mercoledì 31 gennaio 2007

DON SANTORO

Don Santoro : un anno dopo la Turchia chiede verità
AVVENIRE 31 gennaio 2007
Di Giorgio Paolucci

È passato un anno dalla morte di don Andrea Santoro, il sacerdote italiano assassinato mentre pregava nella sua chiesa di Trabzon. «Una testimonianza esemplare di umanità e di fede, la sua, che ha dato nuovo vigore alla Chiesa in Turchia, anche se c'è un'esigenza di verità da colmare e molte ferite restano ancora aperte - spiega monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico in Anatolia -. Nuovo vigore è arrivato anche dalla visita di Benedetto XVI, che ha contribuito a superare pregiudizi e disinformazione nei confronti del cristianesimo. Ma molto resta ancora da fare perché in questo Paese la libertà di coscienza e i diritti dell'uomo trovino l'accoglienza che meritano in un Paese che ambisce a entrare nell'Unione Europea".
Da più parti sono state notate inquietanti somiglianze tra l'assassinio di don Santoro del 5 febbraio scorso e quello recente del giornalista turco-armeno Hrant Dink. Un gruppo ultranazionalista - le Brigate delle vendetta turca, frazione dei Lupi grigi - ha rivendicato entrambi gli omicidi con una e-mail indirizzata al giornale di Dink, in cui si dice: «Dopo il prete Santoro, abbiamo eliminato un altro nemico della Turchia». Lei che ne pensa?
Non voglio sostituirmi alla magistratura, ma certamente esistono motivi di preoccupazione molto fondati. È significativo il fatto che anche l'assassino di Dink provenisse dalla zona di Trabzon, dove operano gruppi che appartengono all'area del radicalismo nazionalista e islamico. Pochi giorni fa la famiglia del giornalista armeno assassinato ha detto che se fosse stata piena luce sull'omicidio di don Santoro, forse Dink non sarebbe morto. Parole emblematiche, che personalmente condivido. Niente teoremi, per carità, ma è innegabile che c'è chi alimenta sentimenti di odio e di ostilità nei confronti dei cristiani, degli armeni e di chiunque venga ritenuto colpevole di atteggiamenti sbrigativamente definiti come «contrari agli interessi della nazione».
A questo proposito, proprio ieri il premier Erdogan ha dichiarato la volontà di rivedere (ma non di abolire) l'articolo 301 del codice penale, che punisce le «offese all'identità turca», una norma spesso usata per mettere a tacere qualsiasi opposizione.
Sull'argomento c'è una forte pressione dell'opinione pubblica, che chiede maggiore libertà di pensiero e di espressione. Anche la Ue sollecita provvedimenti in questa direzione. Vedremo se saranno cambiamenti sostanziali o di facciata.
La massiccia partecipazione popolare ai funerali di Dink indica che qualcosa si muove anche nella società civile?
Mi hanno colpito quelle scritte «Siamo tutti armeni», e la presenza di tanti musulmani. Segni eloquenti dell'insofferenza che cresce tra la gente comune, del desiderio di una svolta vera. Come pure mi ha colpito la decisione del ministro dell'Interno di rimuovere il prefetto e il capo della polizia di Trabzon, che avevano minimizzato la portata della morte di Dink e i collegamenti degli esecutori con gli ambienti del nazionalismo radicale. Come si vede, siamo in presenza di segnali contrastanti. La grande partecipazione popolare ai funerali evidenzia che la società è nel complesso una pianta sana e capace di reagire - anche pubblicamente - alle minacce portate alla sua coesione. Ma non bisogna sottovalutare che alcune radici della pianta sono malate, c'è il pericolo di un contagio.
Cosa si può fare perché il contagio non si diffonda?
Da parte delle autorità civili è necessaria un'azione più rigorosa perché, oltre a individuare gli esecutori, si risalga agli ambienti dove maturano simili gesti. Ci sono cattivi maestri che educano all'intolleranza e hanno un forte ascendente sui giovani. Da parte delle autorità religiose islamiche serve una condanna più esplicita del fanatismo e di chi usa la religione per giustificare la violenza. La stampa turca ha pubblicato una frase dell'assassino di Dink che è atroce nella sua eloquenza: «Ho fatto la preghiera del venerdì e poi ho colpito».
Che ne pensa dell'esito del processo per la morte di don Santoro, che si è concluso con la condanna a 18 anni anni dell'omicida?
Personalmente sono insoddisfatto e amareggiato. Ritengo che non sia stata fatta luce sul movente e sui mandanti del gesto, attribuito «solo» all'azione di un giovane squilibrato. Il processo si è svolto a porte chiuse perché l'imputato era un minorenne, sappiamo solo ciò che è filtrato attraverso la stampa. Si è in attesa del testo scritto della sentenza, non ancora trasmesso alle competenti autorità italiane, anche per valutare gli eventuali passi da fare in sede giudiziaria. La verità totale non è l'esigenza di una parte, ma un bene per tutta la Turchia.
Qual è la situazione oggi nella chiesetta di Trabzon di cui era parroco don Andrea?
Ora lì c'è un sacerdote polacco, insieme a una famiglia di collaboratori romeni. La vita è piuttosto difficile, i cristiani sono pochi e un po' isolati, ma si continua nel solco tracciato da don Santoro, che ha portato frutti: condivisione della vita quotidiana in semplicità e umiltà, testimonianza e accoglienza di chiunque si avvicina per curiosità o per desiderio di conoscere il cristianesimo.
Quale eredità ha lasciato la visita di Benedetto XVI?
Il clima è più disteso e meno ostile. La stima che ha espresso per il popolo turco, il rispetto per i musulmani e la loro fede, la semplicità e cordialità con cui si è rivolto a loro chiamandoli amici, sono stati determinanti per superare molti dei pregiudizi che circolavano prima del suo arrivo. E anche il comportamento delle autorità ha permesso che la visita non venisse turbata in alcun modo. Mi permetta di aggiungere che ritengo fondamentali le preghiere che da molte parti del mondo hanno accompagnato quel viaggio che si presentava così rischioso: abbiamo ricevuto tante testimonianze di gente che ha affidato quei giorni alla Provvidenza. E credo che… abbia fatto un buon lavoro.
Quali sono le difficoltà principali con cui deve misurarsi la Chiesa?
Scontiamo le conseguenze degli incameramenti di beni fatti dallo Stato: chiese, ospedali, scuole, collegi. Sarebbe opportuna la creazione di una commissione bilaterale che affronti il nodo della restituzione, arrivando a un onorevole compromesso. Il fatto che la Chiesa non ha personalità giuridica rende tutto più difficile. Per questo pochi giorni fa il Papa, ricevendo il nuovo ambasciatore turco presso la Santa Sede, è tornato a chiedere il riconoscimento giuridico della Chiesa. Poi ci sono problemi legati al modo con cui il cristianesimo viene presentato sui libri di testo, e un'ostilità presente in una parte della società, che spesso nasce da ignoranza o da pregiudizi.
Cosa si può fare per superarli?
Anzitutto costruire rapporti di amicizia nella vita quotidiana, nei quali emerga la bellezza della fede cristiana e il desiderio di costruire insieme il futuro della Turchia. Poi, presentare il cristianesimo per ciò che autenticamente è con l'ausilio di mezzi di comunicazione promossi dalla Chiesa. L'anno scorso abbiamo dato vita a un sito Internet e stiamo lavorando alla costruzione di una radio con la quale trasmettere programmi di informazione. La visita del Papa ha modificato anche la posizione dei media turchi, ma dobbiamo ancora fare i conti con letture riduttive e fuorvianti del cristianesimo e della presenza dei cattolici. Bisogna far arrivare la nostra voce nelle case della gente senza che venga filtrata e deformata.
Non teme l'accusa di proselitismo?
Macché proselitismo, ci sta a cuore solo dire chi siamo. Senza secondi fini, ma senza timori reverenziali. E comunque la Turchia deve accettare di misurarsi con la sfida della libertà religiosa: è un passaggio necessario per continuare il cammino verso l'Europa.
Un cammino, quello verso la Ue, che appare ancora lungo e in salita…
Episodi come l'assassinio di don Santoro o del giornalista Dink testimoniano che c'è chi si oppone al processo di avvicinamento all'Unione Europea in nome di una malintesa difesa dell'identità turco-islamica della nazione. Noi riteniamo che la Ue debba essere esigente ma non chiusa rispetto all'ingresso di Ankara. Gli aspetti economici delle trattative in corso non sono tutto. Devono arrivare segnali più forti nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa e di pensiero. Insomma, credo che ci voglia un «sì» con molti «ma».

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