giovedì 25 gennaio 2007

L'ASSISTENZA DA NON SMETTERE E CHE CI FA SEMPRE RESTARE UMANI

. «La vita è sempre un bene» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 34), in
qualunque circostanza, anche la malattia inguaribile e degenerativa, gli stati
di ridotta o assente vigilanza e l’impossibilità della comunicazione verbale.
Per questo la cura è comunque un bene verso il quale è chiamata a dirigersi la
volontà deliberata del paziente, dei suoi cari e di chi lo assiste. L’uomo deve
prendersi cura di se stesso e degli altri. Una medicina che smettesse di curare
quando ogni terapia risulta futile sarebbe condannata dalla gente e dalla sua
stessa storia.


L'assistenza da non smettere e che ci fa restare umani
AVVENIRE 24 GENNAIO 2007
Don Roberto Colombo
Le distinzioni non sempre sciolgono una questione de facto o de moribus, ma aiutano la ragione a orientarsi tra diverse soluzioni ed il confronto dei giudizi a diventare più lucido e leale. Nel dibattito sugli stati prolungati di malattia inguaribile e degenerativa e sulle decisioni cliniche, etiche e giuridiche circa l’assistenza sanitaria di questi pazienti, una distinzioni appare pertinente per valutare la qualità dell’atto umano in considerazione: è quella tra interruzione (o non instaurazione) del cosiddetto regime di "accanimento terapeutico" e ricorso alla pratica dell’eutanasia. Si tratta, è opportuno ribadirlo, di una distinzione che riguarda la moralità dell’atto, ciò che è bene e ciò che è male, e non implica – senza ulteriori determinazioni del soggetto agente – il merito di un bene o l’imputabilità di un male. Il male commesso a causa «di un errore di giudizio non colpevole può non essere imputabile alla persona che lo compie, ma anche in tal caso esso non cessa di essere un male». E «il bene non riconosciuto non contribuisce alla crescita morale della persona che lo compie»; ciò non di meno, esso resta oggettivamente un bene (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, n. 63). Oltre alla prevenzione e alla diagnosi, gli atti medici comprendono la terapia e la cura. La distinzione tra le ultime due è clinicamente ed eticamente rilevante. L’oggetto della terapia è il bene particolare della guarigione dalla malattia o, quanto meno, del miglioramento (o non peggioramento) del quadro patologico. Una terapia, per esempio farmacologica o chirurgica, che non abbia come oggetto razionalmente attestabile la possibilità di recupero (parziale o completo) della salute o l’arresto di un processo degenerativo diviene "futile", cioè non è più un bene per la persona malata, e può costituire un male qualora, in determinate circostanze, aggravi le condizioni fisiche, psicologiche o relazionali del paziente. Non iniziare o interrompere delle terapie futili significa evitare i l rischio di un "accanimento terapeutico", cioè un cattivo uso della terapia. Una scelta, dunque, pienamente lecita per il paziente e talora doverosa per il medico, che nulla ha a che vedere con l’eutanasia. L’oggetto della cura è un altro: il bene fondamentale della vita. «La vita è sempre un bene» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 34), in qualunque circostanza, anche la malattia inguaribile e degenerativa, gli stati di ridotta o assente vigilanza e l’impossibilità della comunicazione verbale. Per questo la cura è comunque un bene verso il quale è chiamata a dirigersi la volontà deliberata del paziente, dei suoi cari e di chi lo assiste. L’uomo deve prendersi cura di se stesso e degli altri. Una medicina che smettesse di curare quando ogni terapia risulta futile sarebbe condannata dalla gente e dalla sua stessa storia. Diverse sono le operazioni che la cura sanitaria ordinaria di un paziente non autosufficiente richiede: tra di esse sono essenziali l’idratazione e l’alimentazione (orale, enterale o parenterale), l’evacuazione vescicale e intestinale, l’eventuale assistenza alla funzione polmonare, cardiaca e renale, l’igiene personale ed altre ancora. Non iniziare o sospendere una cura clinicamente indispensabile significa aggravare le condizioni del malato ed anticipare la sua morte: è eutanasia. Una scelta sempre ingiusta, anche se il paziente «lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene» (S. Agostino). Una richiesta di sospensione delle cure, clinicamente necessarie per vivere e proporzionate alle condizioni del paziente, che sorge da un giudizio certo ma erroneo della coscienza del malato, non cancella il profondo rispetto dovuto alla coscienza di ogni uomo, ma lascia immutata la qualificazione dell’eutanasia, che, «qualunque ne siano i motivi e i mezzi», resta «moralmente inaccettabile» (Catechismo della Chiesa Cattoli ca, n. 2277). In ragione della sua oggettiva non ordinabilità al bene della vita, eticamente e giuridicamente fondamentale, tale richiesta non può obbligare la coscienza del medico e del legislatore. Come una dichiarazione anticipata del paziente potrebbe trasformare il medico in un mero esecutore di volontà "testamentarie" che gli imponessero di abbandonare la buona cura che egli è sempre chiamato ad avere verso tutti i malati?

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