Qui sotto riporto una lettera spedita a don Carron scritta da uno psicologo
Ci testimonia come abbracciare Cristo puo' cambiarci nella quotidianita'
don Giussani: non si deve aspettare che cambi il “sistema” per andare incontro all’uomo, bisogna impegnarsi a costruire «brani di società cambiata» che possano testimoniare che una esperienza di unità è possibile.
Questione di metodo
Caro don Julián, sono uno psicologo di 58 anni e seguo l’esperienza del movimento da quando ne avevo 20. Ho lavorato per molti anni nel campo delle tossicodipendenze, poi ho allargato la mia attenzione alle tematiche educative, soprattutto in rapporto al disagio e alla devianza minorile. Fin dall’inizio della mia carriera, come operatore in un servizio per le dipendenze, mi sono accorto di avere come “una marcia in più” rispetto ai miei colleghi. Inizialmente tendevo ad attribuire tutto questo ad un mio particolare talento, che mi faceva affrontare i problemi con speciale creatività. Finché un collega mi ha fatto riflettere osservando che ciò che mi contraddistingueva era l’importanza che davo al “metodo”. Lì ho cominciato a intuire il debito che avevo con don Giussani: da lui avevo imparato - senza saperlo - a guardare ai ragazzi che “si fanno” con uno sguardo diverso, non badando tanto alla droga o al reato che compiono, ma alla ricerca di felicità che esprimono. Da lì sono nate tante sperimentazioni, nel campo della prevenzione e del recupero, guidate dall’idea di sostituire alla semplice “lotta alla droga” l’impegno ad offrire ai ragazzi una via alternativa per rispondere alle loro domande più profonde. Oggi sto seguendo come supervisore un percorso di formazione-ricerca per conto del Dipartimento Giustizia Minorile, presso la sede di Messina della Scuola di formazione per operatori dei minorenni. L’oggetto del lavoro sono i “ragazzi di mafia”, cioè quei minori che sono incorsi in procedimenti penali per reati legati all’ambiente mafioso. Questi adolescenti non hanno alcun rapporto con il loro mondo interno, con i loro sentimenti, desideri, emozioni. Sono stati abituati a censurare la loro domanda fondamentale: chi sono io? Perché sto al mondo? Con gli operatori abbiamo riflettuto a lungo su questo punto: non basta il controllo sociale, non basta l’assistenza: questi ragazzi hanno bisogno di confrontarsi con adulti capaci di suscitare in loro quelle domande sepolte; e capaci di testimoniare loro che la vita ha un senso, e vale la pena di essere vissuta. Impresa durissima per operatori sociali spesso disillusi, molto critici verso le debolezze e le contraddizioni del sistema sociale e abituati a lavorare “da soli”, con scarso senso di appartenenza anche verso il proprio ente. Mi è tornato alla mente quanto ci diceva don Giussani: non si deve aspettare che cambi il “sistema” per andare incontro all’uomo, bisogna impegnarsi a costruire «brani di società cambiata» che possano testimoniare che una esperienza di unità è possibile. Ho visto negli occhi e nelle parole di quegli operatori - abituati a lavorare “in trincea”, con scarso sostegno e aiuto - un rinnovato entusiasmo e una profonda gratitudine. La stessa gratitudine che mi ha manifestato, con parole ancor più esplicite, una allieva del corso di laurea specialistica in servizio sociale (che già lavora come assistente sociale) che alla fine del corso mi ha detto: «Noi siamo abituati a fare assistenza, controllo sociale. Lei ci ha insegnato a vedere in questi ragazzi una domanda di cambiamento con cui fare alleanza. Ci ha restituito la speranza che il nostro lavoro abbia un senso». «Anch’io - le ho risposto - ho avuto un Maestro che mi ha insegnato tutto questo».
Luigi, Bergamo
1 commento:
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