Zampa di Giaguaro
Il Foglio 9 gennaio 2007
Il talento sanguinario di Gibson genera repulsione perché è edificante
Mel Gibson è personalmente odioso, perché se uno appare lucidamente antisemita quando beve troppo, allora è veramente e intrinsecamente e definitivamente antisemita. Non si è dunque obbligati a cenare con lui,
, però vedere i suoi film è un esercizio non pigro della mente. Infatti il suo talento sanguinario (e qui non è in questione l’arte di parlare di un film con competenza da lettori del cinema, insomma la critica cinematografica) ha forse da dirci qualcosa di importante. Attraverso mille equivoci improponibili, e tra questi una tradizione familiare sedevacantista e un atteggiamento brutalmente antimoderno che è in contrasto con l’ortodossia cattolica nel momento stesso in cui ne rivendica la purezza, Gibson esprime qualcosa di rozzamente radicale a proposito di questioni essenziali come la cancellazione del peccato dall’orizzonte dell’umanità, la radice greco-romana della civiltà occidentale, la redenzione. Le polemiche sulla violenza dei suoi racconti, e sull’effusione infinita di sangue che li scandisce sequenza per sequenza, nasconde probabilmente il rigetto, anche inconsapevole o istintivo, del suo tentativo di edificazione morale dell’umanità da botteghino, legittimo target di un cineasta a vocazione universale, come Steven Spielberg. Nella Passione di Gibson, e anche nel recentissimo Apocalypto, il kitsch ematico detto tecnicamente splatter è una via, non un fine, è la delineazione di un percorso che i teologi chiamerebbero soteriologico, insomma è il piccolo contributo narrativo del cinema a una storia, necessariamente kolossal e fumettara, della salvezza cristiana. Cecil B. De Mille con i suoi Comandamenti andava per le spicce, faceva hollywoodismo alla sua e alla vecchia maniera. Gli eroi di quell’epoca a tavole illustrate parlavano inglese e le lingue nazionali del doppiaggio. Gli eroi di Gibson parlano aramaico, latino e maya, e ci obbligano a vivere per due ore in un altro mondo che è la radice ancestrale del mondo, il che è già una scelta di passione autoriale quasi inverosimile nel mercato della semplicità per famiglie e della colloquialità immediata che è tipico del cinema. Lo splatter di Quentin Tarantino incanta le élite e le folle perché non è appunto una via, ma una registrazione di cassa delle nostre fobie nichiliste, del nostro modo violento di essere postmoderni. E nessuno se la prende con quel sangue commerciale, con il suo splendido e algido ritmo senza speranza. Anzi, piace per questo. Lo splatter di Gibson è invece belluino, primordiale, e parla sempre e soltanto di una sola cosa: il transito verso il paradiso, la necessità di un nuovo Adamo, attraverso la via della civilizzazione cristiana. Per questo è imbarazzante, e in alcuni casi repulsivo ideologicamente per il lettore contemporaneo del cinema, che detesta proselitismo e pedagogia. Per questo, però, risulta anche coraggioso, e soprattutto strano, diverso, singolare, unico.
(09/01/2007)
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