domenica 21 gennaio 2007

NON ABBIATE PAURA.BUON APOCALYPTO

Non abbiate paura
Vi hanno detto che è sanguinario. Che Mel Gibson è un selvaggio
da censurare. Che è solo l'epica di un Rambo mesoamericano.
Mentono. I maya al tramonto sono loro. Buon Apocalypto, ragazzi

di Amicone Luigi

Tempi num.3 del 18/01/2007





Non abbiate paura. Portateci i ragazzi, e se non vi fanno entrare perché Francesco Rutelli ha ottenuto il divieto dal Tar e Nando Della Chiesa ha chiesto un mandato di arresto all'Interpol, fate come facevamo noi ai concerti dei Santana negli anni Settanta: sfondate e godetevi un kolossal di quelli che non se ne vede uno in giro dai tempi di Ben Hur. Violenza? Sì, i molti che lo hanno visto lo sanno già, dato che da due settimane Mel Gibson ha di nuovo compiuto il miracolo di sbancare il botteghino nonostante i bancali che gli hanno tirato giù dai piani alti le élite. Sì, Apocalypto è tutto sangue che cola. Ma sangue sano. Mica quello malato dei clericali politicamente corretti che ingaggiano nelle redazioni quando hanno bisogno di paraventi religiosi. Pensate. Il Guardian, quello che passa come la quintessenza della sofisticazione laica e di sinistra europea, ha preso una rabbia così marcia che per una settimana ha riunito in conclave preti e teologi per dimostrare che il tempio maya è in realtà una sinagoga e che dietro la metafora della giungla c'è l'ossessione antisemita. Pensate, il Village Voice, la bibbia del fricchettone newyorkese che una volta ha fatto il '68 e adesso sostiene la rivoluzione eutanasica, con Apocalypto trova che, seriamente, «Gibson è responsabile di tutte le guerre del mondo». Addirittura. Pensate, il Corriere della Sera, se il protagonista di un Almodóvar si ingroppa un asino: 'dio che genio!', ma se il genio visionario fa splendere il sole sui buoni e sui cattivi, invece: 'dio che selvaggio!'.

Non abbiate paura. Prendetevi un Caronte e traghettate tranquilli le vostre anime nella fantastica giungla dei padri. Dove la sottile brezza annuncia l'ascia che sibila e il tamburo della foresta la lebbra. E poi il giaguaro, la scimmia, la rana gialla, il calabrone, l'aspide assassina. Non c'è sangue cattivo, non c'è discesa agli inferi mentali dei nostri molli poeti europei, non c'è la mediocrità della letteratura delle minoranze oppresse, l'enfisema decostruttivista, l'immunodeficienza delle scienze malaticcie del XX secolo. C'è il nitore fisico sgargiante del secolo nuovo. C'è il principio di un inizio. L'inizio che è sempre avvenimento, l'unico fenomeno che conti in questo mondo. Dunque il più scantonato, il più censurato, il più silenziato, l'unico che l'intellettuale postmoderno, così libero di trasformarsi nel suo cervello da uomo in donna, da citoplasma in sega mentale, dice: «è tabù». E poi si sguinzaglia a sbirro, fabbrica la sua stroncatura da onesto ideologo che non ha nemmeno più bisogno dell'Lsd per vedere quello che non c'è in un film-avvenimento che c'è. Ma non dicevano che la pornografia e l'horror fanno bene perché privi di significato, però rilassano? Il sensato, l'imprevisto e l'intrepido, invece, fanno pensare e perciò. che fanno? Ah, offendono. Violentano l'odierno senso ecumenico del pudore che ha come sue pietre angolari il bon ton politico alla Ken Loach e il sex&thanatos dei cinerinfreschi di Venezia, Cannes e Berlino. Non abbiate paura. Non ce ne sono oggi in giro di storie cinematografiche come questa che tengano incollati gli occhi allo schermo per due ore e venti, con dialoghi che sfiorano il film muto e una lingua sepolta nell'archeologia. Siete nella foresta anche voi. Di questo a un bel tratto vi accorgerete. Vi accorgerete che il falso sta fuori, non dentro un film la cui verità sovrasta lo spettatore come una cascata d'acqua fresca e chiara. E vi ci tufferete anche voi in quella cascata spumeggiante buona energia. Intuendo ben presto che, nonostante tutto quello che hanno scritto per convincervi a stare alla larga da questo film, semmai di falso sono piene le parole e le immagini ovattate nel lusso inutile, stremato, anestetizzato, vuoi della trasgressione un tanto al chilo, vuoi del moralisteggiare bolso e quello sì, assassino, tutte le volte che promettono di guarire il male del mondo con le buone e belle bandiere. Giù dal fico delle utopie, giù dal sogno che la guerra è l'invenzione di qualcheduno cattivo, mentre prima e dopo le cristianità, prima e dopo le Americhe, prima e dopo i Bush, gli uomini sono e saranno per natura buoni e socievoli. Giù dai rami del minculpop dove i nuovi maya urlano di non capire perché la storia si nomini prima e dopo Cristo, prima e dopo il principio che il vincolo di sangue e di tribù è tutto (per cui anche in guerra non si fanno prigionieri, e se si fanno è per ridurli in schiavitù o per rivenderli come schiavi). Prima e dopo quel Cristo di cui uno che non era per niente beghino, uno come Oscar Wilde, dice che «Egli non insegna niente a nessuno, ma basta essere condotti alla sua presenza per diventare qualcuno, e alla sua presenza noi tutti siamo destinati». Prima e dopo quell'uomo della Croce, l'Uomo per cui 2007 anni dopo si dovrebbe ancora sapere - ma certo non fa comodo che lo si sappia più con certezza in giro - che l'uomo non vive di solo pane e carne e nervi, buoni per cavarci sangue sugli altari di una civiltà precolombiana, di una razza ariana, di una classe proletaria, di un laboratorio di genetica. D'accordo, al benpensante disturba l'evidenza suadente, carnale, laica, che la sua orgia di sofismi e retorica finisca in fumo e cenere davanti all'avvenimento di un'opera d'arte. Ma succede, è giusto che succeda così. Pietra canta e ogni tanto è così calda, la pietra, che la nebbia postmoderna viene spazzata via dal genio di un Dante. O quasi. Non abbiate paura. Vedrete una lunga fila di prigionieri condotti al giogo barbaramente, vedrete la crudeltà normale dei barbari, vedrete le normali teste mozzate di un'epopea barbarica. Vedrete come fanno compassione le nostre rovine su cui brilla la gelatina dell'erba voglio e come fanno pena tutte le nostre insegne pubblicitarie su cui sta scritto a caratteri arcobaleno: 'scusate, qui è tutto chiuso, ripassate domani, un altro mondo è possibile'. E in controluce forse qualcuno vedrà anche l'effetto che fa (a una civiltà) il non riconoscere la barbarie.

Non abbiate paura. Se la fede non c'è, uno se la deve dare. Perché non c'è niente di più ragionevole, giusto, naturale, nel cominciare l'avventura della vita, che mettere il piede dove l'ha messo tuo padre (che può non essere quello biologico). E quando dicono, come dicono e scrivono, che tuo padre non c'è, che è una scimmia, che è un cane, che è un personaggio strano, che è un fallito di cristiano, tu non credere all'imperatore, anche se l'imperatore si chiama Società anche se il suo nome è Diritti, anche se si chiama Stato, anche se il suo nome è Amore. Credi sempre in tuo padre, perché non c'è nulla che ti appartenga come l'appartenere a colui che introduce (educa!) al mistero della vita e della morte. Mentre di questo mondo devi anche capire che, se stai a quello che scrivono i giornali e non a quello che ti dice la struttura genetica elementare del cuore, ti può capitare di venire a sapere che hai partecipato a un concorso indetto per trovare il tuo sosia e che sei arrivato solo terzo perché (come scrive il critico del Corriere della Sera a proposito di Apocalypto), tu sei «zeppo di errori» e sei «un selvaggio».

Non abbiate paura. Alla radio ne sentirete delle belle da uno che aveva una sputacchiera che si chiamava Golem e adesso sbraca la sua logorrea radiofonica su un canale di Confindustria. Calcheranno il fatto che disturba un po' l'osteopatico quel cranio che fa crac come una patatina Pai sotto la mascella del giaguaro. D'accordo, ogni misura onomatopeica è colma in questa divina commedia che dà la birra all'arte del XXI secolo. Ma, vuoi mettere il digitale Genesis-Panavision di Mel con i video paccottiglia dei musei di Londra? O i bozzetti michelangioleschi con i pupazzetti di Cattelan? Vuoi mettere l'arte visuale dei moderni Taide dalle unghie merdose con le mani di un mago della cinepresa immerse in una grande storia umana? Invece, qui, solo unghie inzuppate di sangue. Solo offerte al dio sole e a madre terra. Solo cuori e fegato strappati nel tripudio della folla e il delirio d'onnipotenza dell'imperatore (niente di nuovo, tutto già storicamente accertato, però che delicatezza un film che te ne dà percezione fisica). Ah! che liete mollezze, ah! che concubine, ah! che sfarzi e che libertà annoiate. Un po' come noi, fuggitivi da noi stessi, ma gai e orgogliosi, urlanti e inebriati dalle moderne parate del diavolo. Ahinoi, così simili a quelle delle civiltà precolombiane. Adesso i funzionari pagati dall'Onu per celebrare la piallatura di ogni differenza, dovranno vedere un po' se in Apocalypto non è stato violato un qualche comandamento multiculturale. Ma c'è poco da fare, ormai il danno è fatto. Anche noi - riconosceranno gli spettatori più avvertiti - abbiamo donne e figli da salvare in questa foresta pluviale che è il mondo, e grandi scherzi da farci tra compagni. Loro, non hanno altro che marcette, maschere e grandi pippe da farsi nei salottini della correttezza dove ognuno è nemico a sé.

Non abbiate paura. Inseguite re Gibson nella foresta con le vostre carte, i vostri tribunali, i vostri funzionari altermondialisti. Non preoccupatevi, uno per uno vi soccorrerà il destino. Voi che vorreste come il comandante maya scorticarlo vivo e farvi guardare dal numero uno del grande cinema mentre vi vestite della sua pelle, scoprirete a vostro scorno cosa vuol dire inciampare nella foresta dove anche il tapiro corre veloce. Di colpo, siete diventati lenti, lentissimi, con le vostre fiction didascaliche e ideologiche, da prete e da killer, da poliziotti e da cani poliziotto: vi si scioglieranno come cacchette di gallina in bocca le lezioni di morale, il televisore al plasma vi sembrerà un rettangolo obsoleto e Stephen King una garzantina per vecchi babbi. Qui non c'è né Dolce né Gabbana, né donna-capra, né sifilitico in jeans. Qui l'azione mozza il fiato, l'odore della morte è sano, la bellezza abbacinante, e il Guardian un giornale che non è buono nemmeno per incartarci un quarto di bue. Buon Apocalypto, ragazzi.






La preghiera di quei visi feroci

di Corradi Marina

Tempi num.3 del 18/01/2007


I selvaggi di Apocalypto hanno facce terribili e bellissime. Perché sono bestie, infangati, feroci nella caccia e avvolti di notte dal riverbero rosso delle fiamme dei fuochi. Ma in quei loro occhi neri è limpidamente leggibile l'ansia di vivere, e l'orrore della morte; la paura, quando un fruscìo avverte del nemico in agguato, e la preghiera, quando l'oscurità li sovrasta e li ingoia. Assolutamente uomini gli indios nella trepida tenerezza delle madri, e negli sguardi sbalorditi dei figli. Negli occhi di vittime e inseguiti riconosci lo stesso terrore di prede degli ebrei nei lager; nella arroganza sadica dei capi maya, come nella spietata disciplina delle loro milizie, avverti la profezia di altri Poteri in attesa di sorgere, secoli dopo. Gli uomini, sono sempre uguali, dice Gibson nelle facce di Apocalypto, e sempre ugualmente feroci (come già aveva detto in The Passion, degli ebrei quanto dei romani). Eppure sempre tendenti a ricominciare, a cercare un luogo in pace in cui crescere i propri figli: a vivere. Che, di nuovo, verranno al mondo con occhi spalancati, nella domanda implorante di una possibile felicità.
Ci sarebbe piaciuta, nell'ultima inquadratura, un primo piano dei conquistadores, in cui ci si facesse riconoscere anche nei loro volti la stessa ansia, e la stessa ferocia. Già, sempre uguali, gli uomini, nella foresta come in una tranquilla cittadina brianzola. Ed eterne le loro preghiere, come l'invocazione della india prigioniera a una "madre" buona, che dal cielo protegga i suoi figli.


Qualcosa da dire e che fa pensare

di Israel Giorgio
Tempi num.3 del 18/01/2007


Plana una grande ipocrisia sul film di Gibson. Certo, il nostro ha una propensione smodata per il sangue e le interiora, che non è indispensabile all'efficacia espressiva. Tuttavia, circola senza restrizioni una cinematografia molto più violenta, che ha come oggetto la violenza di per sé - puro "splatter" - senza che alcuno protesti. È indubbio che Gibson desti pregiudizi perché è decisamente reazionario e antipatico, oltre che antisemita. Personalmente trovo detestabile lui e la sua ideologia, ma non per questo nego che sia un artista di valore, che ha qualcosa da dire e che fa pensare.
Secondo me, Apocalypto è un film discreto, decisamente migliore di The Passion, basato su una storia avvincente e ben girato, malgrado toni fumettistici ed esasperate lentezze. Certo, quando si parte con un'epigrafe ambiziosa - «Una grande civiltà non viene conquistata dall'esterno fino a che non si è distrutta da sé dall'interno» - bisogna saperla illustrare, altrimenti ci si espone a critiche pesanti. In effetti, nel film questa illustrazione non si trova e si resta a bocca asciutta: tanto più asciutta quanto l'allusione allo stato lamentevole dell'Occidente è intrigante. Ma l'illustrazione di tale stato la danno quei lamentevoli antropologi "postcoloniali" che accusano Gibson di razzismo per aver dato un'immagine negativa di una civiltà di "native Americans", una dizione che non sarebbe esilarante solo se "American" fosse un termine "nativo". Ormai, se non si parla bene di tutti, salvo che dell'Occidente, non si può nemmeno aprire bocca.


Gli spagnoli? Liberarono i maya

Tempi num.3 del 18/01/2007

di Persico Roberto

Henry Kamen, storico americano così innamorato della Spagna da essersi stabilito a Barcellona, è uno dei maggiori specialisti della storia del paese iberico nell'età moderna. Una decina d'anni fa fece scalpore nel mondo accademico un suo saggio sull'Inquisizione spagnola, in cui con grande sincerità ammetteva che i suoi primi studi sull'argomento erano viziati da un pregiudizio che non aveva poi retto alla prova dei fatti, e ridisegnava un'immagine del tribunale ecclesiastico molto più equilibrata e "garantista" di quel che vuole la leggenda nera. Nell'ultimo libro, da poco tradotto in Italia da Utet, Il duca d'Alba, tratteggia il profilo di quello che fu chiamato il «macellaio delle Fiandre» per la durezza con cui represse le ribellioni protestanti senza sconti ma anche senza eccessi, cercando di comprendere le ragioni per cui un uomo amante della pace e dell'ordine può trasformarsi in uno spietato carnefice, quando un ideale si trasforma in cieca ideologia.
Ma l'opera in cui sintetizza le sue ricerche è Empire (2003), ricostruzione dell'epopea della Spagna imperiale, dove si domanda come un popolo relativamente piccolo, povero e marginale sia riuscito a conquistare un impero "su cui non tramonta mai il sole". E scopre che la chiave del successo spagnolo fu la capacità di coinvolgere le forze più dinamiche dell'epoca, dai banchieri genovesi ai tecnici tedeschi ai commercianti olandesi, in un progetto di respiro universale. Aperto anche ai popoli del "Nuovo mondo": «Gli spagnoli non hanno conquistato l'impero azteco e quello inca per la propria superiorità militare, o perché questi fossero già corrotti - conferma a Tempi - ma perché vennero appoggiati dalla maggioranza delle popolazioni autoctone, che videro nel loro arrivo la possibilità di sottrarsi a una dura tirannia-


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