Giussani: «Il miracolo è la carità». L’amore che ha rinunciato a qualsiasi forma di contabilità. La vera grande “differenza ontologica”, la novità, che cambia le carte in tavola, la sorpresa della vita non è amare, ma essere amati così. La carità non avrà mai fine. È infinita.
Quest'articolo ci aiuta a comprendere meglio l'incontro che abbiamo avuto con Cesana sabato scorso. Aspettiamo sempre vostri commenti e testimonianze.
Stralci di vita,esperienze d'accoglienza domande.
Abbiamo chiesto anche a Padre Mauro Lepori di aiutarci in questo lavoro.
La ragione è...
Il sospiro del Meeting
Carlo Dignola
Mentre sono al Meeting, sul cellulare mi chiama una cara amica e mi dice che si sta separando dal marito. Non mi dice che lui ha un carattere impossibile, che vota Berlusconi (lei è comunista), che russa troppo la notte o che si è trovato un’altra più giovane; ha un breve sospiro e mi dice: «Nella vita tutte le cose che hanno un inizio, finiscono». È vero. Chi è adulto lo sa - da giovani si può ancora far finta di niente -. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano, diceva Majakovskij. Le ho risposto: «Non tutte».
Era questo il tema del Meeting, no? Quel sospiro lì, che mi è arrivato improvviso nel telefono, di una che non è di Cl. E il mio sospiro. Perché alla ragione non basta vedere quello che vede, pre-sente, annusa, anzi dice Giussani - che non usa mezze parole - “esige” dell’altro. Ma non lo può costruire con le proprie mani.
La cosa più evidentemente infinita
Cominciamo dal principio, dall’incontro di lunedì mattina con Marco Bersanelli e altri luminari. Edward Nelson, che insegna matematica a Princeton (è come insegnare calcio alla Nazionale di Lippi), si è chiesto cos’è questo infinito, questa non-cifra che i greci - ma anche gli indiani, disegnando - avvistarono alla fine dei loro calcoli già 2.500 anni fa, all’alba dell’umanità razionale. Nelson dice che la cosa più evidentemente infinita è la nostra ignoranza dell’universo: e non è poco. Il mistero, l’infinito ci circonda da ogni parte. Geni come Dedekind e Peano hanno tentato di esprimerlo in una formula, ma con il suo “Teorema di incompletezza” Kurt Gödel è riuscito addirittura a dimostrare che una simile “cattura” sarà per sempre impossibile, durasse l’intelligenza umana anche un miliardo di anni: nei nostri procedimenti logici c’è una falla strutturale.
L’infinito è un po’ come quell’otto rovesciato che sta al termine della vite degli obiettivi delle macchine fotografiche: non indica alcuna distanza, ma se non si prende come riferimento l’orizzonte, la linea ultima verso cui tutto in prospettiva si dirige, non si può mettere a fuoco nessun primo piano. Ogni secolo che passa - ha spiegato Steven Beckwith, che guida il progetto del telescopio spaziale della Nasa Hubble - noi rubiamo un bel po’ di terreno all’infinito, eppure quello non scema, non si restringe: «Negli ultimi 400 anni abbiamo spostato di molto il confine del mistero» dice, ma se tu all’infinito sottrai qualcosa - ci insegna la matematica - non lo hai diminuito di una virgola: sempre infinito resta. Anzi, lo hai fatto più grande, verrebbe da dire. È come se tutta la realtà - lo ha detto il ricercatore Massimo Robberto, che lavora all’osservatorio delle Hawaii -, mentre gli uomini affondano in essa il loro sguardo, si spostasse un passo indietro e chiedesse: «Ma cosa cercate?». «E mi colpisce sempre, perché è la parola che il Vangelo mette sulle labbra dell’Essere fatto uomo. Quando Gesù incontra i primi discepoli chiede loro: “Cosa cercate?”».
Quel “di più” che conta
In poche parole, si è visto subito cos’è una scienza aperta e cos’è una scienza schiava di se stessa, grande tema del Meeting di quest’anno, con il cardinale Schönborn a centrocampo e Darwin che allena la squadra avversaria: «La vita - ha detto l’Arcivescovo di Vienna - è qualcosa di più delle sue condizioni materiali. Cosa sia questo “di più” è problema che va al di là della metodologia quantitativa delle scienze, ma che non per questo è meno una realtà».
All’uomo di oggi però cosa importa, sul piano pratico, di questo “di più”? Poco e niente, ha risposto Javier Prades, fine teologo spagnolo. Aveva in mano i dati sulla fede dei giovani del suo Paese: dal 2000 al 2004 la metà di loro con la Chiesa cattolica ha chiuso. Nella vita - dicono - contano la famiglia, la salute, gli amici, il lavoro, il benessere… Dio è solo settimo, arrivato a fatica davanti a Zapatero. E la religione, quando vuol dire qualcosa, al massimo significa “essere onesti”, “aiutare chi ha bisogno”. Prades cita il solito, fosforico, Nietzsche: «Il concetto di Dio fu inventato in antitesi con quello della vita». Per fare tutto ciò che di divertente al mondo si può fare, bisogna andarsene dalla Chiesa?
Il segno del Mistero
La ragione ormai viene fatta coincidere con la scienza, il mistero è la zona buia dove la sua luce cristallina non arriva. Il kamikaze musulmano è uno che si è inserito male nella società, non uno che ha qualche problema con Dio. Prades cita Octavio Paz: «L’unica cosa che oggi unisce l’Europa è la sua passività di fronte al destino». E l’Europa - dice il teologo di Madrid - non sono solo quelli che il sabato prendono la Ryanair per andare in discoteca da Bergamo a Barcellona: siamo noi. Gente che magari si sente un po’ cristiana in cuore, ma che al momento buono è sempre pronta a un prudente silenzio. Perché ormai «in Occidente domina una versione ridotta della ragione, una concezione strumentale che tende a ridurre la profondità della visione» dice Prades. E racconta la barzelletta di quel capo del personale a cui regalarono due biglietti per l’Incompiuta di Schubert, e voleva ottimizzare le energie dell’orchestra sfoltendo i violini perché suonavano tutti la stessa nota e tagliando i brani che si ripetono: una ragione intesa come “misura” non ci permette neppure di percepire ciò che la realtà è davvero. Il suo occhietto presbite ci fa godere di meno, non di più, la musica e la vita (questa era per Nietzsche).
Il Mistero - dice Prades - non è vero che non entra nella nostra esperienza, ma lo fa sempre attraverso un segno. Avviene cioè «sempre dentro, non fuori della realtà». Cesana lo ha spiegato molto bene: se si salta quell’“ostacolo” (a volte potrebbe essere un marito, oppure un letto d’ospedale), ogni infinito è perduto. «Giussani raccontava che in prima liceo, ascoltando una canzone di Tito Schipa percepì improvvisamente il brivido di qualcosa che mancava; non alla romanza di Donizetti, ma alla vita stessa. E che non avrebbe “trovato soddisfazione, appoggio, compiutezza, risposta da nessuna parte”». (…)
Il punto di fuga
«“C’è un punto di fuga, c’è qualcosa che sfonda l’oggetto che afferriamo, per cui non lo prendiamo mai a sufficienza e per cui c’è sempre come un’intollerabile ingiustizia, che cerchiamo di celare a noi stessi, distraendoci. Il buttarsi nell’istinto è il modo più bieco di chiudersi a questa apertura che tutte le cose reclamano, cui tutte le cose spingono”. È ascoltando quel disco di canzoni - dice Cesana - che don Giussani “aveva per la prima volta capito chi potesse essere veramente Dio” (ed era già in seminario!)».
È «quella tristezza che si prova nel rapporto non compiuto con la persona che si ama di più, perché io non sono capace, perché lei non è capace», il sospiro d’infinito in cui culmina la ragione, che è «la caratteristica più umana della vita: la coscienza della propria incompiutezza». D’altra parte - dice Cesana -, non si può attendere a lungo qualcosa che non c’è: «Se fosse così, se sentissimo che la nostra attesa è verso qualcosa che non esiste, saremmo presi dalla paura». Melanie Klein, una psicanalista che ha studiato l’insorgere della paranoia nei bambini, dice che quando l’uomo non ha più fiducia «l’assenza diventa una presenza cattiva», che non ti lascia requie. Nella nostra vita, però, c’è un pre-sentimento (un sentimento che anticipa tutti gli altri) diverso: «Che l’essere c’è, che anche se la vita ti azzoppa - dice Cesana -, non puoi negare questo braccio che ti sostiene». Ma questo iniziamo a capirlo solo «quando abbiamo bisogno; quando quella mancanza, che è malinconia, la sentiamo prorompere come ricerca di ciò che ci può rispondere: l’infinito si presenta sempre quando insorge il bisogno di qualcosa di finito». Come la siepe nell’Infinito di Leopardi, che fa vedere ciò che la sua sagoma adombra. Per percepire lo sfondo - dice Cesana -, è necessario toccare quel limite, farsi male a volte: «Per questo la vita è dei poveri: perché se non hai bisogno, non ti accorgi».
Il profumo della gratuità
Ciò che manca alla ragione, oggi, «non sono i neuroni, ma la passione. Perché senza affetto la ragione non sussiste. Ma l’affetto non dipende da noi» dice Cesana. Finché l’infinito è là all’orizzonte, anche se l’uomo a cui la testa e il cuore funzionano ancora bene arrivasse ad avvertirlo in ogni passo che fa, questo non basterebbe: sarebbe troppo lontano. Così la barca dell’amore si spezza, le famiglie si separano, i figli divorziano dai genitori, la gente che ami se ne va, a cercare altre provvisorie siepi. Se l’infinito infinitamente ti sfugge, tu non puoi cavartela da te, «devi affidarti ad altro». Lo ha spiegato padre Mauro-Giuseppe Lepori, abate del monastero benedettino di Hauterive: «Vogliamo strappare dalle mani di Dio, e quindi dalle mani degli altri, quello che siamo convinti sia nostro diritto avere». Rubiamo l’argenteria al vescovo, e quando quello ci perdona, torchiati dal rimorso cattivo di chi non sa esser buono, magari facciamo qualcosa di ancora più ignobile, come rubare l’unica moneta nella mano di un bambino mendicante. Siamo sempre tentati di rubare la mela, di «sottrarre l’amore all’esigenza dell’infinito» dice Lepori, in fondo perché «abbiamo paura di essere presi». Ciò che cambia davvero la vita, invece, è il profumo della gratuità. Glielo disse lo stesso Giussani: «Il miracolo è la carità». L’amore che ha rinunciato a qualsiasi forma di contabilità. La vera grande “differenza ontologica”, la novità, che cambia le carte in tavola, la sorpresa della vita non è amare, ma essere amati così. La carità non avrà mai fine. È infinita.
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