giovedì 4 gennaio 2007

IL VERO PERICOLO? L'ABBANDONO,NON L'ACCANIMENTO

Propongo l'intervista ad un nostro amico medico "Giovanni Battista Guizzetti.
L'abbraccio che ha della realta' ci puo' aiutare a leggere meglio ogni avvenimento della nostra vita.


Intervista a Giovan Battista Guizzetti

(04 gennaio 2007)

Il vero pericolo? L'abbandono, non l'accanimento

Francesca Lozito

Ha percorso in questi mesi l’Italia in lungo e in largo Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto che accoglie persone in stato vegetativo presso il Centro don Orione di Bergamo. Ha scritto un libro, Terry Schiavo e l’umano nascosto, per la Società Editrice Fiorentina. Ha incontrato centinaia di volti ansiosi di trovare una risposta alle grandi questioni sui temi di fine vita. Il tutto accompagnato da un’impressione di fondo: «Certi sondaggi in cui emerge un favore nei confronti dell’eutanasia sembrano un po’ forzati. La gente non la pensa così».

Dottore, c’è chi afferma che un caso come quello di Welby è anche un fallimento del rapporto medico-paziente.
Credo di sì. Se in una relazione così particolare come quella tra medico e paziente emerge una domanda di morte vuol dire che qualcosa non ha funzionato. Ai miei colleghi ho domandato: "In quanti vi hanno chiesto di staccare la spina?" La risposta è stata: "nessuno". Recentemente ho partecipato a un incontro sulle direttive anticipate con i notai della mia città, a cui erano stati invitati diversi esponenti della professione, tra i quali Silvio Garattini, che dirige un hospice. Mi ha confermato l’assenza di richieste eutanasiche in situazioni di cura dignitosa. Anche io, che mi occupo di stati di confine tra la vita e la morte, non ho mai ricevuto una richiesta in tal senso.

Cosa contribuisce secondo lei a un buon rapporto tra medico e paziente?
Direi una piena condivisione della malattia: il medico deve prendersi carico della persona che ha di fronte, deve saperne condividere la condizione e commuoversi per questa, nel senso più nobile del termine.

Una partecipazione umana, quindi, oltre che tecnica?
Sì, è quello che siamo chiamati a fare di fronte alle malattie inguaribili. Pensi, ad esempio, a tutti i casi di neoplasie cronicizzate. Oggi ci sono situazioni in cui si riescono a controllare i sintomi di un tumore inguaribile anche per anni, quando una volta della stessa malattia magari si moriva nel giro di una settimana. L’allungamento dello spettro della morte impone una condivisione del dolore e della sofferenza. Chiaro, tutto questo non è immediato: cercare di costruire una relazione di questo genere non è facile e richiede impegno, sensibilità.

Si parla di una paura diffusa che familiari e malati avrebbero di vivere un caso di accanimento terapeutico. Lo conferma?
Mi sembra un’affermazione fuorviante. Davvero la paura principale è quella dell’accanimento terapeutico? A me sembra che la paura principale sia di segno opposto, quella dell’abbandono terapeutico, ovvero di essere posti ai margini dell’ambito di cura, perché si soffre di un male per cui non si può più fare niente. Lo stato vegetativo è uno di quei casi in cui spesso malati e familiari vengono abbandonati e si tratta di situazioni molto dolorose.

Abbandonati da chi?
Dalla cosiddetta società civile, che ha invece il dovere di dare una risposta. Ciò comporta una compartecipazione di medici, servizi sociali, psicologi e parenti. Quando questo avviene, la condizione di chi è coinvolto in casi drammatici diventa più vivibile. Dove c’è l’abbandono è lì che c’è la disperazione.

In situazioni come queste come s’inserisce la cosiddetta libertà del paziente, su cui molto si è insistito anche nel dibattito sul caso Welby?
È un’idea sbagliata, quella dell’autonomia del malato, non solo dal punto di vista della cura. Una persona non può fare quello che vuole in assoluto, noi "dipendiamo" fin dal momento della nascita. Insistere sul concetto di "autonomia" finisce con il trasmettere l’idea che la relazione sia un impiccio nella nostra condizione umana, un ostacolo nella qualità dell’esistenza. Rivendicare il diritto all’autonomia del malato tende a marginalizzare la relazione con il medico. E c’è un altro equivoco generato da questo discorso: non esiste un diritto alla salute, ma un diritto alla cura.

E in tutto questo quale dev’essere allora il ruolo del medico?
La figura del medico non deve più essere vista all’interno di un quadro paternalistico come in passato, in cui era l’unico a decidere, ma in quello dell’alleanza terapeutica, con il medico che rimane tale e il paziente anche. Il medico deve dare delle risposte ma non le deve imporre. Purtroppo il consenso informato viene vissuto da alcuni medici come il modo per scaricarsi di alcune responsabilità. Bisogna spiegare, invece, che un corretto rapporto tra medico e paziente è un’intesa tra due individui che rischiano qualcosa. Anche il medico rischia di sbagliare e deve rivendicare questo diritto, con scienza e coscienza delle cose.

Un concetto difficile da far accettare al malato e ai suoi familiari...
Certamente, ma io dico sempre che rivendico il mio "diritto" a sbagliare, perché non sono un computer. Questo non significa certo che non abbia dedizione e che non faccia il mio lavoro con coscienza e conoscenza, anzi. Il punto è che la relazione tra il medico e il paziente è l’approfondirsi di una relazione tra uomini. Sono contrario all’idolatria del medico. Credo, piuttosto, che, quando ci si trova di fronte a malattie inguaribili, vivere dentro la condizione di sofferenza aiuti il medico a capirla.




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