ROMA, domenica, 14 gennaio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
“Nel 1978 ci fu il caso Quinlan, che verteva sul distacco del respiratore e aprì la strada al cosiddetto 'diritto di morire'. Il concetto di autonomia del paziente non può essere usato per dare una vernice di rispettabilità al dovere di morire”.
Queste parole sono state pronunciate dal giornalista americano Wesley J. Smith, intervistato sulla morte di Piergiorgio Welby, come riportato dal “Foglio” in un articolo di Giulio Meotti (G. Meotti, Quando sentite parlare di qualità e di dignità della vita, allontanatevi, “Il Foglio”, 23/12/2006). Smith, che aveva testimoniato nel caso Terry Schiavo a favore del mantenimento in vita della donna, osserva come la dottrina della “qualità della vita” stia diventando una sorta di “nuova religione”, improntata ad uno stravolgimento del concetto stesso di umanità (il transumanesimo) e viziata da un profondo pregiudizio ideologico: in virtù di una fraintesa nozione di uguaglianza, infatti, per la quale si dovrebbe offrire a ciascuno il diritto di scegliere i tempie i modi della propria morte, si giustifica l’ingiusta discriminazione fra persone e “non persone”, cioè fra vite degne e vite “non degne di essere vissute”.Secondo tale prospettiva, afferma Smith, “non persone sarebbero gli embrioni e i feti, alcuni bioeticisti dicono anche alcuni nuovi nati, Terri Schiavo e Ronald Reagan durante le fasi finali dell'Alzheimer. Il vero problema è una visione asfissiante di ciò che ci rende umani e può portarci nell'abisso, un mondo puramente materialistico e darwinistico dove il forse diventa il giusto”.
Così, nell’attuale dibattito sulla fine della vita, un caso clinico e umano specifico diviene lo strumento attraverso cui attivare una campagna pervasiva e sottile a favore dell’eutanasia, una campagna a cui non giovano i commenti della stampa straniera, talora a causa di una comprensione non piena della situazione, talora per la mentalità già fortemente influenzata dal fronte pro-eutanasico nei rispettivi paesi.
La morte di Piergiorgio Welby ha addolorato tutti, e ha accresciuto enormemente i dubbi e le domande sul ruolo del medico, sull’autonomia del paziente, sui suoi diritti, sui suoi doveri. Il fatto è tanto più doloroso in quanto proprio mentre si decideva la fine di Welby, il mondo medico – e con lui quello culturale e politico – stava compiendo interessanti tentativi per rivedere l’impostazione con cui il “caso” era stato costruito, presentato, commentato. In particolare, si stava cercando di dare un parere medico, ragionato e autorevole, che cercasse finalmente di tenere in considerazione tutti i fattori in gioco, e non soltanto quelli messi in evidenza da una certa propaganda.
Ne stava emergendo un quadro interessante, che destava sospetti sull’adeguatezza dell’assistenza medico-sanitaria e psicologico-relazionale ricevuta da Piergiorgio Welby, e che poneva l’attenzione sul ruolo del medico nelle inquietanti richieste di eutanasia, rompendo così la lunga catena di discorsi basati pressoché esclusivamente sull’autodeterminazione – assoluta – del paziente, e rimettendo al centro l’inevitabile responsabilità del medico e la natura dell’atto medico nella questione dell’eutanasia.
Tre sembrano essere i punti su cui fermare l’attenzione per cogliere la problematicità del dibattito nel dopo-Welby. Il primo punto
è la libertà di rifiutare la terapia. Molti hanno affermato che il caso Welby non riguardava affatto l’eutanasia, ma semplicemente il sacrosanto diritto dei pazienti di rifiutare un trattamento sanitario, pretendendone la sospensione quando ritenuto “troppo gravoso”. Tale diritto va inteso tuttavia correttamente: è vero che non è lecito imporre un trattamento sanitario ad un paziente, esclusi i casi specificati per legge, ma non è parimenti lecito sospendere un trattamento sanitario già iniziato, efficace – cioè non sproporzionato in relazione agli obiettivi specifici per cui è stato intrapreso – e la cui interruzione equivale a procurare la morte. Un medico, infatti, non può agire in modo da provocare direttamente la morte, sia pure come mezzo per ottenere uno scopo buono, come eliminare il dolore.
Dunque, è assolutamente fondamentale valutare il significato della richiesta di sospensione del trattamento da parte del paziente. Se è effettivamente la richiesta di interruzione di un trattamento non più tollerato in quanto non (più) proporzionato alle condizioni del malato, si tratterà di rifiuto dell’accanimento terapeutico, che doverosamente ogni medico sosterrà. Se si tratta invece di una richiesta di morte per mezzo della sospensione di un trattamento dovuto – a volte nemmeno di una terapia, come nel caso dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali – allora il medico semplicemente non potrà eseguire la richiesta, perché ciò coinvolgerebbe il suo intervento in un atto occisivo e non curativo, e dunque nell’esecuzione di un atto non medico di grave portata per il paziente e in generale per il significato dell’assistenza sanitaria.
Anche il rifiuto previo di una terapia da parte di un paziente potrebbe invero indicare una volontà suicidaria, e tuttavia la situazione è alquanto differente, dal momento che – in questo caso – non si tratta di intervenire per assecondare la volontà suicidaria del paziente, ma dell’impossibilità di intervenire in suo favore, pur avendone l’intenzione e avendo cercato con forza di persuaderlo in tal senso (C. Navarini, Quando sospendere la terapia è un atto eutanasico? , ZENIT, 29 ottobre 2006).
Che è quanto dire: mentre il paziente capace di intendere e di volere – di cui una valutazione specifica abbia dimostrato la totale lucidità – ha sempre la possibilità di rifiutare preventivamente un trattamento sanitario, anche se ciò gli procurasse un danno e al limite anche se ciò avvenisse per esplicita volontà di morire, lo stesso paziente non ha il diritto di chiedere ad un medico di dargli la morte, né in modo attivo (somministrazione di un farmaco letale) né in modo passivo (sospensione di un trattamento necessario alla vita). Azione e omissione, in altre parole, sono entrambi modi con cui si può infliggere direttamente e intenzionalmente la morte di una persona, diversamente da quanto avviene quando, ad esempio con la somministrazione di analgesici o con il rifiuto di un trattamento sproporzionato, si causa indirettamente l’anticipazione della morte. In tali casi, infatti, la morte non è ricercata come mezzo né come fine, ma è la conseguenza non voluta – anche se talora prevedibile – di un atto teso alla cura del paziente.
Si arriva così al secondo decisivo punto di attenzione:
l’uso distorto dell’accanimento terapeutico. Gran parte delle discussioni dell’ora presente, in Italia, riguardano proprio questo tema. Ci si chiede affannosamente se la morte di Piergiorgio Welby sia avvenuta per legittimo rifiuto dell’accanimento terapeutico o per eutanasia passiva (qualcuno ipotizza perfino che possa essere stata attiva). In questo senso, non sono poche le voci che, a livello nazionale e internazionale e anche in ambito cattolico, affermano che il caso sia del tutto a-problematico dal punto di vista etico, e che sia stato enfatizzato dai mezzi di comunicazione, scatenando il dibattito sull’eutanasia a partire da un evento che con l’eutanasia non ha in sé nulla a che vedere.
Eppure non si può non notare che Welby è stato un uomo politico, oltre ad un uomo sofferente e malato, e che ripetutamente si è espresso a favore dell’eutanasia, al punto da saldare strettamente la sua richiesta di morire all’eutanasia, e non al rifiuto dell’accanimento terapeutico. In effetti, il fondamentale elemento discriminante per distinguere l’accanimento terapeutico dalle cure dovute è, come già ricordato, la valutazione medica dell’inefficacia di una terapia o di un trattamento sanitario in relazione agli obiettivi specifici per cui viene intrapreso, in un paziente che si trova nell’imminenza della morte. Non è quindi mai un giudizio sul valore di una vita – o sulla “qualità di vita” – né la valutazione soggettiva di un paziente che “non vuole più vivere a determinate condizioni” (C. Navarini, Né accanimento né eutanasia, Zenit. Servizio giornaliero,10 dicembre 2006, http://www.zenit.org/italian/visualizza.php?sid=10043). Al limite, il medico potrà tenere conto della volontà del paziente rispetto al trattamento in questione, per valutare meglio una situazione di accanimento terapeutico. È noto, infatti, che l’avversione alla terapia da parte di un paziente ne può diminuire o addirittura vanificare i benefici.
Esaminando le dichiarazioni effettuate per anni da Welby, e in particolare la famosa lettera al presidente della repubblica, non pare che il paziente avesse avanzato obiezioni specifiche su una terapia o su un trattamento, ad esempio sul respiratore il cui distacco gli ha procurato la morte, ma che avesse chiesto la morte tout court, e che la sospensione della terapia fosse precisamente un mezzo per ottenere la morte. Dunque, nel caso Welby, posto che il respiratore non costituiva una forma di accanimento terapeutico (come indicato dal Consiglio Superiore di Sanità il giorno prima della morte), il distacco del dispositivo poteva avere unicamente la valenza di eutanasia, e dunque di abuso da parte del medico che ha eseguito l’azione.
Ma c’è di più. L’ipotesi che il caso Welby rientri nell’accanimento terapeutico sta producendo un altro pernicioso doppio tranello in cui troppi - particolarmente tra quanti paiono disposti a battersi contro l’eutanasia - rischiano di cadere: quello di invocare una regolamentazione che impedisca per legge tale pratica, difendendo i pazienti dall’invadenza dei medici e della medicina, e più in generale di spostare il dibattito dalla natura antiumana, irragionevole dell’eutanasia e dalla ancora diffusa ostilità dell’opinione pubblica ad essa, alla questione dell’accanimento terapeutico, come se i due problemi fossero quantitativamente e qualitativamente sullo stesso piano. Occorrerà tornare su questo punto cruciale. Spostando astutamente l’attenzione dalla soppressione/suicidio dei malati all’allarme sull’accanimento, si produce l’indebolimento dell’opposizione all’eutanasia sulla base del timore di favorire crudeli “accanimenti terapeutici”. Il tutto accompagnato da un martellamento mediatico su casi pietosi e dalla progressiva confusione su cosa effettivamente costituisca “accanimento terapeutico”.
In attesa di ottenere l’abbassamento della soglia di resistenza dell’opinione pubblica e degli attori istituzionali e culturali, si insisterà nel chiedere non l’eutanasia – parola ancora sospetta – ma la “cessazione dell’accanimento terapeutico”. E così, cedendo sulla pretesa “necessità” di “una qualche regolamentazione” dell’accanimento, si regala ai fautori dell’eutanasia dapprima la voluta confusione sull’accanimento stesso e poi, fatalmente, una legge sull’eutanasia, magari preparata giuridicamente dai testamenti biologici e i loro immancabili “paletti severissimi”, ovvero quei limiti che, presentati come garanzie, indicano solo quale sarà il primo passo della successiva mossa propagandistica e legislativa.
L’approccio legalistico sull’accanimento terapeutico - oltre al suo ruolo nella strategia eutanasica - contribuisce a scavare fra medico a paziente un solco profondo, che ha oramai pressoché distrutto l’alleanza terapeutica e il rapporto fiduciario su cui si fonda ab origine la stessa medicina. Sarebbe invece opportuno ridimensionare la questione dell’accanimento terapeutico, precisando che tale accanimento – quello vero – non rappresenta il “grande pericolo” dell’assistenza sanitaria, non è così frequentemente praticato come si vuol far credere, rappresenta un errore che i medici sanno evitare e, dunque, non vi è alcun bisogno di una legge che difenda in tale senso i pazienti.
Quale legge, infatti, può tutelare i pazienti da un errore medico? Da una parte, l’errore colpevole è come tale già vietato dalla legge e dalla deontologia; dall’altra, non si potrà mai impedire del tutto che, nell’esercizio della sua professione, un medico sbagli la sua valutazione e le scelte terapeutiche che, come è ovvio, sono sempre effettuate in situazioni specifiche, sfuggendo alle generalizzazioni e all’astrattezza della norma. In definitiva, quel che serve per denunciare i casi di vero accanimento terapeutico esiste già, mentre la formula magica della perfezione diagnostica, terapeutica e assistenziale non esisterà mai.
Occorre piuttosto ristabilire la fiducia del paziente per il medico, a partire dalla banale ma indubitabile constatazione che la stragrande maggioranza di questi pratica la medicina con onestà e coscienza, ricercando in ogni situazione il bene del paziente e portando avanti con fedeltà la sua missione di servire la vita debole e malata.
Ecco perché è necessario evidenziare l’ultimo punto di attenzione, ovvero l’inutilità e anzi la dannosità di un riconoscimento legale ai cosiddetti “testamenti di vita”, che vincolerebbe l’azione del medico anche contro la sua professionalità, trasformandolo in un mero esecutore della volontà del paziente e che bloccherebbe la libertà del malato in uno scenario ipotetico di impossibile determinazione in una situazione anticipata (M.L. Di Pietro, Tra testamenti di vita e direttive anticipate: considerazioni bioetiche, AA.VV., Né accanimento né eutanasia, I Quaderni di Scienza e Vita, 1, dicembre 2006, pp. 79-87).
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