, raggiungono la cattedrale, nella quale in tanti si sono rifugiati. Ne abbattono la porta e dilagano nel tempio, raggiungono l’arcivescovo Stefano, lì presente con gli abiti pontificali e con il crocifisso in mano. All’intimazione di non nominare più Cristo, poiché da quel momento comanda Maometto, l’arcivescovo risponde esortando gli assalitori alla conversione, e per questo gli viene reciso il capo con una scimitarra.
Il 13 agosto Agometh chiede e ottiene la lista degli abitanti catturati, con esclusione delle donne e dei ragazzi di età inferiore ai 15 anni.
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Così racconta Saverio de Marco nella "Compendiosa istoria degli ottocento martiri otrantini" pubblicata nel 1905:
“In numero di circa ottocento furono presentati al pascià che aveva al suo fianco un miserrimo prete, nativo di Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui impiegò la satannica sua eloquenza a fin di persuadere a’ nostri santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il maomettismo, sicuri della buona grazia d’Acmet, il quale accordava loro vita, sostanze e tutti qui beni che godevano nella patria: in contrario sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n’ebbe uno di nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d’età provetto, ma pieno di religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose: 'Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui'".
Aggiunge il primo dei cronisti, Giovanni Michele Laggetto, nella "Historia della guerra di Otranto del 1480" trascritta da un antico manoscritto e pubblicata nel 1924:
“E voltatosi ai cristiani disse queste parole: 'Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della patria e per salvar la vita e per li signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la gloria del martirio'. A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar Cristo”.
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Agometh decreta la condanna a morte di tutti gli ottocento i prigionieri. Al mattino seguente, questi vengono condotti con la fune al collo e le mani legate dietro la schiena al colle della Minerva, poche centinaia di metri fuori dalla città. Scrive, ancora, De Marco:
“Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data innanzi; onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione e, prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co’ suoi, anzi in questi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a’ commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli. Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de’ carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati. Il portento evidente ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl’infedeli, se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei, profittò avventurosamente del miracolo e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena del palo”.
Durante il processo per la beatificazione degli ottocento, nel 1539, quattro testimoni oculari riferirono il prodigio di Antonio Primaldo, che restò in piedi dopo la decapitazione, e la conversione e il martirio del boia. Così racconta uno dei quattro, Francesco Cerra, che nel 1539 aveva 72 anni:
“Antonio Primaldo fu il primo trucidato e senza testa stette immobile, né tutti gli sforzi dei nemici lo poter gettare, finché tutti furono uccisi. Il carnefice, stupefatto per il miracolo, confessò la fede cattolica essere vera, e insisteva di farsi cristiano, e questa fu la causa, perché per comando del bassà fu dato alla morte del palo”.
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Cinquecento anni dopo, il 5 ottobre 1980, Giovanni Paolo II si reca a Otranto per ricordare il sacrificio degli ottocento.
È una splendida mattina di sole nella spianata sottostante il Colle della Minerva, dal 1480 chiamato Colle dei Martiri. Il pontefice polacco coglie l’occasione per rivolgere un invito, attuale allora come oggi:
“Non dimentichiamo i martiri dei nostri tempi. Non comportiamoci come se essi non esistessero”.
Il papa esorta a guardare oltre il mare, e richiama espressamente le sofferenze del popolo di Albania, al quale in quel momento, sottoposto a una delle più feroci realizzazioni del comunismo, nessuno rivolgeva l’attenzione. Sottolinea che “i beati martiri di Otranto ci hanno lasciato due consegne fondamentali: l’amore alla patria terrena e l’autenticità della fede cristiana. Il cristiano ama la sua patria terrena. L’amore della patria è una virtù cristiana”.
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Il sacrificio degli ottocento di Otranto non è importante soltanto sul piano della fede. Le due settimane di resistenza della città consentono all’esercito del re di Napoli di organizzarsi e di avvicinarsi a quei luoghi, così impedendo ai 18 mila ottomani di dilagare per la Puglia.
I cronisti dell’epoca non esagerano nell’affermare che la salvezza dell’Italia meridionale fu garantita da Otranto: e non solo quella, se è vero che la notizia della presa della città inizialmente aveva indotto il pontefice allora regnante, Sisto IV, a programmare il trasferimento ad Avignone, nel timore che gli ottomani si avvicinassero a Roma.
Il papa recede dall’intento quando il re di Napoli, Ferrante, incarica il figlio Alfonso, duca di Calabria, di trasferirsi in Puglia, e gli affida il compito di riconquistare Otranto. Il che accade il 13 settembre 1481, dopo che Agometh era tornato in Turchia e Maometto II era morto.
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Ciò che rende questo straordinario episodio pieno di significato, anche per l’uomo europeo di oggi, è che nella storia della cristianità non sono mai mancate testimonianze di fede e di valori civili, né sono mai mancati gruppi di uomini che hanno affrontato con coraggio prove estreme. Mai però è accaduto un episodio di proporzioni collettive così vaste: un’intera città dapprima combatte come può e tiene testa per più giorni all’assedio; e poi respinge con fermezza la proposta di abiurare la fede. Sul Colle della Minerva, al di fuori del vecchio Antonio Primaldo, non emerge alcuna individualità, se è vero che degli altri ottocento martiri non si conosce il nome: a riprova del fatto che non sono pochi singoli eroi, bensì è una popolazione intera che affronta la prova.
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Il tutto succede anche per l’indifferenza dei responsabili politici dell’Europa dell’epoca, di fronte alla minaccia ottomana.
Nel 1459 il papa Pio II aveva convocato a Mantova un congresso al quale aveva invitato i capi degli stati cristiani, e nel discorso introduttivo aveva delineato le loro colpe di fronte all’avanzata turca. Ma benché in quella assise venga decisa la guerra per contenere questa avanzata, poi non segue nulla, a causa dell’opposizione di Venezia e della noncuranza della Germania e della Francia.
Dopo che i musulmani conquistano l’isola di Negroponte, appartenente a Venezia, una nuova alleanza contro gli ottomani proposta da papa Paolo II viene fatta fallire dai signori di Milano e di Firenze, pronti ad approfittare della situazione critica nella quale si trova la Serenissima.
Il decennio successivo, con Sisto IV che diventa pontefice nel 1471, registra l’omicidio di Galeazzo Sforza duca di Milano, l’alleanza antiromana del 1474 fra Milano, Venezia e Firenze, la fiorentina Congiura dei Pazzi del 1478 e la guerra che ne segue fra il papa e il re di Napoli, da una parte, e dall’altra Firenze, aiutata da Milano, da Venezia e dalla Francia... Il tutto con grande vantaggio per gli ottomani, come scrive Ludwig von Pastor nella sua "Storia dei papi":
“Lorenzo il Magnifico, che aveva ammonito Ferrante di non prestarsi al gioco e alle aspirazioni degli stranieri, fu proprio lui a sollecitare Venezia perché si accordasse con i turchi e li spingesse ad assalire le sponde adriatiche del regno di Napoli, al fine di turbare i disegni di Ferdinando e del figlio. [...] La Serenissima, firmata nel 1479 la pace con i turchi aderì al disegno del Magnifico nella speranza di riversare sulla Puglia l’orda musulmana che da un momento all’alto poteva abbattersi sulla Dalmazia, dove sventolava il vessillo di san Marco. [...] E gli uomini di Lorenzo il Magnifico non esitarono neppure [...] a sollecitare Maometto II a invadere le terre del re di Napoli, ricordandogli i vari torti subiti da questi. Ma il sultano non aveva bisogno di questi consigli: da 21 anni attendeva il momento buono per sbarcare in Italia, e fino ad allora era stata proprio Venezia, la diretta avversaria sul mare, ad impedirglielo”.
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Se la storia non è mai identica a sé stessa, tuttavia non è arbitrario cogliere dai suoi sviluppi analogie e similitudini: esattamente mille anni dopo il 480, anno della nascita di san Benedetto da Norcia – un umile monaco alla cui opera l’Europa deve tanto della sua identità – altri umili interpretano l’Europa meglio e più dei loro capi, pronti a combattersi reciprocamente piuttosto che a fronteggiare il nemico comune.
Quando gli otrantini si trovano di fronte alle scimitarre ottomane, non traggono dal disinteresse dei re il motivo per un proprio disimpegno; forti della cultura nella quale sono cresciuti, pur se la gran parte di loro non ha mai imparato l’alfabeto, sono convinti che resistere e non abiurare la fede costituisca la scelta più naturale. Si provi a parlare oggi con un nostro soldato che è tornato dall’Iraq o dall’Afghanistan, dopo aver completato il periodo di missione: ciò che si ascolta con maggiore frequenza è la sua meraviglia per le discussioni e per i contrasti infiniti sulla nostra presenza in quelle regioni. Per questi soldati è naturale che si vada ad aiutare chi ha necessità di sostegno, e che si garantisca la sicurezza della ricostruzione contro gli attacchi terroristici.
A Otranto nel 1480 nessuno ha esposto bandiere arcobaleno, né ha invocato risoluzioni internazionali, né ha chiesto la convocazione del consiglio comunale perché la zona fosse dichiarata demilitarizzata; nessuno si è incatenato sotto le mura per “costruire la pace”.
Per due settimane, i quindicimila abitanti della città hanno bollito olio e acqua, finché ne hanno avuti, e li hanno rovesciati dalle mura sugli assedianti. E quando sono rimasti in vita soltanto ottocento uomini adulti e sono stati catturati, sono andati incontro di loro volontà alla fine che oggi fanno in Iraq e in Afghanistan gli iracheni, gli afgani, gli americani, gli inglesi, gli italiani, e altri ancora, quando vengono sequestrati dai terroristi. Ottocento teste sono state tagliate una dopo l'altra, senza che, in quell'epoca, dei cronisti politicamente corretti ne censurassero il racconto. Se oggi conosciamo bene questa straordinaria vicenda, è perché chi l’ha descritta è stato oggettivo e rigoroso.
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Oggi l’Europa è attaccata non – come nell’episodio storico richiamato – da una compagine islamica istituzionalmente organizzata, bensì da un insieme di organizzazioni non governative di ultrafondamentalisti islamici. Tenuta presente questa differenza strutturale, non è fuori luogo chiedersi quanto c’è oggi in occidente, in Europa, in Italia, di quella “naturalità” che ha portato una intera comunità a "difendere la pace della propria terra” fino al sacrificio estremo.
Il quesito non è fuori luogo, se si riflette che nella lotta al terrorismo un elemento realmente decisivo è la saldezza del corpo sociale, o comunque di gran parte di esso, di fronte alla minaccia e ai modi più efferati di concretizzazione della stessa. La memoria di Otranto non vale soltanto a sottolineare che vi sono momenti in cui resistere è un dovere, ma prima ancora a ricordare a noi stessi chi siamo e da quali comunità discendiamo.
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È importante ricordare che nel 1571, novant’anni dopo il martirio di Otranto, una flotta di stati cristiani arresta l'avanzata turco-islamica nel Mediterraneo al largo di Lepanto.
Lo scenario europeo non era migliorato: la Francia faceva lega con i principi protestanti tedeschi per contrapporsi agli Asburgo e si compiaceva della pressione che i turchi esercitavano contro l’impero asburgico nel Mediterraneo. Parigi e Venezia non avevano mosso un dito per difendere i Cavalieri di Malta dall’assedio navale condotto contro di loro da Solimano il Magnifico. Questo vuol dire che la vittoria di Lepanto non è stata il frutto della convergenza di interessi politici; al contrario, si è realizzata nonostante le divergenze. La straordinarietà di Lepanto sta nel fatto che nonostante tutto, per una volta, principi, politici e comandanti militari hanno saputo accantonare le divisioni e unirsi per difendere l’Europa.
Questa unione si è realizzata soprattutto perché la politica europea del XVI secolo conservava una visione del mondo sostanzialmente comune, fondata sul cristianesimo e il diritto naturale. E se oggi tante menti agnostiche abitano l'Europa in piena libertà, è anche perché qualcuno a suo tempo ha speso tempo, energie e anche la propria vita per la buona causa, dal momento che la vittoria degli altri avrebbe fatto cadere in mani musulmane l’Italia e forse anche la Spagna.
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Otranto insegna che una civiltà culturalmente omogenea – o anche solo in prevalenza animata da principi di realtà – è capace di reagire in modo sostanzialmente compatto a difesa della propria pace, e lo fa senza calpestare la propria identità e la propria dignità.
Oggi la cristianità romano–germanica come civiltà omogenea non esiste più. Né vale la tesi secondo la quale la cristianità, finché è esistita, sarebbe stata una realtà speculare alla comunità islamica. Tre differenze strutturali impediscono qualsiasi sovrapposizione o analogia rispetto alla "umma" islamica: nella cristianità vi è distinzione fra la sfera politica e quella religiosa, vi è il fondamento del diritto naturale, vi è il rispetto della coscienza della persona umana. La riflessione su quanto accaduto nel 1480 permette tuttavia di individuare tre capisaldi attorno ai quali rifare unità: e cioè il riferimento al diritto naturale, la riscoperta delle radici cristiane dell’Europa e l’amor di patria, quest’ultimo esplicitamente evocato da Giovanni Paolo II quale lascito dei martiri di Otranto.
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Nella Sacra Scrittura, quando Dio mette a conoscenza Abramo dell’intenzione di distruggere Sodoma e Gomorra (Genesi 18, 16 ss). Abramo tenta di intercedere e gli dice: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse ci sono 50 giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?”. Ricevuta l’assicurazione da Dio che per riguardo a quei 50 giusti avrebbe perdonato l’intera città, Abramo va avanti, in una sorta di ardita trattativa: e se ce ne fossero 45, 40, 30, 20, o soltanto 10? La risposta di Dio è la medesima: “Non la distruggerò per riguardo a quei dieci”. Ma non se ne trovarono né 50, né 45, né 30, né 20 e neanche 10; e le due città furono distrutte.
Questa pagina della Scrittura è terribile per la sorte di annientamento che prospetta alle civiltà che rinnegano i valori inscritti nella natura dell’uomo. È una pagina che è stata dolorosamente riletta tante volte, soprattutto nel XX secolo, di fronte alle rovine del nazionalsocialismo e del socialcomunismo realizzato. Ma è altrettanto confortante per chi ritiene che la centralità dell’uomo e la coerenza con i principi costituiscano non soltanto il punto di partenza, ma pure la strategia per chiunque voglia fare politica.
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Nel 1480 quel brano della Genesi trova un’applicazione particolare: l’Europa, ma in particolare la sua città più importante, Roma, vengono risparmiate dalla distruzione non “per riguardo”, bensì “per il sacrificio” di 800 sconosciuti pescatori, artigiani, pastori e agricoltori di una città marginale.
Colpisce che quanto accadde a Otranto non abbia avuto, e ancora non abbia, il riconoscimento diffuso che merita. La stessa Chiesa ha atteso cinque secoli, e un pontefice straordinario come Karol Wojtyla, per proclamare beati quegli 800. Il decreto del 6 luglio 2007 di Benedetto XVI autorizza a intendere il loro “martirio” come storicamente e teologicamente accaduto.
È la premessa per la loro canonizzazione, che seguirà quando sarà accertato il miracolo. La Chiesa, anche quella otrantina, mantiene un doveroso riserbo sul punto, ma tutti sanno che l’intercessione degli 800 ha già procurato tanti miracoli; manca solo il riconoscimento ufficiale.
I martiri di Otranto non hanno fretta: le loro ossa accolgono chi visita la cattedrale ordinate in più teche, nella cappella situata alla destra dell’altare maggiore.
Ricordano che non solo la fede, ma anche la civiltà hanno un prezzo: un prezzo non monetizzabile, paradossalmente compatibile con l’aver ricevuto la fede e la civiltà come doni inestimabili.
Quel prezzo viene chiesto a ciascuno in modo differente, ma non ammette né saldi né liquidazioni.
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Il quotidiano da cui è stato ripreso il racconto:
> Il Foglio
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