Gli indigeni che non amavano
i sacrifici umani accolsero Cortes come un liberatore. E lo aiutarono
Francesco Agnoli
IL FOGLIO 18 gennaio 2007
Il nuovo film di Mel Gibson, “Apocalypto”,
ha un grande merito: infrangere il mito illuminista
del buon selvaggio e il mito storiografico,
anticattolico, degli spagnoli sempre
e immancabilmente cattivi e crudeli. No, le
cose non stanno così, e Gibson lo ha mostrato
con un film che rende visibile, tangibile,
la crudeltà di civiltà precristiane come
Maya, Aztechi e Incas. Si è detto che si tratta
di un film violento. E’ vero, ma molto moderatamente,
almeno rispetto alla realtà
storica. Infatti nel film si vedono i sacerdoti
precolombiani che strappano il cuore di
tre prigionieri, al fine di propiziarsi gli dei.
In realtà le cifre sono incredibilmente più
grandi: per l’inaugurazione del tempio
Mayor, infatti, il re azteco Ahuitzotl fece sacrificare
da venti a ottantamila prigionieri,
mentre il suo successore, Montezuma, ne
immolò dodicimila in una sola volta. “L’idea
della morte come fonte della vita – scrive lo
storico Franco Marenco – sembra costituire
la base del sistema religioso azteco: se il
mondo ebbe vita da un atto di immolazione,
per mantenerlo in vita era necessario ripetere
questo atto, cioè immolare vittime al
sole perché non si spegnesse, e ad ogni altro
dio perché non cessasse la sua funzione…
a insanguinare ogni giorno i gradini
degli enormi templi piramidali era quest’ansia
ossessionante di non lasciar finire
il mondo, un’ansia che raggiungeva il suo
frenetico culmine ogni cinquantadue anni,
quando la minaccia della catastrofe si faceva
più concreta e imminente…”. Tutti gli dei
del variopinto pantheon precolombiano vogliono
sacrifici: li vogliono il mare e il sole,
la pioggia e il fuoco, e i popoli dominatori li
devono procurare, attraverso continue guerre
contro i popoli confinanti. Per questo le
società precolombiane sono perennemente
in conflitto, per placare i loro idoli di sangue:
la dea Tlatecuhtli, ad esempio, è una
divinità tellurica ed infera rappresentata
con un “gonnellino adorno di crani e ossa
incrociate, la lingua sfrangiata che fuoriesce
dalla bocca ghignante, mani e piedi hanno
forma di rapace, piccoli teschi marcano
gomiti e ginocchia, lacci e conchiglie segnano
le spalle, mentre dai capelli emergono
pezzi di carta simboli del sacrificio” (Corriere
della Sera, 23.11.2006). Quando i conquistadores spagnoli di Cortes, appena cinquecento e otto uomini male armati, sbarcano
in territorio azteco, osservano stupiti i grandi
templi di pietra coperti di cadaveri, di
braccia e di gambe squartati, di sangue raggrumato
e di mostri infernali; vedono sacerdoti
con maschere orribili, i capelli impiastricciati
di sangue e di terra, che strappano
il cuore a uomini e bambini, e che celebrano
pasti cannibalici; osservano atterriti
“grandi rastrelliere coperte di teschi”, depositi
di cadaveri, prigionieri legati a pietre
circolari, colpiti con mazze di ossidiana e offerti
al Sole (Luigi Lunari, “Cortes”, Rizzoli,
Milano 2000; G.C. Vailiant, “La civiltà Azteca”,
Einaudi, Torino, 1992).
Carnagione chiara, lunghi i capelli e la barba
A costoro, come racconta Pietro Citati,
Cortes “raccontò confusamente la creazione
del mondo, l’incarnazione e la morte di Cristo;
gli chiese di abbandonare gli idoli, di erigere
in cima al tempio di Huitzilopochtli un
altare con un’immagine della Madonna”. Ma
gli Aztechi e l’imperatore Montezuma non
accettano: molte città, invece, iniziano a vedere
negli spagnoli dei liberatori, coloro che
possono finalmente abbattere il terribile dominio
azteco su di loro e sui popoli vicini e
sottomessi. Solo così, con l’aiuto fornito a
Cortes da migliaia e migliaia di guerrieri indigeni,
si può spiegare, storicamente, la vittoria
di un manipolo di uomini, in un immenso
territorio sconosciuto, contro un impero
forte e bellicoso. Ma c’è, accanto a questa
spiegazione razionale, un altro perché, che
in parte ci sfugge, e che permette, al credente,
di intravedere un disegno divino: Montezuma
è convinto, secondo una tradizione antica,
che il 1519, proprio l’anno in cui Cortes
ha toccato la terra ferma americana, sia l’anno
“della Canna”, il primo del secolo nel calendario
azteco; l’anno stabilito da secoli, secondo
le profezie indigene, per il ritorno del
dio Quetzalcoatl, il Serpente Piumato, l’unico
dio che non vuole sacrifici umani, scacciato
nel passato dagli altri dei. Secondo il mito
Quetzacoatl ha la “carnagione chiara, lunghi
i capelli e lunga la barba”: Cortes si presenta
proprio così, con la pelle chiara, così diversa
da quella degli indigeni, e fieramente
disgustato dai sacrifici umani e dal cannibalismo.
Per moltissimi indigeni sarà veramente
il salvatore (B. Diaz del Castillo, “La conquista
del Messico”, Longanesi, a cura di F.
Marenco e P. Citati)
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