Il grido di Piergiorgio Welby, e il dolore e la delusione espressi ieri dalla sua vedova, in realtà mettono in luce quanto sia urgente assistere sia chi soffre sia i loro congiunti in modo globale, promuovendo la diffusione di centri di cure palliative. Al desiderio umanissimo, ragionevole e legittimo di non soffrire più, l'équipe medica non può rispondere sospendendo l'assistenza della ventilazione,
Ciò che Welby ha chiesto e ciò che noi dovevamo dargli
AVVENIRE 24 GENNAIO 2007
Padre Giorgio Carbone
Piergiorgio Welby ha semplicemente «chiesto di interrompere una cura», come sostiene oggi la sua vedova (cui va tutto il nostro rispetto), oppure si è fatto uccidere? Davanti alla sofferenza, le reazioni umane sono molteplici e tutte hanno la nostra comprensione. Ma il caso Welby ritorna così a far discutere: lui cosa chiedeva realmente? Ed è stato fatto tutto il possibile per risparmiargli una morte dolorosa?
Dalle molteplici lettere che Piergiorgio Welby ha indirizzato a politici e a quotidiani risulta evidente che chiedeva non solo la sospensione della ventilazione meccanica ma anche una "sedazione massiva", come egli stesso scrisse: una richiesta ripetuta di morire per effetto di un'azione diretta.
Ora, la ventilazione meccanica non è una terapia, perché non cura alcuno: è un atto di assistenza che impedisce la dolorosa morte per soffocamento. È un atto dovuto, tuttavia: il paziente, debitamente informato e cosciente, può legittimamente rifiutarlo, così come può rifiutare terapie e assistenza: questo rifiuto - per quanto drammatico - è legittimo, perché il paziente non può essere sottoposto obbligatoriamente a terapie contro il suo consenso informato, a condizione che questo non sia falsato da angoscia o depressione. La tracheotomia, questa sì, è un intervento terapeutico altamente invasivo: nel caso di Welby poteva e doveva essere evitata, come egli stesso legittimamente chiese anni fa, ma qualcuno non ebbe il coraggio di evitarla. Resta il problema della richiesta di "sedazione massiva": si tratta cioè di somministrare sostanze che provocano simultaneamente la perdita della coscienza e la depressione del centro respiratorio e, quindi, la morte per soffocamento.
Il suo caso è ben differente da quello di Giovanni Paolo II, perché mentre il Papa chiese di non essere sottoposto alla tracheotomia e non chiese mai la sedazione letale, Piergiorgio Welby non domandò la tracheotomia, la quale però gli venne praticata lo stesso contro il suo consenso - fatto questo grave -, e invece domandò esplicitamente la sedazione letale.
Ma è altrettanto tragico e doloroso che non sia stata consigliata a Welby l'unica soluzione umanamente rispettosa del suo desiderio di non soffrire più. Welby avrebbe potuto chiedere la sedazione palliativa, cioè la somministrazione di antidolorifici in dosi quantitativamente crescenti che, se ben calibrate, gli avrebbero dato una sensazione di sollievo generale e garantito la permanenza dello stato di coscienza. Sotto questa sedazione, i medici avrebbero potuto togliergli le varie sonde, Welby non avrebbe avvertito il grave dolore, e avrebbe continuato a respirare autonomamente senza spasimi, sebbene in modo sempre più ridotto. E si sarebbe spento serenamente, senza soffrire.
Il grido di Piergiorgio Welby, e il dolore e la delusione espressi ieri dalla sua vedova, in realtà mettono in luce quanto sia urgente assistere sia chi soffre sia i loro congiunti in modo globale, promuovendo la diffusione di centri di cure palliative. Al desiderio umanissimo, ragionevole e legittimo di non soffrire più, l'équipe medica non può rispondere sospendendo l'assistenza della ventilazione, dell'alimentazione o dell'idratazione artificiali: equivarrebbe a provocare direttamente la morte di chi soffre per omissione di assistenza, oppure abbandonare il malato a se stesso e disinteressarsi del suo futuro. I medici, invece, risponderanno modulando l'assistenza in base al quadro clinico del singolo paziente: escluderanno ogni terapia inutile o onerosa per le forze fisiche e psichiche del malato, e compiranno tutti quei gesti di assistenza umana, psicologica e spirituale per lenire il dolore e accompagnare il malato verso la morte.
Quasi cent'anni fa, nel 1908, un grande medico bolognese, Augusto Murri, raccomandava di non provocare mai la morte ma di stare sempre accanto al malato: «Se puoi guarire, guarisci. Se non puoi guarire, allevia il dolore. Se non puoi alleviare il dolore, consola»
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