- IL FOGLIO - MORATORIA VENERDÌ 18 GENNAIO 2008
Un racconto di Aldo Maria Valli
Permettete che mi presenti. Mi chiamo… Già, come mi chiamo?A dire il vero non lo so. Qualcuno mi chiama embrione, qualcuno feto, qualcuno prodotto del concepimento (che razza di nome!),qualcuno bambino. Potessi scegliere, sceglierei bambino.
Ricordo bene che la mia mamma mi chiamava così, “il mio bambino”,quando ancora stavo dentro di lei.Povera mamma, quanto ha sofferto. Ero il suo figlio numero tre.
Lei mi voleva, mi sentiva suo.
Poi però rimase senza lavoro, con
due figli da sfamare e un marito, mio padre, che c’era e non c’era,
che c’era quando non doveva esserci e non c’era quando avevamo
bisogno di lui. Un disastro. La mia mamma si spaventò, andò in
panico. E rimase tremendamente sola. In quelle condizioni, decise
di rinunciare a me. La capisco e non l’ho mai condannata.
Però il fatto di capirla non elimina un altro fatto piuttosto evidente,
e cioè che io sono stato soppresso. Espulso, anzi triturato e
poi espulso. Non una bella fine, credetemi. Una fine che ha pesato
e continua a pesare sulla mia povera mamma, che da allora
non si è data pace. Magari non lo dice, ma io lo so: lei si è pentita
di non avermi tenuto.
Ci sono donne che vogliono fare di tutto per essere simili agli
uomini, e pensano che poter decidere se avere o meno un figlio
sia un modo per avvicinarsi alla condizione degli uomini. Che illusione.
Mi basta pensare alla mia mamma per rendermi conto
che le donne vanno bene così come sono, cioè donne, cioè ben diverse
dagli uomini. Le donne hanno qualcosa di più degli uomini,
non di meno. Le donne hanno la maternità, hanno la possibilità
di diventare mamme e di dare la vita. Sono gli uomini che dovrebbero
cercare di essere come le donne, caso mai. Dico la possibilità
di diventare mamme, non l’obbligo, perché sarebbe assurdo
obbligare una donna ad avere figli. Se non vuole, se vuole
essere donna in quel modo lì, senza figli e senza maternità o con
una modica quantità di figli e di maternità, faccia pure. E’ un suo
diritto. Ma non si dica che tutto questo è un progresso, perché così
la donna non è più donna ma meno donna. Così la donna si toglie
qualcosa, si nega qualcosa che fa parte di lei e la caratterizza.
E non si dica che per non avere figli, o averne di meno, ogni sistema
va bene, compreso l’aborto e compresa quella cosiddetta
pillola RU 486 che è un altro modo di abortire.
In un mondo ben ordinato bisognerebbe aiutare la donna a essere
più donna, non indurla a essere meno donna. Ma il mondo
ben ordinato dov’è? Se ripenso a me e alla mia mamma, trovo solo
tanta solitudine. E tanta medicina. Che è senz’altro utile per
molte cose, ma non tanto utile per una mamma che si sente sola e
disperata. Andò all’ospedale, la mia mamma. Ma non è all’ospedale
che si trova la compagnia necessaria per affrontare certi problemi.
Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di parlare e ascoltare,
e invece le diedero un modulo. Con un modulo non si parla,
e lui non parla. Anzi, sì: dice una cosa ben precisa: firmi qua. Se
vuole abortire, metta la sua firma. Ma che razza di dialogo è mai
questo con una donna in difficoltà, con una donna disperata?
Nella nostra società dei moduli da firmare sembra che l’ospedale
e la medicina possano risolvere tutto. Così una donna
in difficoltà la si manda all’ospedale. Eppure si sa che gli ospedali
tolgono la voglia di parlare anziché farla venire. E se uno si
sente già solo per conto suo, dentro un ospedale si sente ancora
più solo. Sul letto ti mettono un numero e da quel momento tu
non sei più il signor tal dei tali ma sei un numero in mezzo a tanti
altri numeri. Bella soluzione per qualcuno che ha solo bisogno
di parlare, di essere consolato e magari di farsi anche un bel
pianto. L’ospedale va benissimo se ti rompi una gamba, ma se ti
si è rotto qualcosa dentro, se ti si è spezzato non un osso ma il
cuore, se è la tua anima che ha fatto crack, mi dici a che cosa
serve metterti in un letto con sopra un numero? A che cosa serve
un modulo che non parla? Serve solo a renderti ancora più
disperato e solo. Ed è precisamente questo ciò che successe alla
mia mamma, quel giorno.
Dicono che il feto o, se preferite, il prodotto del concepimento
(che orrore di espressione, io preferisco sempre bambino) non
senta dolore quando viene preso, triturato ed espulso dalla sua
mamma. Sbagliato. La scienza ha dimostrato che il feto (bambino)
il dolore lo sente, eccome. Solo che non lo può esprimere ad
alta voce. E siccome non lo può esprimere, non può farsi sentire,
c’è chi pensa che quel dolore lì non ci sia. E’ la solita vecchia storia:
ciò che non si vede non c’è. Ma io c’ero, ve l’assicuro, e c’era
anche il mio dolore.
Ora io mi chiedo: nel nostro mondo di oggi si parla tanto di
giustizia, progresso, diritti, eccetera eccetera. Ma che giustizia è
mai quella che permette di prendere una donna con dentro un
bambino, una donna triste e bisognosa di parlare con qualcuno,
trasportarla in un anonimo letto di un anonimo ospedale e poi
prendere il suo bambino, triturarlo e buttarlo fuori da lei, così,
senza tante storie, solo perché un modulo è stato firmato? No,
cari miei, qui c’è qualcosa che non va. Qui non c’è giustizia, non
c’è progresso e non ci sono diritti.
Il diritto di una donna, di una mamma, dovrebbe essere quello
di far nascere il suo bambino, non quello di non farlo nascere.
Quello di non farlo nascere è un falso diritto, è un non diritto, è un
avere diritto al nulla, alla morte, alla negazione della vita. Mi sembra
che in giro ci sia molta gente interessata più a questi non diritti
che al diritto vero. C’è più gente interessata alla morte che alla
vita, più gente che chiede di far avanzare il nulla piuttosto che
l’essere. Anche qui c’è qualcosa che non va.
2 della Costituzione (che riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo), sia sull’articolo 31 (che impone la protezione della
maternità in ogni momento in cui essa sussista, perciò fin dal
concepimento). In sostanza la Corte costituzionale riconosceva
che “fra i diritti inviolabili dell’uomo non può non collocarsi, sia
pure con caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del
concepito”. Un riconoscimento notevole, subito seguito però dalla
precisazione che “non esiste equivalenza tra il diritto non solo
alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come
la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve
ancora diventare”. Capito? Da una parte si diceva che il concepito
possiede l’inviolabile e fondamentale diritto alla vita, dall’altra
si sosteneva però che il diritto alla vita e alla salute della
madre è più diritto di quello del figlio! Una vera aberrazione
in termini logici oltre che giuridici.
Ecco perché, credetemi, mi piace di più la scienza. Certo, anche
gli scienziati sbagliano, ma almeno per la scienza ogni cosa
deve avere un nome, e quando anche la scienza resta senza parole
vuol dire che siamo davvero di fronte al massimo della meraviglia.
Per spiegare le dinamiche comunicative tra una mamma e
il bambino che porta in sé, gli scienziati parlano di dialogo, scambio,
interazione. Ma quando devono dare una definizione complessiva
di tutto ciò sapete che cosa dicono? Dicono che è un miracolo.
Magari sono scienziati che non credono in Dio, però riconoscono
il miracolo in senso letterale: qualcosa di così stupefacente
e perfetto che lo si può solo ammirare e rimirare.
Io resto sempre affascinato. La vita nasce da uno scambio reciproco,
da un donarsi. Non solo nella sfera affettiva e sentimentale,
ma anche nella sfera biologica. Non c’è vita senza dono
di sé. I poeti lo dicono da sempre, ma adesso che lo dice anche
la scienza c’è veramente da riflettere. E invece la politica
che cosa fa? Discute solo di leggi. Delle quali c’è necessità, nessuno
lo discute, ma non possono essere l’inizio e la fine di tutto.
Né possono essere immutabili. C’è dell’altro. C’è la vita da
riconoscere, prima di tutto.
Nel suo libro Anatomia della distruttività umana Erich
Fromm mette all’inizio della sua riflessione queste parole: “Le
generazioni peggiorano sempre di più. Verrà un tempo in cui
saranno talmente maligne da adorare il potere; il potere equivarrà
a diritto per loro, e sparirà il rispetto per la buona volontà.
Infine, quando l’uomo non sarà più capace di indignarsi
per le ingiustizie o di vergognarsi in presenza della meschinità,
Zeus lo distruggerà. Eppure, persino allora, ci sarebbe una speranza
se soltanto la gente comune insorgesse e rovesciasse i tiranni
che la opprimono”.
Sono parole che rileggo spesso, qui dove mi trovo. La potenza
dell’indignazione! Ma non c’è indignazione senza coscienza morale.
Ecco perché il tiranno, qualunque sia il suo aspetto e il suo
nome, prima di tutto vuole sopprimere la morale e costruirne una
che si attagli ai suoi fini e alle sue mire.
Se potessi, girerei con una macchina con sopra un megafono,
come facevano i politici di una volta sotto elezioni. E attraverso
il megafono diffonderei queste parole: “Uccidere un essere
umano nell’utero della madre deve essere considerato un atto
omicida come ucciderlo dopo la nascita. Per ciò che concerne il
cervello, ad esempio, la nascita non rappresenta l’inizio dell’attività,
ma semplicemente un cambiamento di stato. Se venissero
diffuse illustrazioni descrittive del feto e delle sue reazioni,
tutti potrebbero vedere che l’aborto uccide non tessuti malfermi
che alla fine diventeranno bambini, ma veri e propri esseri
umani”. Queste parole non le ha dette un papa o un monsignore,
il che sarebbe abbastanza normale. Le ha dette uno scienziato,
e non uno qualunque: il premio Nobel per la medicina
1983, il neurofisiologo sir John Eccles.
Ora, se prendiamo in considerazione la legge che dal 1978 ha
introdotto in Italia l’aborto cosiddetto legale (legge di cui molti
parlano senza averla mai letta), ci accorgiamo che nei primi tre
mesi di gravidanza la donna può chiedere di essere sottoposta all’aborto
in presenza di “circostanze per le quali la prosecuzione
della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio
pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo
stato di salute, o alle sue condizioni sociali, o economiche o familiari,
o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni
di anomalie o malformazioni del concepito”. Dunque, ci
deve essere un serio pericolo. Va bene, ma chi lo decide se c’è
questo serio pericolo? Lo decide “il consultorio e la struttura socio-
sanitaria”. Cioè medici, psicologi e altri esperti che verificano.
Dal punto di vista medico la verifica può avere una base scientifica,
ma dal punto di vista sociale, economico e familiare come
misurare il grado di pericolo? La legge dice che è necessario
“promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna,
offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza
sia dopo il parto”. Insomma bisogna fare il possibile perché cambi
idea e non abortisca. Ma nella pratica quando una donna ha
deciso ha deciso. E’ qui lo squilibrio fra il suo diritto e quello del
bambino. In pratica fino al terzo mese di gravidanza l’aborto non
è mai rifiutabile, e “la struttura socio-sanitaria pubblica” entro
questo limite ha l’obbligo di soddisfare la richiesta.
Fin qui la legge, che parla con il linguaggio delle leggi. Ma cerchiamo
di vedere la cosa in sé. Anzi, la persona in sé. Se diamo
un’occhiata, anche sommaria, allo sviluppo fisiologico del feto ci
accorgiamo che il limite previsto, quello dei novanta giorni, semplicemente
non ha senso: è assurdo, ingiustificato e pretestuoso.
Non al terzo mese, ma già alla terza settimana, se vogliamo introdurre
una scansione temporale, siamo in presenza di un embrione
perfettamente riconoscibile. Molto piccolo, certo, ma già in atto,
già al lavoro attraverso quella fitta trama di relazioni di cui vi
parlavo prima. Se poi andiamo a vedere che cosa succede al terzo
mese, cioè in corrispondenza del limite fissato dalla legge, possiamo
verificare che il bambino anche esteriormente ha ormai
fattezze umane ben precise. I primi nuclei di tessuto osseo si vanno
formando rapidamente e all’altezza del torace si nota l’ombra
delle costole. Le gambe si distendono, le mani sono formate, le
palpebre incominciano a delinearsi. Alla nascita mancano sei
mesi, ma il volto è disegnato con precisione. Il naso è un po’
schiacciato, l’orecchio un capolavoro in miniatura. Gli occhi sono
chiusi, ma al di là di un sottile strato di epidermide traspare il
pigmento scuro della retina. Braccia e gambe sono in continuo
movimento, le labbra si aprono e si chiudono, la testa si volta ripetutamente.
Io ero così. Ebbene, è proprio questo essere umano,
questa persona, che la legge consente di uccidere. E tutto ciò dovrebbe
essere considerato normale? Tutto ciò dovrebbe essere
consentito come diritto? Tutto ciò può avvenire ogni giorno senza
che si provi un sussulto, un rimorso, un’inquietudine interiore?
Dopo il terzo mese di gravidanza la legge introduce una distinzione:
per procedere all’aborto occorre infatti che ci sia o
“un grave pericolo per la vita della donna” o “siano accertati
processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie
o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo
per la salute fisica o psichica della donna”. Qui il pericolo
da serio si è fatto grave, e in gioco c’è la vita stessa della donna
oppure la sua “salute fisica o psichica” nel caso in cui le indagini
prenatali scoprano che il bambino è malato o malformato.
Ecco, ci si ricorda dell’essere umano in gestazione solo quando
si tratta di segnalarne i difetti. E comunque le ragioni del diverso
trattamento giuridico fra i primi novanta giorni e il periodo
successivo sono determinate non dal fatto che lì c’è un
bambino sempre più formato, ma dalla maggiore pericolosità
dell’intervento di aborto per la mamma. Senza contare che il riferimento
alla salute “psichica” equivale spesso ad aborti eseguiti
sulla base di generici problemi psicologici che nessuno si
preoccupa di verificare seriamente.
E il padre del bambino? La legge lo tira in ballo in quanto “padre
del concepito” per dire che anche lui può andare al consultorio
ma solo “ove la donna lo consenta”. Ove non lo consenta, tanti
saluti a lui oltre che al concepito. Ma chi l’ha detto che la gravidanza
e la possibilità di interromperla sono solo una faccenda
della mamma (anzi della “donna”, come dice la legge, il cui testo
si guarda bene dall’usare la parola “madre”)?
Questo delle parole è un altro fronte su cui riflettere. Gli abortisti
raramente parlano di aborto. Parlano invece di interruzione
volontaria della gravidanza o, addirittura, di ivg. Evitare di
chiamare le cose con il loro nome fa sempre il gioco di chi vuole
mettere a tacere la coscienza morale. La rimozione della parola
ci introduce in un mondo lontanissimo dalla realtà. E se la realtà
è lontana, lontani sono anche i doveri e gli obblighi morali che
abbiamo nei suoi confronti. Italo Calvino ha chiamato la fuga dalle
parole “terrore semantico”. Il risultato è l’antilingua, un gergo
in cui i significati sono costantemente allontanati, “relegati in
fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono
dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente”.
Qualcosa di tanto vago e sfuggente da non crearci obblighi mo-
Forse non dovrei essere io a dirlo, io che ero così piccolo e che
poi sono stato triturato e non ho mai avuto un nome. Però mi sembra
che se i non diritti prendono il posto dei diritti si va verso una
brutta fine. Se il nulla prevale sulla vita, se la morte si fa strada
al posto del nascere, entriamo in una galleria buia senza sapere
dove ci porterà. E le gallerie buie riservano sempre brutte sorprese.
Succede anche di scoprire che non ci sia l’uscita. C’è il buio
e basta. E a quel punto non puoi neanche fare marcia indietro.
Poco prima di essere triturato ed espulso lanciai un segnale.
A modo mio, certo, ma lo lanciai. Chiesi a mia mamma di ripensarci,
di fermarsi, ma era troppo tardi. Non vi sembri strano che
io parli di segnale. Dovete sapere che il feto (bambino) e la mamma
comunicano. Non lo dico io, lo dice la scienza. Fin dai primissimi
istanti della sua presenza nel corpo della mamma, l’embrione
le invia cellule staminali e queste, grazie alla tolleranza
immunitaria della madre verso il figlio, vanno a colonizzare il midollo
materno. E, questo è il bello, non se ne vanno più. Restano
lì per sempre, così che ogni mamma si porta dentro qualcosa del
figlio, anche se il figlio in questione nel frattempo è stato fatto a
pezzettini ed espulso.
Come le so queste cose? Beh, qui dove mi trovo si parla, ci si
confronta, ci si documenta. Qui dove mi trovo c’è più vita di quanto
si possa immaginare. Anzi, è proprio la vita al centro dei nostri
interessi. Così ho imparato non solo che il figlio eredita il cinquanta
per cento del patrimonio genetico della mamma (e quindi
quando una mamma abortisce uccide qualcosa di sé) ma anche
che il feto (bambino) attraverso l’organismo materno è continuamente
in contatto con il mondo esterno e che la madre subisce, a
opera del figlio, modificazioni a lungo termine, che non si esauriscono
affatto con il periodo della gestazione.
Chiedetelo agli scienziati, loro ve lo confermeranno. Fin dalle
primissime fasi di suddivisione cellulare, dall’embrione partono
messaggi diretti alla madre, informazioni che servono a far adattare
l’organismo della donna alla presenza del nuovo essere vivente.
Dopo l’impianto dell’embrione, il dialogo si fa sempre più
intenso, sia attraverso il sangue che attraverso le cellule. Mi viene
da ridere quando sento parlare di banda larga e comunicazione
senza fili. Dentro la pancia di una mamma, lei e il suo bambino
fanno molto di più. E’ tutto un comunicare. Ci sono le prove
che cellule staminali del figlio passano alla madre in gran quantità,
si impiantano nel midollo materno e restano lì a lungo, anche
per decine d’anni. Ma anche il padre, attraverso il figlio, lascia a
lungo traccia di sé nel corpo della madre. Tutti comunicano con
tutti. Si può dire che, in un certo senso, la gravidanza non dura le
quaranta settimane canoniche, ma tutta la vita.
Mi chiedo perché queste cose non vengano dette e spiegate. Si
parla sempre di come distruggere, di come non avere la vita, di
come evitare di fabbricarla o come smantellarla (con pillole o in
altro modo) e non si parla mai di queste meraviglie, di quella meraviglia
che è la vita al suo primissimo nascere.
La cosa singolare è che questa meraviglia ormai la impari più
dagli scienziati che dai filosofi o dai teologi. Uno pensa agli
scienziati come a gente fredda, impegnata solo a sperimentare.
Ma gli scienziati sono di carne e ossa, e più vanno avanti nella ricerca
sulla vita che sboccia e più restano a bocca aperta. Sì, tutti
lì a bocca aperta con l’occhio sul microscopio. Si scopre così, e
anche questo è un dato ormai certo, che fin dai primissimi istanti
dell’incontro tra lo spermatozoo e l’ovocita si può parlare, anzi
si deve parlare a voler essere onesti, di presenza a tutti gli effetti
di un essere umano. E, se ci pensiamo, non potrebbe essere
altrimenti. Lo sviluppo della vita è un continuum, un concatenarsi
di eventi all’interno del quale fin dall’inizio ogni istante ha
una sua precisa funzione in vista dell’istante successivo. Ecco
perché è scientificamente privo di senso parlare di pre-embrione.
In questo concatenarsi di fatti tutti necessari e collegati non
c’è un prima e un dopo: c’è la continuità.
Ho studiato, qui dove mi trovo. Dopo essere stato triturato ed
espulso mi sembrava quasi di non essere mai esistito. Terribile.
Ma io c’ero. Qui mi hanno aiutato: recupera te stesso, mi hanno
detto. E così mi sono messo a studiare. Scoprendo che l’uomo incomincia
con la singamia, che sarebbe la fusione di spermatozoo
e ovocita. E lo zigote ha fin da subito un orientamento, una sua organizzazione,
rivolta al futuro. Si mette al lavoro immediatamente,
senza pre e senza ma. Non c’è un indistinto “grappolo di cellule”.
C’è un progetto di vita in possesso di un’identità data dal patrimonio
genetico. Non è vero che si tratta di una vita potenziale,
come sostiene qualcuno. E’ una vita in atto!
E così la scienza ci dà le basi, le fondamenta concrete sulle
quali possiamo costruire un discorso a proposito dello statuto
dell’embrione umano. Il che significa rispondere alla domanda:
chi è l’embrione?
La risposta certa è che l’embrione è un individuo umano. Sono
tre gli elementi che ci permettono di considerarlo tale: l’unità del
suo essere, la sua continuità e l’ininterrotta gradualità che ne contraddistingue
lo sviluppo. E poiché ciò che connota l’individuo
umano, in presenza di questi tre elementi, è la personalità, possiamo
dire che abbiamo a che fare con una persona. Lo ripeto, a
scanso di equivoci: non esistono persone potenziali, ma solo persone
in atto. Quindi, in quanto persona, l’embrione possiede quella
dignità inalienabile che ci chiede di considerarlo sempre un fine
e mai un mezzo, sempre un portatore di diritti, a partire dal diritto
alla vita, e non un oggetto a nostra disposizione.
Nella storia dell’umanità ci sono sempre state persone discriminate
perché considerate mancanti di qualcosa. Ricordate
gli schiavi, esclusi dal diritto di cittadinanza? Con l’idea di
pre-embrione e con tutte le altre idee che in un modo o nell’altro
ci parlano di individuo fermo a uno stato potenziale, si ripropone
la stessa logica discriminante. Quando si richiede un
titolo superiore per esigere rispetto, vuol dire che qualcuno ha
già deciso di discriminare. Sei un pre-embrione? Ti posso eliminare.
Sei un vecchietto che non ha più efficienza fisica e capacità
produttiva? Ti posso eliminare. Sei uno zingaro senza casa
e magari un po’ sporco? Ti posso eliminare. Sei uno con gli
occhi marroni e non azzurro cielo? Ti posso eliminare. Una volta
introdotto il principio secondo il quale il rispetto va dato solo
a chi possiede un titolo superiore, la discriminazione scatta
automaticamente come una tagliola.
Qui dove mi trovo do un’occhiata ai giornali e mi prende lo
sconforto. La politica, impegnata in una campagna elettorale senza
fine, è incapace di accogliere ed elaborare tutto ciò che non
ha immediati fini di potere e di consenso. E così nessuno pensa
alla meraviglia della vita. Si discute solo di leggi e controleggi, in
una confusione crescente dove alla fine non si sa più di che cosa
si sta parlando e le parole perdono ogni significato allontanandosi
sempre più dalla cosa in sé.
Ho detto la politica, ma potrei dire anche il diritto. Prima che
entrasse in vigore la legge 194 del 1978, la Corte costituzionale
italiana, con una sentenza del 18 febbraio 1975, estese la non punibilità
per l’aborto procurato a donna consenziente. Fondò la
sua decisione sull’articolo 32 della Costituzione (diritto alla salute)
e stabilì che l’aborto procurato diventasse non più punibile
quando fosse operato per evitare un pericolo o un danno per
la salute della madre, purché tale pericolo o danno fosse grave
e reale, non fosse evitabile in altro modo che con l’aborto e fosse
stato previamente accertato dal medico. E’ importante qui
sottolineare che la sentenza del 1975, pur allargando notevolmente
le possibilità di aborto, riconosceva il fondamento costituzionale
della tutela del diritto alla vita da parte del concepito.
La doverosità di questo diritto veniva basata sia sull’articolo
rali. Non è un gioco linguistico. Secondo Calvino, e io sono d’accordo
con lui, la faccenda è tremendamente seria, perché chi
scappa dalle parole non vuole avere un vero rapporto con la vita.
Chi scappa dalle parole odia la vita e odia se stesso.
Con le parole la stampa giocò molto all’epoca del referendum
sull’aborto del 1981. Se si va a vedere negli archivi (lo ripeto, qui
dove mi trovo abbiamo possibilità straordinarie) è possibile ricostruire
il clima di quei mesi. Il settimanale Panorama una volta
pubblicò un articolo con la testimonianza di un medico che si
vantava di praticare tremilacinquecento aborti all’anno, al ritmo
di cinquanta, sessanta alla settimana. Dove? A Piacenza, presentata
nell’inchiesta come città simbolo dell’Italia efficiente e
progressista. L’aborto come un prodotto da fabbrica di montaggio,
anzi di smontaggio. E alla domanda su come quel medico
procurasse gli aborti, ecco la risposta: “Metodo Karman, due minuti
d’orologio. E dopo un paio d’ore, o al massimo alla sera, tutte
le pazienti vengono rimandate a casa”. Questa sì che è efficienza
padana! E ovviamente non una sola parola sul che cosa è
il metodo Karman, ovvero l’aspirazione del bambino attraverso
una cannula e il successivo passaggio di un cucchiaino sulle pareti
dell’utero per accertarsi che sia “ben pulito”.
A proposito di parole. Tempo fa mi è capitato di ascoltare una
curiosa discussione tra bambini in età da prima comunione. Erano
alle prese con l’Atto di dolore e uno di loro, un certo Robertino,
ripeteva: “Mio Dio, mi pento e mi tolgo…”. Le sue compagne
di catechismo, due bimbette sveglie, lo ripresero: “Ma che dici?
Mi dolgo, non mi tolgo! Mi pento e mi dolgo! Significa che nel pentirmi
provo dolore, mi dispiace per quello che ho fatto”.
Devo dire che non è male la versione dell’Atto di dolore inventata
da quel Robertino. Se tante persone si pentissero e contemporaneamente
si togliessero sarebbe un gran vantaggio per
tutti. Penso ai vari azzeccagarbugli e ai fanfaroni che da giornali
e tv pretendono di impartire lezioni senza sapere di che cosa
stanno parlando o sapendolo fin troppo bene, per fini che niente
hanno a che fare con i problemi in sé. Si pentissero e si togliessero
di torno, una buona volta. Invece siamo impestati. A
ogni ora del giorno e della notte, eccoli lì a pontificare. Con parole
sempre più vaghe, sempre più lontane dalla realtà di carne
e di sangue, sempre più false.
Le falsità vanno sempre smascherate, ma quando c’è di mezzo
il diritto alla vita sembra così difficile. Qualcuno ha interesse a
mescolare le carte, a confondere le acque. Pensiamo alla fecondazione
assistita. La cultura a favore della manipolazione indiscriminata
ha diffuso veri e propri dogmi.
Il primo è che la riproduzione medicalmente assistita sia una
via efficace per avere bambini. I dati dicono che non è così. Solo
una minoranza delle donne che si sottopongono all’impianto di
embrioni prodotti in vitro riesce ad avere il bambino desiderato,
e in quarant’anni le percentuali non si sono alzate. Secondo dogma
è che la ricerca sulle cellule staminali embrionali sia molto
promettente per arrivare alla cura di gravi patologie, quando invece
la scienza ha dimostrato che la ricerca sulle staminali embrionali,
largamente infruttuosa, non fa che distogliere risorse da
quella sulle staminali adulte, che al contrario continua a dare risultati
più che incoraggianti. Terzo dogma è che la clonazione di
embrioni umani a scopo terapeutico (per intenderci, come pezzi
di ricambio) sia utile, mentre la scienza l’ha ormai giudicata ingiustificata.
Quarto dogma è che con la fecondazione assistita si
possano avere figli più sani, quando invece è vero il contrario,
perché, oltre a gravi rischi per la donna, rispetto ai bambini nati
in modo naturale la fecondazione artificiale produce più prematuri
e bambini sottopeso e il rischio di handicap è più alto.
Altro dogma è che su questi temi della vita sia in corso una
battaglia tra cultura laica e cultura cattolica quando invece la
questione riguarda il rapporto tra noi tutti (credenti e non credenti)
e la nostra esistenza, tra la morale e la scienza, tra la coscienza
e la legge. E che dire dell’altro dogma, secondo il quale
tutto ciò che la scienza permette tecnicamente di fare va per
ciò stesso fatto, mentre la storia e l’esperienza comune dimostrano
che l’uso della tecnica senza valutazione morale si ritorce
sempre contro l’uomo?
Si dice spesso che la chiesa blocca le discussioni a causa delle
sue visioni dogmatiche, ma a me sembra che sia la cosiddetta
cultura laica a essere piena di dogmi. Non è per caso un dogma
laico, anzi laicista, anche quello che dice che chi si interroga
apertamente su questi problemi lo fa col fine di mettere in
discussione la legge che ha liberalizzato l’aborto? A me sembra
vero, semmai, il contrario, e cioè che la legge 194 ormai viene
usata a sua volta come un dogma intoccabile. E qui, come in un
tragico gioco dell’oca, arriviamo all’ultimo dogma che è poi anche
il primo e che dipinge il nascituro come individuo in potenza
e non in atto. Vedi sopra.
Alexis de Tocqueville ha insegnato a diffidare delle democrazie
che basandosi sulla forza della maggioranza mettono il bavaglio
alle minoranze e così si comportano come dittature. Oggi bisogna
diffidare anche di tutti quelli che dipingono se stessi come
difensori della vita. Occorre ascoltarli bene. Prendiamo il caso
della moratoria sulla pena di morte. Io sono felicissimo che ci si
sia arrivati, perché la sola idea che uno stato, un tribunale, insomma
un consesso d’uomini, in base a una legge umana, possa
togliere la vita a qualcuno mi fa orrore. Ma come gioire per la moratoria
sulla pena di morte senza mai menzionare nemmeno di
sfuggita il dramma dell’aborto? Dicono che sono due cose diverse.
E’ vero. Ma il diritto alla vita è lo stesso. La discriminazione è
la stessa. Nel momento in cui qualcuno decide che qualcun altro
non ha titolo per vivere, la tagliola scatta inesorabile. E sempre
tagliola è, che si chiami “interruzione volontaria della gravidanza”
o “pena capitale” o “dolce morte”.
Nessuno tocchi Caino mi va benissimo, ma vogliamo per favore
dire qualcosa anche del povero Abele? Mi sembra che ne abbia
diritto, dopo tutto. Essendo uno dei milioni di bambini non
nati “grazie” all’ivg, mi sento preso in giro oltre che parte in causa.
Se mi avessero sepolto mi rivolterei nella mia minuscola tomba.
Ma come, a me mi avete ammazzato senza tanti complimenti,
come non si fa neanche con gli animali di casa (quando Fido o
Fufi devono essere soppressi è una tragedia familiare, e c’è gente
che fa il funerale al cane e al gatto e gli mette pure la lapide
in giardino), avete fatto una legge che permette di farmi fuori anche
se sono il più innocente fra gli innocenti e il più debole fra i
deboli, e adesso tutti lì a rallegrarsi per la moratoria sulla pena
di morte, tutti lì a parlare di grande risultato e a blaterare di civiltà,
progresso, giustizia eccetera eccetera. Ma dov’è la giustizia
ogni volta che in un asettico ospedale una vita umana viene asetticamente
fatta fuori prima ancora che abbia visto la luce? Che
civiltà c’è mai in un omicidio praticato ogni giorno, migliaia di
volte al giorno, in nome di una legge fatta dai grandi contro i piccoli,
dai forti contro i deboli? E non parlatemi di liberalismo, per
favore! Il vero liberale vuole prima di tutto le pari opportunità.
Ma che razza di pari opportunità sono garantite là dove la persona
non ancora venuta alla luce, solo perché non ci sta davanti
agli occhi, può essere eliminata da una legge che non le garantisce
il primo e fondamentale diritto alla vita? Il vero liberale secondo
me di fronte all’aborto dovrebbe provare lo stesso orrore
che prova per le condanne a morte.
Una giustizia che adotta due pesi e due misure non è una giustizia,
è una ingiustizia. E se è sancita per legge è un’ingiustizia
doppia. Il peso di un bambino non ancora venuto alla luce è un
peso piccolissimo, quasi nullo. Ma la bilancia della giustizia dovrebbe
essere sensibile proprio a questi pesi piuma.
“Uccidere un essere umano
nell’utero di una madre deve
essere considerato un atto omicida”
(J. Eccles, Nobel per la Medicina)
ANNO XIII NUMERO 15 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO - MORATORIA VENERDÌ 18 GENNAIO 2008
In un vero stato liberale proprio quel bambino lì, proprio quel
cittadino lì, così piccolo, dovrebbe essere il più tutelato. Una questione
che si presenta, e si presenterà sempre di più, anche per i
malati e per i vecchi, sulle cui teste già si aggira la mannaia dell’eutanasia
travestita da pietà. Li vedo già i progetti molto politicamente
corretti: una bella iniezione e via. Via il dolore, via la
vecchiaia, via la malattia, via la sofferenza. Tutto asetticamente,
senza sporcare, senza disturbare. E sento già la giustificazione formale:
lo facciamo per loro, per salvaguardare la loro dignità! Ecco
la menzogna estrema. L’idea di dignità asservita alla morte. Il
papa polacco, quel Giovanni Paolo II che sembra già tanto lontano,
queste cose le diceva. E anche lui si starà rivoltando nella sua
semplice tomba laggiù, nelle grotte vaticane.
Non chiedetemi come ho fatto (qui dove mi trovo abbiamo possibilità
infinite), ma ho saputo che attualmente nel comitato nazionale
di bioetica si sta discutendo questo problema: si può fare
sperimentazione scientifica sugli embrioni umani morti? La risposta
intuitiva è sì. Dato che si fa sui cadaveri, perché non dovremmo
farla sugli embrioni morti? Ma, badate bene, la domanda
precedente ne determina un’altra: chi è che definisce morto
un embrione? Vengono chiamati i biologi e questi dicono: oggi come
oggi non abbiamo gli strumenti scientifici per stabilire la morte
degli embrioni. Poco male, dicono i politici legislatori. Facciamo
così: comportiamoci come se fossero morti quegli embrioni
che non sono più impiantabili nell’utero di una donna. Ecco la
grande questione che sta dinnanzi a tutti noi: è questo come se
che il politico introduce pretendendo di stabilire un punto fermo
e una certezza giuridicamente vincolante là dove né la scienza né
tanto meno il senso comune supportano questa certezza. Con la
194 è avvenuta la stessa cosa: comportiamoci come se fino al terzo
mese di gravidanza non avessimo proprio un uomo ma qualcosa
di meno, un pre-uomo. La stessa cosa fanno i razzisti quando
picchiano e uccidono quelli con la pelle diversa dalla loro: comportiamoci
come se questa gente non appartenesse proprio al genere
umano ma a un genere inferiore. E la stessa cosa succederà
presto o tardi con l’eutanasia: comportiamoci come se questo vecchio,
o questo malato, o questo handicappato non avesse più le
condizioni minime richieste per vivere.
Questo gioco del come se, che è spesso un gioco al massacro, ha
un nome: si chiama biopolitica e si esprime in una decisione o
una volontà normativa, che può anche assumere la forma di una
legge votata a maggioranza in un parlamento e ratificata da un referendum,
in cui si dice che la verità scientifica è importante ma
in fondo non troppo, e che anche la coscienza morale è importante
ma in fondo non troppo, perché ciò che è veramente importante
è solo come noi, politici legislatori, deliberiamo sulla vita.
In questa prospettiva biopolitica il vivente non ha un nome,
non ha un’identità, non ha una dignità sua propria. E’ un essere
amorfo e indistinto. Soprattutto è qualcuno che non può dire nulla
su di sé. Il bambino non ancora nato non può dire nulla su di
sé. Il malato terminale che non è in grado di comunicare e che
magari, se potesse esprimersi, vorrebbe le cure palliative, non
può dire nulla su di sé. L’unica entità che può parlare a nome loro
è quella biopolitica. E’ solo la politica che qualifica il vivente,
con la sua autorità e la sua verità. Certe volte lo fa autorizzando
alcune pratiche, altre volte lo fa negandole. Ma sempre a partire
da una volontà dispositiva che non considera proprio dovere avere
agganci con la realtà. L’unico aggancio consentito è con l’immagine
di realtà che la politica stessa ha deciso di consentire.
Un filosofo del diritto che studia questi problemi, Francesco
D’Agostino, ha detto: “Ritengo che di fronte a questo paradigma
biopolitico, che riduce l’oggettività del reale a dimensione amorfa
e insignificante, si debba dire no. Un no che non ha alcuna motivazione
confessionale ma che nasce semplicemente dalla verità
delle cose, in nome, prima di tutto, della salvezza della scienza”:
Già, proprio gli scienziati sono i primi che hanno bisogno di essere
salvati dall’avanzare della biopolitica. Contro di loro, contro
l’evidenza di ciò che loro studiano, la biopolitica esercita la massima
pressione perché non può tollerare che ci sia una verità al
di fuori della propria.
L’ambito nel quale i biopolitici si esercitano di preferenza è la
famiglia, com’è evidente se pensiamo alle politiche demografiche
adottate in paesi come la Cina o l’India, politiche che hanno portato
a disastri umanitari incalcolabili, con un aumento impressionante
di neonaticidi occulti e un incredibile squilibrio fra maschi
e femmine (in Cina si calcola che almeno otto milioni di maschi
della stessa generazione non abbiano femmine con cui mettere
su famiglia perché le bambine vengono uccise con l’aborto,
dopo la diagnosi prenatale, o appena nate).
I biopolitici usano abbondantemente l’antilingua di cui parla
Italo Calvino. Un disegno di legge sull’eutanasia presentato in Italia
nella scorsa legislatura era intitolato “Norme per regolamentare
l’interruzione volontaria della sopravvivenza”. Espressione
che poi nel testo, sull’esempio di quanto già fatto con l’ivg, è diventata
ivs, sigla del tutto sterilizzata e allontanata dalla cosa in
sé, cioè dalla morte di una persona.
Nella logica legalistica e volutamente astratta della biopolitica
gli esseri umani dovrebbero smetterla di pensare se stessi in
quanto persone viventi. Dovrebbero piuttosto reinterpretarsi come
coloro che sopravvivono solo perché possiedono un’identità
biologica normativamente accettata in quanto compatibile con la
vita. Sembra una cosa complicata ma il risultato è molto semplice:
è sempre il più forte che decide per il più debole, il più tutelato
che decide per il meno tutelato. Magari con la scusa di proteggerne
la dignità e la libertà.
Ma non sono solo gli stati e non solo i governi a procedere secondo
logiche biopolitiche. Anche i privati possono farlo, come
nel caso delle multinazionali farmaceutiche che producono medicine
allo scopo di incrementare i propri guadagni, senza alcun
interesse per i diritti dei malati. Anche qui è il forte che decide
per il debole.
Ora il fronte su cui la biopolitica sta allungando la sua ombra
è quello del testamento biologico. Finché il testamento rappresenta
la decisione di una persona consapevole di rinunciare alle
terapie siamo fuori dall’orizzonte biopolitico (anche se sono sempre
possibili pressioni e condizionamenti culturali). Però in situazioni
di malattia può succedere che questa capacità di sguardo
su se stessi non ci sia più o sia fortemente limitata. E allora chi
decide, e come? E’ qui che la biopolitica si fa avanti con il meccanismo
del come se. Esempio: l’Olanda. Qui l’eutanasia è reato,
ma se il malato decide di mettere fine alla sua vita e per questo
chiede al medico un aiuto, il medico non è penalmente perseguibile.
Il fatto è che questa legge viene applicata anche ai malati
psichiatrici. Anche se il malato psichiatrico, per definizione, non
può avere su se stesso uno sguardo lucido, è invalsa nella prassi
la convinzione secondo cui il medico che si prende cura di lui è
il miglior interprete della volontà che il malato esprimerebbe se
fosse in grado di esprimerla. Facciamo come se questo malato fosse
lucido e volesse morire.
Ma torniamo all’aborto. I numeri, come si suol dire, parlano
chiaro. Secondo i dati ufficiali in Italia ogni anno gli aborti volontari
sono decine e decine di migliaia. Qualcuno dice che stanno diminuendo,
qualcuno dice il contrario. Sta di fatto che siamo in presenza
di numeri altissimi, di fronte ai quali c’è una sola domanda:
cifre del genere possono lasciarci tranquilli? E poi ci sono tutti gli
altri paesi in cui l’aborto è stato ed è usato come metodo contraccettivo
o eugenetico. Qui non è questione di cattolici e non cattolici,
credenti o non credenti. Qui è questione di civiltà e di giustizia.
Tutti dicono che l’aborto è un dramma, ma che cosa si fa veramente
per evitare questo dramma? I dati rivelano che da noi l’aborto
volontario viene usato prevalentemente come rimedio al
fallimento della contraccezione. Era questo che voleva la legge?
Se prendiamo la 194 vediamo che il legislatore si era posto come
obiettivo primario non quello di favorire l’aborto ma, per
quanto possibile, di evitarlo. La legge dice che i consultori hanno
il compito di assistere la donna”contribuendo a far superare le
cause” che potrebbero indurla ad abortire. E’ un impegno reale,
non generico, tanto è vero che i consultori “sulla base di appositi
regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti
dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni
sociali di base e di associazioni del volontariato, che possano anche
aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
Che l’aborto non debba essere un mezzo di controllo delle nascite
e che lo stato debba tutelare la vita umana fin dal suo inizio
è scritto nella legge, proprio in apertura, come impegno programmatico:
“Lo stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente
e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela
la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza,
di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo
delle nascite. Lo stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle
proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi
socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare
che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.
Che cosa significa “procreazione cosciente e responsabile”?
Che la mamma ha solo il diritto di abortire o anche quello di
non abortire? Di fronte a decine di migliaia di aborti all’anno, e
considerato che per la legge ogni aborto praticato è un fallimento
e non un successo della legge stessa, una società e una politica
moralmente adulte che cosa dovrebbero fare se non attivarsi
in tutti i modi perché l’azione dissuasiva sia resa sempre
più efficace e concreta?
Lo scandalo non è l’aborto. L’aborto è davvero sofferenza e
dramma. Lo scandalo è l’indifferenza che lo circonda, è la pretesa
di trasformarlo in atto burocratico, è il silenzio in cui avviene,
come se sopprimere una vita fosse ormai fatto consuetudinario
e normale.
“Normale” deriva da norma, ma non tutto ciò che è regolato da
norme è per ciò stesso normale e scontato per la coscienza. Il dottor
Bernard Nathanson, ex abortista incallito poi convertitosi alla
causa antiaborista, nel suo celebre filmato “The silent scream”,
l’urlo silenzioso, ha mostrato nei dettagli la fine raccapricciante
che tocca a un bambino aspirato e fatto a pezzi nell’utero della
madre. Per sconfiggere l’aborto forse basterebbe mostrare quelle
immagini, ma non mi sembra giusto costruire una concezione
morale sul raccapriccio. Spero che sia ancora possibile fare appello
semplicemente ai principi morali, primo fra tutti quel “non
fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” che è patrimonio
della civiltà cristiana.
In quel processo di allontanamento dalla realtà che è tipico
della biopolitica il nuovo fronte è la pillola abortiva RU 486. Ecco
qua un’altra sigla. Quando c’è di mezzo una sigla, io sento odore
di bruciato. Per qualcuno la pillola abortiva è solo un’alternativa
alla soluzione chirurgica, ma io non credo che sia così. Per
me si tratta di un’ulteriore banalizzazione dell’aborto. Se la soluzione
chirurgica comporta per lo meno una serie di passaggi e
il confronto-scontro diretto con il bambino da eliminare, con la
pillola tutto è sistemato in pochi istanti e il concepito è proprio
come se non esistesse. Tranne che nel finale. Quando sento la descrizione
di come funziona la pillola mi sento male. La “donna”
(mai la madre, per carità!) va all’ospedale ma non è ricoverata.
Sta al day hospital. Prende la pillola e se ne va a casa. Poi torna
in ospedale dopo un paio di giorni, le danno la seconda dose e
nel giro di qualche ora, se tutto è andato “bene”, avviene l’espulsione
del feto. A questo punto non resta che fare un ultimo
controllo, ambulatoriale, a distanza di una decina di giorni. Più
comodo di così! Certo, le statistiche dicono che alcune donne che
hanno preso la RU 486 sono morte, che molte altre hanno avuto
emorragie e infezioni, e che probabilmente questo metodo è
molto più pericoloso, per le mamme, dell’intervento chirurgico,
ma non bisogna spaccare il capello in quattro. Il progresso deve
fare la sua strada: che l’aborto sia reso sempre più facile e più
dolce! E poi vogliamo dirla tutta? Per il servizio sanitario nazionale
gli aborti fatti con la RU 486 costano molto meno di quelli
fatti con l’intervento chirurgico.
Il principio attivo della pillola ha un nome che un po’ inquieta
e un po’ fa ridere: mifepristone. Infatti in Francia la pillola si
chiama Mifégyne e negli Usa Mifeprex. Fu un francese a scoprirlo
nel 1982, a capo di una équipe del laboratorio Roussel-Uclaf
(da cui la sigla RU). Questo ricercatore, il dottor Etienne-Emile
Baulieu, tempo fa ha detto che gli sembra “incredibile” che l’Italia
non abbia ancora dato il via libera alla sua pillola, ormai diffusa
in tutto il mondo. “Avete già la legge 194 – ha detto il buon
dottore – perché volete negarvi l’aborto dolce?”. Se fosse un parere
disinteressato ci si potrebbe anche ragionare, ma considerato
che in ballo ci sono un sacco di quattrini io sento ancora di
più puzza di bruciato.
La RU 486 vuol dire ancora più solitudine, ancora più abbandono,
ancora minore libertà e sicurezza. E’ il trionfo dell’irresponsabilità,
non solo femminile ma soprattutto maschile. E’ un
altro passo verso l’uso consumistico del corpo e il silenzio delle
coscienze. I paladini della 194 hanno sempre detto che la legge è
nata per togliere la donna dallo stato di solitudine, ma la pillola
rende l’aborto un fatto ancora più privato e solitario. La parola
farmaco viene dal greco e vuol dire letteralmente veleno. La RU
486 è un veleno per il corpo e per l’anima.
In “Brave new world” Aldous Huxley immagina che in un mondo
futuro, ma mica poi tanto, la felicità totale e generale sarà assicurata
da un controllo altrettanto totale e generale sulle menti
delle persone. Nel libro questa falsa felicità nata dalla manipolazione
viene smascherata solo da un uomo che, nato da un errore
del programma di contraccezione, è rimasto legato alla cultura
del vecchio mondo: un superstite del tutto inadeguato ma proprio
per questo ancora libero. Circondati come siamo da solerti
manager della felicità, più o meno occulti, c’è da fare di tutto per
restare assolutamente selvaggi.
Mi accorgo di aver usato poco fa la parola anima. Forse qualcuno
si sarà stupito. Chi parla più dell’anima, ormai? Io invece ne
vorrei parlare perché proprio in questi giorni ho finito di leggere
(ve l’ho detto che qui dove mi trovo abbiamo mezzi eccezionali)
un libro straordinario intitolato “L’anima e il suo destino”. L’ha
scritto un teologo, fra l’altro molto simpatico, che si chiama Vito
Mancuso e che, cosa abbastanza rara per i teologi, scrive benissimo.
In questo libro Mancuso sostiene una serie di tesi che mi affascinano
e che aiutano ad aprire gli occhi su quel mondo della
spiritualità che di solito è ignorato o presentato in termini assolutamente
grotteschi, come un impasto di magia e superstizione.
Mancuso sostiene che quando Giovanni scrive, all’inizio del
quarto Vangelo, che “in principio era il Verbo”, sarebbe meglio
tradurre letteralmente: “In principio era il Logos”. Perché Giovanni
voleva dire proprio quello che ha detto: che in principio
c’era il logos, ovvero la relazione. Dio, il principio ordinatore,
fin dall’inizio dà ordine all’energia di cui tutta la materia, compreso
l’uomo, è fatta, e lo fa attraverso una sapienza di cui la
stessa natura è imbevuta e intessuta. “L’azione creatrice divina
mediante il principio ordinatore (di cui una suprema manifestazione
sono le leggi naturali ‘finemente sintonizzate’ di cui
parla l’astrofisica) porta all’esistenza il nostro corpo vivente, una
meraviglia fisica e biologica di miliardi di relazioni ordinate”.
Ma il nostro essere contiene più energia di quanta ne sia contenuta
nel solo corpo. Noi siamo corpo ma non solo, siamo anche
animati. La differenza tra il totale della nostra energia e l’energia
espressa come corpo è l’anima, precisamente è ciò che ci
anima. E dire anima vuol dire libertà, perché siamo noi che decidiamo
come ordinare o non ordinare quel quantum di energia
che va oltre il corpo. Se lo ordiniamo verso il bene e verso la vita
ci dà gioia, quiete, pace, serenità. Se lo ordiniamo, anzi lo disordiniamo,
verso la rabbia, la violenza, la vendetta, l’odio e la
morte ci dà solo dolore.
L’anima, dice il teologo Mancuso, va lavorata. Questo surplus
di energia va affinato sempre di più. Più lo affiniamo, nel senso
dell’ordine, più diventa spirito, cioè energia libera in grado di
padroneggiare se stessa. Per questo “l’uomo spirituale è l’uomo
giunto a padroneggiare veramente se stesso, colui che è venuto a
capo del problema di vivere”. Per questo “l’uomo spirituale è un
uomo perfettamente unificato”. Nel linguaggio religioso un santo,
per gli antichi greci un sapiente, per il pensiero indù un guru,
ma la sostanza non cambia.
La legge fondamentale che ci è stata consegnata dal trincio
ordinatore, dice Mancuso, (legge divina ma anche perfettamente
naturale, anzi “divina proprio in quanto perfettamente naturale,”)
può essere espressa così: “Riproduci dentro e attorno
a te la legge che ti ha condotto e che ti mantiene all’esistenza”.
Questo è “l’imperativo categorico della vita spirituale, da sempre
presente nell’umanità, consegnatole nell’istante stesso della
sua creazione”.
Con le citazioni dal libro di Vito Mancuso potrei continuare
a lungo, ma ai fini del mio discorso credo di aver esposto l’essenziale.
Il libro mi aiuta a far capire quello che in fondo volevo
dire fin dall’inizio e che più mi sta a cuore. Io credo che
con l’aborto, con questo atto di violenza, di rottura e di sopraffazione
verso la vita nel suo stato primigenio e più innocente,
verso la vita quando è proprio vita che sgorga con tutta la potenza
e la meraviglia della creazione, introduciamo in noi stessi
e nel mondo una carica esplosiva di male. Introduciamo
un’ingiustizia così grande e così radicale che non può non riverberarsi
su tutto e su tutti. Ogni violenza e ogni uccisione,
comportando una carica crescente di dis-ordine rispetto al disegno
complessivo, introduce ombra al posto della luce e male
al posto del bene. Ma l’aborto lo fa nella misura più grande
e più temibile. Sopprimendo volontariamente proprio al suo
inizio una vita totalmente indifesa e tanto desiderosa di sgorgare,
noi facciamo violenza a tutta la natura ed è una violenza
devastante, è uno sfregio profondissimo, una ferita non rimarginabile
e sempre più purulenta, dalla quale si diffondono germi
di male che ci colonizzano sempre di più.
Visione apocalittica? Non lo so. So soltanto che se penso alla
meraviglia della vita, meraviglia che nel termine logos in quanto
relazione trova forse la sua evidenza più convincente, e poi
penso alla ferita micidiale dell’aborto, avverto un dolore infinito.
Quando un bambino è frantumato in quel modo, quando una
vita è oltraggiata in quel modo, in tutta quanta la realtà si apre
uno squarcio che è un buco nero. La luce sparisce e c’è solo disperazione.
Il dolore innocente e la sofferenza causata ai piccoli
ha sempre questo effetto, e ha ragione il ministro Giuliano
Amato quando dice che una riflessione sull’aborto deve indurci
a pensare anche ai bambini che muoiono per fame e per sete,
ai bambini maltrattai e sfruttati, ai bambini abusati. Ma mi
sembra di poter dire che con l’aborto lo sfregio è ancora più cattivo,
perché quel concepito, quel bambino, è quanto di più vicino
ci sia al principio ordinatore stesso. E’ appena uscito dal
“cantiere di Dio”, è uscito in quanto logos – relazione (di Dio con
l’uomo, dell’uomo con la donna, del bambino stesso con i suoi
genitori) - è appena uscito, in definitiva, come amore (l’amore è
relazione!) e che cosa succede? Ecco che qualcuno lo uccide, interrompe
ogni relazione con la violenza, con la morte. In questo
senso l’aborto è blasfemo.
Una rinascita, una nuova cultura ispirata alla vita e non alla
morte, all’amore e non alla solitudine, può venire da uomini e
donne con una visione religiosa dell’esistenza. Per religiosa non
intendo dire che debbano necessariamente appartenere a una
data religione. Uso la parola religione nel senso originario del
verbo religare, unire insieme, legare. Una visione religiosa ti fa
capire che non sei solo, che c’è qualcuno accanto a te, che ci sono
relazioni ovunque, che nessuno può sussistere senza l’aiuto e l’apporto
di altri, che il confronto non è sinonimo di pericolo ma di
scambio, che ripiegarsi su se stessi è un male, che l’accoglienza
dà la vera felicità perché riempie la vita di significato. Una visione
religiosa fa capire che la vera consolazione non sta nelle cose
che possediamo ma nell’essere e nella condivisione. Il cristianesimo
ha dato all’amore il volto di un uomo in carne e ossa e il Dio
dei cristiani è relazione nel senso più pieno perché il creatore si
è messo in relazione con le creature donando suo figlio. Sotto questo
aspetto la nostra civiltà è debitrice al cristianesimo di un dono
di valore inestimabile e decisivo per il nostro carattere, per la
nostra stessa identità. Ma chiunque condivida una visione religiosa
della vita, nel senso più ampio e meno confessionale, può
sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda. E mettersi a combattere
contro la cultura della morte e del buio.
Mancuso mi scuserà se lo saccheggio ancora un po’: “Proprio
perché l’essere è relazione, è così importante l’amore. Tutto infatti
si gioca sull’amore. Il senso dell’essere è la relazione, e l’amore
è la relazione perfetta che genera a sua volta essere”. Se gli
uomini e le donne fossero ancora capaci di pensare l’amore come
forza creatrice e non soltanto come emozione e sentimento, la cultura
della morte subirebbe un bel colpo e nel mondo ci sarebbe
più luce. Parola mia. Di bambino mai nato.
Aldo Maria Valli
* * *
Ho scritto queste pagine dopo una sorprendente concatenazione
di eventi. Quando l’Onu ha deciso la moratoria sulla pena
di morte ero a Gerusalemme per intervistare il cardinale Carlo
Maria Martini. Appena vidi la notizia, mandai a Europa, il giornale
con il quale collaboro, un articolo pieno di indignazione
per la gioia politicamente corretta manifestata per la moratoria
da quegli stessi settori culturali e politici che normalmente non
perdono occasione per schierarsi contro la vita sostenendo l’aborto
e l’eutanasia. Nell’articolo dicevo che il “nessuno tocchi
Caino” va benissimo, ma è ipocrita se non ci ricordiamo anche
di Abele. Nelle stesse ore, ma a mia insaputa, sul Foglio Giuliano
Ferrara, mosso da sentimenti simili ai miei, lanciava l’idea
della moratoria sull’aborto. Una sintonia totale, da me sottolineata
poi con una lettera al Foglio, ma nata a distanza e senza
esserci consultati. Negli stessi giorni mi è capitato anche di leggere
il libro di Vito Mancuso “L’anima e il suo destino”, che secondo
me è il contributo più illuminante che la teologia abbia
dato negli ultimi decenni a un serio dibattito sulla natura dell’uomo
e che, pagina dopo pagina, mi ha trasmesso una tale passione
per la vita, e per ciò che siamo, da indurmi a riprendere
in mano la penna (anzi la tastiera del computer) per dire qualcosa
sul continuo oltraggio alla vita perpetrato con l’aborto nel
silenzio generale e ormai nell’indifferenza. Come non bastassero
queste connessioni, proprio mentre leggevo il suo libro, il professor
Mancuso mi ha telefonato per chiedermi la disponibilità
a realizzare un progetto con lui e poco dopo ha incominciato a
collaborare con il Foglio.
Da tanti anni avevo deciso di non parlare più di aborto, dopo
aver constatato ripetutamente l’impossibilità di arrivare a un dialogo
costruttivo con chi la pensa diversamente da me. In giro c’è
già tanta violenza e sopraffazione che non volevo, con le mie parole,
creare altri conflitti e polemiche. Era una forma di quietismo.
Per le pagine che avete letto sono debitore soprattutto al congresso
“The early human life” tenutosi in Vaticano dal 6 all’8 settembre
2000 (in particolare agli interventi del professor Salvatore
Mancuso, del padre Angelo Serra e dell’allora monsignor Carlo
Caffarra), alla relazione su “Le prospettive della biopolitica”
tenuta dal professor Francesco D’Agostino a Pisa il 21 ottobre
2007 nell’ambito della quarantacinquesima Settimana sociale dei
cattolici, al mio vecchio libro “La verità di carta. I giornali e l’aborto”
(Edizioni Ares, 1986) e all’ancor più vecchia mia tesi di laurea
in “Teoria e tecnica dell’informazione. Modelli culturali nei
settimanali di massa in occasione dei referendum sul divorzio e
l’aborto” (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, facoltà
di Scienze politiche, anno accademico 1982-83) realizzata con il
caro e mai dimenticato professor Angelo Narducci.
Aldo Maria Valli
“Al paradigma biopolitico
che riduce il reale a dimensione
insignificante si deve dire no”
(F. D’Agostino, filosofo del diritto)
(foto Corbis)
(foto Corbis)
Con questo blog desidero dare la possibilita' a tutti di leggere articoli ,commenti ,interventi che mi aiutano a guardare la realta', a saperla leggere ed essere aiutati a vivere ogni circostanza positivamente. Mounier diceva "la vita e' arcigna con chi le mette il muso" (lettere sul dolore). E' importante saper abbracciare la realta' tutta per poter vivere la giornata con letizia.
sabato 19 gennaio 2008
PAROLE DI UN BAMBINO MAI NATO
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