sabato 19 gennaio 2008

PAROLE DI UN BAMBINO MAI NATO

  1. IL FOGLIO - MORATORIA VENERDÌ 18 GENNAIO 2008

    Un racconto di Aldo Maria Valli
    Permettete che mi presenti. Mi chiamo… Già, come mi chiamo?A dire il vero non lo so. Qualcuno mi chiama embrione, qualcuno feto, qualcuno prodotto del concepimento (che razza di nome!),qualcuno bambino. Potessi scegliere, sceglierei bambino.
    Ricordo bene che la mia mamma mi chiamava così, “il mio bambino”,quando ancora stavo dentro di lei.Povera mamma, quanto ha sofferto. Ero il suo figlio numero tre.
    Lei mi voleva, mi sentiva suo.



    Poi però rimase senza lavoro, con
    due figli da sfamare e un marito, mio padre, che c’era e non c’era,
    che c’era quando non doveva esserci e non c’era quando avevamo
    bisogno di lui. Un disastro. La mia mamma si spaventò, andò in
    panico. E rimase tremendamente sola. In quelle condizioni, decise
    di rinunciare a me. La capisco e non l’ho mai condannata.
    Però il fatto di capirla non elimina un altro fatto piuttosto evidente,
    e cioè che io sono stato soppresso. Espulso, anzi triturato e
    poi espulso. Non una bella fine, credetemi. Una fine che ha pesato
    e continua a pesare sulla mia povera mamma, che da allora
    non si è data pace. Magari non lo dice, ma io lo so: lei si è pentita
    di non avermi tenuto.
    Ci sono donne che vogliono fare di tutto per essere simili agli
    uomini, e pensano che poter decidere se avere o meno un figlio
    sia un modo per avvicinarsi alla condizione degli uomini. Che illusione.
    Mi basta pensare alla mia mamma per rendermi conto
    che le donne vanno bene così come sono, cioè donne, cioè ben diverse
    dagli uomini. Le donne hanno qualcosa di più degli uomini,
    non di meno. Le donne hanno la maternità, hanno la possibilità
    di diventare mamme e di dare la vita. Sono gli uomini che dovrebbero
    cercare di essere come le donne, caso mai. Dico la possibilità
    di diventare mamme, non l’obbligo, perché sarebbe assurdo
    obbligare una donna ad avere figli. Se non vuole, se vuole
    essere donna in quel modo lì, senza figli e senza maternità o con
    una modica quantità di figli e di maternità, faccia pure. E’ un suo
    diritto. Ma non si dica che tutto questo è un progresso, perché così
    la donna non è più donna ma meno donna. Così la donna si toglie
    qualcosa, si nega qualcosa che fa parte di lei e la caratterizza.
    E non si dica che per non avere figli, o averne di meno, ogni sistema
    va bene, compreso l’aborto e compresa quella cosiddetta
    pillola RU 486 che è un altro modo di abortire.
    In un mondo ben ordinato bisognerebbe aiutare la donna a essere
    più donna, non indurla a essere meno donna. Ma il mondo
    ben ordinato dov’è? Se ripenso a me e alla mia mamma, trovo solo
    tanta solitudine. E tanta medicina. Che è senz’altro utile per
    molte cose, ma non tanto utile per una mamma che si sente sola e
    disperata. Andò all’ospedale, la mia mamma. Ma non è all’ospedale
    che si trova la compagnia necessaria per affrontare certi problemi.
    Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di parlare e ascoltare,
    e invece le diedero un modulo. Con un modulo non si parla,
    e lui non parla. Anzi, sì: dice una cosa ben precisa: firmi qua. Se
    vuole abortire, metta la sua firma. Ma che razza di dialogo è mai
    questo con una donna in difficoltà, con una donna disperata?
    Nella nostra società dei moduli da firmare sembra che l’ospedale
    e la medicina possano risolvere tutto. Così una donna
    in difficoltà la si manda all’ospedale. Eppure si sa che gli ospedali
    tolgono la voglia di parlare anziché farla venire. E se uno si
    sente già solo per conto suo, dentro un ospedale si sente ancora
    più solo. Sul letto ti mettono un numero e da quel momento tu
    non sei più il signor tal dei tali ma sei un numero in mezzo a tanti
    altri numeri. Bella soluzione per qualcuno che ha solo bisogno
    di parlare, di essere consolato e magari di farsi anche un bel
    pianto. L’ospedale va benissimo se ti rompi una gamba, ma se ti
    si è rotto qualcosa dentro, se ti si è spezzato non un osso ma il
    cuore, se è la tua anima che ha fatto crack, mi dici a che cosa
    serve metterti in un letto con sopra un numero? A che cosa serve
    un modulo che non parla? Serve solo a renderti ancora più
    disperato e solo. Ed è precisamente questo ciò che successe alla
    mia mamma, quel giorno.
    Dicono che il feto o, se preferite, il prodotto del concepimento
    (che orrore di espressione, io preferisco sempre bambino) non
    senta dolore quando viene preso, triturato ed espulso dalla sua
    mamma. Sbagliato. La scienza ha dimostrato che il feto (bambino)
    il dolore lo sente, eccome. Solo che non lo può esprimere ad
    alta voce. E siccome non lo può esprimere, non può farsi sentire,
    c’è chi pensa che quel dolore lì non ci sia. E’ la solita vecchia storia:
    ciò che non si vede non c’è. Ma io c’ero, ve l’assicuro, e c’era
    anche il mio dolore.
    Ora io mi chiedo: nel nostro mondo di oggi si parla tanto di
    giustizia, progresso, diritti, eccetera eccetera. Ma che giustizia è
    mai quella che permette di prendere una donna con dentro un
    bambino, una donna triste e bisognosa di parlare con qualcuno,
    trasportarla in un anonimo letto di un anonimo ospedale e poi
    prendere il suo bambino, triturarlo e buttarlo fuori da lei, così,
    senza tante storie, solo perché un modulo è stato firmato? No,
    cari miei, qui c’è qualcosa che non va. Qui non c’è giustizia, non
    c’è progresso e non ci sono diritti.
    Il diritto di una donna, di una mamma, dovrebbe essere quello
    di far nascere il suo bambino, non quello di non farlo nascere.
    Quello di non farlo nascere è un falso diritto, è un non diritto, è un
    avere diritto al nulla, alla morte, alla negazione della vita. Mi sembra
    che in giro ci sia molta gente interessata più a questi non diritti
    che al diritto vero. C’è più gente interessata alla morte che alla
    vita, più gente che chiede di far avanzare il nulla piuttosto che
    l’essere. Anche qui c’è qualcosa che non va.
    2 della Costituzione (che riconosce e garantisce i diritti inviolabili
    dell’uomo), sia sull’articolo 31 (che impone la protezione della
    maternità in ogni momento in cui essa sussista, perciò fin dal
    concepimento). In sostanza la Corte costituzionale riconosceva
    che “fra i diritti inviolabili dell’uomo non può non collocarsi, sia
    pure con caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del
    concepito”. Un riconoscimento notevole, subito seguito però dalla
    precisazione che “non esiste equivalenza tra il diritto non solo
    alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come
    la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve
    ancora diventare”. Capito? Da una parte si diceva che il concepito
    possiede l’inviolabile e fondamentale diritto alla vita, dall’altra
    si sosteneva però che il diritto alla vita e alla salute della
    madre è più diritto di quello del figlio! Una vera aberrazione
    in termini logici oltre che giuridici.
    Ecco perché, credetemi, mi piace di più la scienza. Certo, anche
    gli scienziati sbagliano, ma almeno per la scienza ogni cosa
    deve avere un nome, e quando anche la scienza resta senza parole
    vuol dire che siamo davvero di fronte al massimo della meraviglia.
    Per spiegare le dinamiche comunicative tra una mamma e
    il bambino che porta in sé, gli scienziati parlano di dialogo, scambio,
    interazione. Ma quando devono dare una definizione complessiva
    di tutto ciò sapete che cosa dicono? Dicono che è un miracolo.
    Magari sono scienziati che non credono in Dio, però riconoscono
    il miracolo in senso letterale: qualcosa di così stupefacente
    e perfetto che lo si può solo ammirare e rimirare.
    Io resto sempre affascinato. La vita nasce da uno scambio reciproco,
    da un donarsi. Non solo nella sfera affettiva e sentimentale,
    ma anche nella sfera biologica. Non c’è vita senza dono
    di sé. I poeti lo dicono da sempre, ma adesso che lo dice anche
    la scienza c’è veramente da riflettere. E invece la politica
    che cosa fa? Discute solo di leggi. Delle quali c’è necessità, nessuno
    lo discute, ma non possono essere l’inizio e la fine di tutto.
    Né possono essere immutabili. C’è dell’altro. C’è la vita da
    riconoscere, prima di tutto.
    Nel suo libro Anatomia della distruttività umana Erich
    Fromm mette all’inizio della sua riflessione queste parole: “Le
    generazioni peggiorano sempre di più. Verrà un tempo in cui
    saranno talmente maligne da adorare il potere; il potere equivarrà
    a diritto per loro, e sparirà il rispetto per la buona volontà.
    Infine, quando l’uomo non sarà più capace di indignarsi
    per le ingiustizie o di vergognarsi in presenza della meschinità,
    Zeus lo distruggerà. Eppure, persino allora, ci sarebbe una speranza
    se soltanto la gente comune insorgesse e rovesciasse i tiranni
    che la opprimono”.
    Sono parole che rileggo spesso, qui dove mi trovo. La potenza
    dell’indignazione! Ma non c’è indignazione senza coscienza morale.
    Ecco perché il tiranno, qualunque sia il suo aspetto e il suo
    nome, prima di tutto vuole sopprimere la morale e costruirne una
    che si attagli ai suoi fini e alle sue mire.
    Se potessi, girerei con una macchina con sopra un megafono,
    come facevano i politici di una volta sotto elezioni. E attraverso
    il megafono diffonderei queste parole: “Uccidere un essere
    umano nell’utero della madre deve essere considerato un atto
    omicida come ucciderlo dopo la nascita. Per ciò che concerne il
    cervello, ad esempio, la nascita non rappresenta l’inizio dell’attività,
    ma semplicemente un cambiamento di stato. Se venissero
    diffuse illustrazioni descrittive del feto e delle sue reazioni,
    tutti potrebbero vedere che l’aborto uccide non tessuti malfermi
    che alla fine diventeranno bambini, ma veri e propri esseri
    umani”. Queste parole non le ha dette un papa o un monsignore,
    il che sarebbe abbastanza normale. Le ha dette uno scienziato,
    e non uno qualunque: il premio Nobel per la medicina
    1983, il neurofisiologo sir John Eccles.
    Ora, se prendiamo in considerazione la legge che dal 1978 ha
    introdotto in Italia l’aborto cosiddetto legale (legge di cui molti
    parlano senza averla mai letta), ci accorgiamo che nei primi tre
    mesi di gravidanza la donna può chiedere di essere sottoposta all’aborto
    in presenza di “circostanze per le quali la prosecuzione
    della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio
    pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo
    stato di salute, o alle sue condizioni sociali, o economiche o familiari,
    o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni
    di anomalie o malformazioni del concepito”. Dunque, ci
    deve essere un serio pericolo. Va bene, ma chi lo decide se c’è
    questo serio pericolo? Lo decide “il consultorio e la struttura socio-
    sanitaria”. Cioè medici, psicologi e altri esperti che verificano.
    Dal punto di vista medico la verifica può avere una base scientifica,
    ma dal punto di vista sociale, economico e familiare come
    misurare il grado di pericolo? La legge dice che è necessario
    “promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna,
    offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza
    sia dopo il parto”. Insomma bisogna fare il possibile perché cambi
    idea e non abortisca. Ma nella pratica quando una donna ha
    deciso ha deciso. E’ qui lo squilibrio fra il suo diritto e quello del
    bambino. In pratica fino al terzo mese di gravidanza l’aborto non
    è mai rifiutabile, e “la struttura socio-sanitaria pubblica” entro
    questo limite ha l’obbligo di soddisfare la richiesta.
    Fin qui la legge, che parla con il linguaggio delle leggi. Ma cerchiamo
    di vedere la cosa in sé. Anzi, la persona in sé. Se diamo
    un’occhiata, anche sommaria, allo sviluppo fisiologico del feto ci
    accorgiamo che il limite previsto, quello dei novanta giorni, semplicemente
    non ha senso: è assurdo, ingiustificato e pretestuoso.
    Non al terzo mese, ma già alla terza settimana, se vogliamo introdurre
    una scansione temporale, siamo in presenza di un embrione
    perfettamente riconoscibile. Molto piccolo, certo, ma già in atto,
    già al lavoro attraverso quella fitta trama di relazioni di cui vi
    parlavo prima. Se poi andiamo a vedere che cosa succede al terzo
    mese, cioè in corrispondenza del limite fissato dalla legge, possiamo
    verificare che il bambino anche esteriormente ha ormai
    fattezze umane ben precise. I primi nuclei di tessuto osseo si vanno
    formando rapidamente e all’altezza del torace si nota l’ombra
    delle costole. Le gambe si distendono, le mani sono formate, le
    palpebre incominciano a delinearsi. Alla nascita mancano sei
    mesi, ma il volto è disegnato con precisione. Il naso è un po’
    schiacciato, l’orecchio un capolavoro in miniatura. Gli occhi sono
    chiusi, ma al di là di un sottile strato di epidermide traspare il
    pigmento scuro della retina. Braccia e gambe sono in continuo
    movimento, le labbra si aprono e si chiudono, la testa si volta ripetutamente.
    Io ero così. Ebbene, è proprio questo essere umano,
    questa persona, che la legge consente di uccidere. E tutto ciò dovrebbe
    essere considerato normale? Tutto ciò dovrebbe essere
    consentito come diritto? Tutto ciò può avvenire ogni giorno senza
    che si provi un sussulto, un rimorso, un’inquietudine interiore?
    Dopo il terzo mese di gravidanza la legge introduce una distinzione:
    per procedere all’aborto occorre infatti che ci sia o
    “un grave pericolo per la vita della donna” o “siano accertati
    processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie
    o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo
    per la salute fisica o psichica della donna”. Qui il pericolo
    da serio si è fatto grave, e in gioco c’è la vita stessa della donna
    oppure la sua “salute fisica o psichica” nel caso in cui le indagini
    prenatali scoprano che il bambino è malato o malformato.
    Ecco, ci si ricorda dell’essere umano in gestazione solo quando
    si tratta di segnalarne i difetti. E comunque le ragioni del diverso
    trattamento giuridico fra i primi novanta giorni e il periodo
    successivo sono determinate non dal fatto che lì c’è un
    bambino sempre più formato, ma dalla maggiore pericolosità
    dell’intervento di aborto per la mamma. Senza contare che il riferimento
    alla salute “psichica” equivale spesso ad aborti eseguiti
    sulla base di generici problemi psicologici che nessuno si
    preoccupa di verificare seriamente.
    E il padre del bambino? La legge lo tira in ballo in quanto “padre
    del concepito” per dire che anche lui può andare al consultorio
    ma solo “ove la donna lo consenta”. Ove non lo consenta, tanti
    saluti a lui oltre che al concepito. Ma chi l’ha detto che la gravidanza
    e la possibilità di interromperla sono solo una faccenda
    della mamma (anzi della “donna”, come dice la legge, il cui testo
    si guarda bene dall’usare la parola “madre”)?
    Questo delle parole è un altro fronte su cui riflettere. Gli abortisti
    raramente parlano di aborto. Parlano invece di interruzione
    volontaria della gravidanza o, addirittura, di ivg. Evitare di
    chiamare le cose con il loro nome fa sempre il gioco di chi vuole
    mettere a tacere la coscienza morale. La rimozione della parola
    ci introduce in un mondo lontanissimo dalla realtà. E se la realtà
    è lontana, lontani sono anche i doveri e gli obblighi morali che
    abbiamo nei suoi confronti. Italo Calvino ha chiamato la fuga dalle
    parole “terrore semantico”. Il risultato è l’antilingua, un gergo
    in cui i significati sono costantemente allontanati, “relegati in
    fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono
    dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente”.
    Qualcosa di tanto vago e sfuggente da non crearci obblighi mo-

    Forse non dovrei essere io a dirlo, io che ero così piccolo e che
    poi sono stato triturato e non ho mai avuto un nome. Però mi sembra
    che se i non diritti prendono il posto dei diritti si va verso una
    brutta fine. Se il nulla prevale sulla vita, se la morte si fa strada
    al posto del nascere, entriamo in una galleria buia senza sapere
    dove ci porterà. E le gallerie buie riservano sempre brutte sorprese.
    Succede anche di scoprire che non ci sia l’uscita. C’è il buio
    e basta. E a quel punto non puoi neanche fare marcia indietro.
    Poco prima di essere triturato ed espulso lanciai un segnale.
    A modo mio, certo, ma lo lanciai. Chiesi a mia mamma di ripensarci,
    di fermarsi, ma era troppo tardi. Non vi sembri strano che
    io parli di segnale. Dovete sapere che il feto (bambino) e la mamma
    comunicano. Non lo dico io, lo dice la scienza. Fin dai primissimi
    istanti della sua presenza nel corpo della mamma, l’embrione
    le invia cellule staminali e queste, grazie alla tolleranza
    immunitaria della madre verso il figlio, vanno a colonizzare il midollo
    materno. E, questo è il bello, non se ne vanno più. Restano
    lì per sempre, così che ogni mamma si porta dentro qualcosa del
    figlio, anche se il figlio in questione nel frattempo è stato fatto a
    pezzettini ed espulso.
    Come le so queste cose? Beh, qui dove mi trovo si parla, ci si
    confronta, ci si documenta. Qui dove mi trovo c’è più vita di quanto
    si possa immaginare. Anzi, è proprio la vita al centro dei nostri
    interessi. Così ho imparato non solo che il figlio eredita il cinquanta
    per cento del patrimonio genetico della mamma (e quindi
    quando una mamma abortisce uccide qualcosa di sé) ma anche
    che il feto (bambino) attraverso l’organismo materno è continuamente
    in contatto con il mondo esterno e che la madre subisce, a
    opera del figlio, modificazioni a lungo termine, che non si esauriscono
    affatto con il periodo della gestazione.
    Chiedetelo agli scienziati, loro ve lo confermeranno. Fin dalle
    primissime fasi di suddivisione cellulare, dall’embrione partono
    messaggi diretti alla madre, informazioni che servono a far adattare
    l’organismo della donna alla presenza del nuovo essere vivente.
    Dopo l’impianto dell’embrione, il dialogo si fa sempre più
    intenso, sia attraverso il sangue che attraverso le cellule. Mi viene
    da ridere quando sento parlare di banda larga e comunicazione
    senza fili. Dentro la pancia di una mamma, lei e il suo bambino
    fanno molto di più. E’ tutto un comunicare. Ci sono le prove
    che cellule staminali del figlio passano alla madre in gran quantità,
    si impiantano nel midollo materno e restano lì a lungo, anche
    per decine d’anni. Ma anche il padre, attraverso il figlio, lascia a
    lungo traccia di sé nel corpo della madre. Tutti comunicano con
    tutti. Si può dire che, in un certo senso, la gravidanza non dura le
    quaranta settimane canoniche, ma tutta la vita.
    Mi chiedo perché queste cose non vengano dette e spiegate. Si
    parla sempre di come distruggere, di come non avere la vita, di
    come evitare di fabbricarla o come smantellarla (con pillole o in
    altro modo) e non si parla mai di queste meraviglie, di quella meraviglia
    che è la vita al suo primissimo nascere.
    La cosa singolare è che questa meraviglia ormai la impari più
    dagli scienziati che dai filosofi o dai teologi. Uno pensa agli
    scienziati come a gente fredda, impegnata solo a sperimentare.
    Ma gli scienziati sono di carne e ossa, e più vanno avanti nella ricerca
    sulla vita che sboccia e più restano a bocca aperta. Sì, tutti
    lì a bocca aperta con l’occhio sul microscopio. Si scopre così, e
    anche questo è un dato ormai certo, che fin dai primissimi istanti
    dell’incontro tra lo spermatozoo e l’ovocita si può parlare, anzi
    si deve parlare a voler essere onesti, di presenza a tutti gli effetti
    di un essere umano. E, se ci pensiamo, non potrebbe essere
    altrimenti. Lo sviluppo della vita è un continuum, un concatenarsi
    di eventi all’interno del quale fin dall’inizio ogni istante ha
    una sua precisa funzione in vista dell’istante successivo. Ecco
    perché è scientificamente privo di senso parlare di pre-embrione.
    In questo concatenarsi di fatti tutti necessari e collegati non
    c’è un prima e un dopo: c’è la continuità.
    Ho studiato, qui dove mi trovo. Dopo essere stato triturato ed
    espulso mi sembrava quasi di non essere mai esistito. Terribile.
    Ma io c’ero. Qui mi hanno aiutato: recupera te stesso, mi hanno
    detto. E così mi sono messo a studiare. Scoprendo che l’uomo incomincia
    con la singamia, che sarebbe la fusione di spermatozoo
    e ovocita. E lo zigote ha fin da subito un orientamento, una sua organizzazione,
    rivolta al futuro. Si mette al lavoro immediatamente,
    senza pre e senza ma. Non c’è un indistinto “grappolo di cellule”.
    C’è un progetto di vita in possesso di un’identità data dal patrimonio
    genetico. Non è vero che si tratta di una vita potenziale,
    come sostiene qualcuno. E’ una vita in atto!
    E così la scienza ci dà le basi, le fondamenta concrete sulle
    quali possiamo costruire un discorso a proposito dello statuto
    dell’embrione umano. Il che significa rispondere alla domanda:
    chi è l’embrione?
    La risposta certa è che l’embrione è un individuo umano. Sono
    tre gli elementi che ci permettono di considerarlo tale: l’unità del
    suo essere, la sua continuità e l’ininterrotta gradualità che ne contraddistingue
    lo sviluppo. E poiché ciò che connota l’individuo
    umano, in presenza di questi tre elementi, è la personalità, possiamo
    dire che abbiamo a che fare con una persona. Lo ripeto, a
    scanso di equivoci: non esistono persone potenziali, ma solo persone
    in atto. Quindi, in quanto persona, l’embrione possiede quella
    dignità inalienabile che ci chiede di considerarlo sempre un fine
    e mai un mezzo, sempre un portatore di diritti, a partire dal diritto
    alla vita, e non un oggetto a nostra disposizione.
    Nella storia dell’umanità ci sono sempre state persone discriminate
    perché considerate mancanti di qualcosa. Ricordate
    gli schiavi, esclusi dal diritto di cittadinanza? Con l’idea di
    pre-embrione e con tutte le altre idee che in un modo o nell’altro
    ci parlano di individuo fermo a uno stato potenziale, si ripropone
    la stessa logica discriminante. Quando si richiede un
    titolo superiore per esigere rispetto, vuol dire che qualcuno ha
    già deciso di discriminare. Sei un pre-embrione? Ti posso eliminare.
    Sei un vecchietto che non ha più efficienza fisica e capacità
    produttiva? Ti posso eliminare. Sei uno zingaro senza casa
    e magari un po’ sporco? Ti posso eliminare. Sei uno con gli
    occhi marroni e non azzurro cielo? Ti posso eliminare. Una volta
    introdotto il principio secondo il quale il rispetto va dato solo
    a chi possiede un titolo superiore, la discriminazione scatta
    automaticamente come una tagliola.
    Qui dove mi trovo do un’occhiata ai giornali e mi prende lo
    sconforto. La politica, impegnata in una campagna elettorale senza
    fine, è incapace di accogliere ed elaborare tutto ciò che non
    ha immediati fini di potere e di consenso. E così nessuno pensa
    alla meraviglia della vita. Si discute solo di leggi e controleggi, in
    una confusione crescente dove alla fine non si sa più di che cosa
    si sta parlando e le parole perdono ogni significato allontanandosi
    sempre più dalla cosa in sé.
    Ho detto la politica, ma potrei dire anche il diritto. Prima che
    entrasse in vigore la legge 194 del 1978, la Corte costituzionale
    italiana, con una sentenza del 18 febbraio 1975, estese la non punibilità
    per l’aborto procurato a donna consenziente. Fondò la
    sua decisione sull’articolo 32 della Costituzione (diritto alla salute)
    e stabilì che l’aborto procurato diventasse non più punibile
    quando fosse operato per evitare un pericolo o un danno per
    la salute della madre, purché tale pericolo o danno fosse grave
    e reale, non fosse evitabile in altro modo che con l’aborto e fosse
    stato previamente accertato dal medico. E’ importante qui
    sottolineare che la sentenza del 1975, pur allargando notevolmente
    le possibilità di aborto, riconosceva il fondamento costituzionale
    della tutela del diritto alla vita da parte del concepito.
    La doverosità di questo diritto veniva basata sia sull’articolo
    rali. Non è un gioco linguistico. Secondo Calvino, e io sono d’accordo
    con lui, la faccenda è tremendamente seria, perché chi
    scappa dalle parole non vuole avere un vero rapporto con la vita.
    Chi scappa dalle parole odia la vita e odia se stesso.
    Con le parole la stampa giocò molto all’epoca del referendum
    sull’aborto del 1981. Se si va a vedere negli archivi (lo ripeto, qui
    dove mi trovo abbiamo possibilità straordinarie) è possibile ricostruire
    il clima di quei mesi. Il settimanale Panorama una volta
    pubblicò un articolo con la testimonianza di un medico che si
    vantava di praticare tremilacinquecento aborti all’anno, al ritmo
    di cinquanta, sessanta alla settimana. Dove? A Piacenza, presentata
    nell’inchiesta come città simbolo dell’Italia efficiente e
    progressista. L’aborto come un prodotto da fabbrica di montaggio,
    anzi di smontaggio. E alla domanda su come quel medico
    procurasse gli aborti, ecco la risposta: “Metodo Karman, due minuti
    d’orologio. E dopo un paio d’ore, o al massimo alla sera, tutte
    le pazienti vengono rimandate a casa”. Questa sì che è efficienza
    padana! E ovviamente non una sola parola sul che cosa è
    il metodo Karman, ovvero l’aspirazione del bambino attraverso
    una cannula e il successivo passaggio di un cucchiaino sulle pareti
    dell’utero per accertarsi che sia “ben pulito”.
    A proposito di parole. Tempo fa mi è capitato di ascoltare una
    curiosa discussione tra bambini in età da prima comunione. Erano
    alle prese con l’Atto di dolore e uno di loro, un certo Robertino,
    ripeteva: “Mio Dio, mi pento e mi tolgo…”. Le sue compagne
    di catechismo, due bimbette sveglie, lo ripresero: “Ma che dici?
    Mi dolgo, non mi tolgo! Mi pento e mi dolgo! Significa che nel pentirmi
    provo dolore, mi dispiace per quello che ho fatto”.
    Devo dire che non è male la versione dell’Atto di dolore inventata
    da quel Robertino. Se tante persone si pentissero e contemporaneamente
    si togliessero sarebbe un gran vantaggio per
    tutti. Penso ai vari azzeccagarbugli e ai fanfaroni che da giornali
    e tv pretendono di impartire lezioni senza sapere di che cosa
    stanno parlando o sapendolo fin troppo bene, per fini che niente
    hanno a che fare con i problemi in sé. Si pentissero e si togliessero
    di torno, una buona volta. Invece siamo impestati. A
    ogni ora del giorno e della notte, eccoli lì a pontificare. Con parole
    sempre più vaghe, sempre più lontane dalla realtà di carne
    e di sangue, sempre più false.
    Le falsità vanno sempre smascherate, ma quando c’è di mezzo
    il diritto alla vita sembra così difficile. Qualcuno ha interesse a
    mescolare le carte, a confondere le acque. Pensiamo alla fecondazione
    assistita. La cultura a favore della manipolazione indiscriminata
    ha diffuso veri e propri dogmi.
    Il primo è che la riproduzione medicalmente assistita sia una
    via efficace per avere bambini. I dati dicono che non è così. Solo
    una minoranza delle donne che si sottopongono all’impianto di
    embrioni prodotti in vitro riesce ad avere il bambino desiderato,
    e in quarant’anni le percentuali non si sono alzate. Secondo dogma
    è che la ricerca sulle cellule staminali embrionali sia molto
    promettente per arrivare alla cura di gravi patologie, quando invece
    la scienza ha dimostrato che la ricerca sulle staminali embrionali,
    largamente infruttuosa, non fa che distogliere risorse da
    quella sulle staminali adulte, che al contrario continua a dare risultati
    più che incoraggianti. Terzo dogma è che la clonazione di
    embrioni umani a scopo terapeutico (per intenderci, come pezzi
    di ricambio) sia utile, mentre la scienza l’ha ormai giudicata ingiustificata.
    Quarto dogma è che con la fecondazione assistita si
    possano avere figli più sani, quando invece è vero il contrario,
    perché, oltre a gravi rischi per la donna, rispetto ai bambini nati
    in modo naturale la fecondazione artificiale produce più prematuri
    e bambini sottopeso e il rischio di handicap è più alto.
    Altro dogma è che su questi temi della vita sia in corso una
    battaglia tra cultura laica e cultura cattolica quando invece la
    questione riguarda il rapporto tra noi tutti (credenti e non credenti)
    e la nostra esistenza, tra la morale e la scienza, tra la coscienza
    e la legge. E che dire dell’altro dogma, secondo il quale
    tutto ciò che la scienza permette tecnicamente di fare va per
    ciò stesso fatto, mentre la storia e l’esperienza comune dimostrano
    che l’uso della tecnica senza valutazione morale si ritorce
    sempre contro l’uomo?
    Si dice spesso che la chiesa blocca le discussioni a causa delle
    sue visioni dogmatiche, ma a me sembra che sia la cosiddetta
    cultura laica a essere piena di dogmi. Non è per caso un dogma
    laico, anzi laicista, anche quello che dice che chi si interroga
    apertamente su questi problemi lo fa col fine di mettere in
    discussione la legge che ha liberalizzato l’aborto? A me sembra
    vero, semmai, il contrario, e cioè che la legge 194 ormai viene
    usata a sua volta come un dogma intoccabile. E qui, come in un
    tragico gioco dell’oca, arriviamo all’ultimo dogma che è poi anche
    il primo e che dipinge il nascituro come individuo in potenza
    e non in atto. Vedi sopra.
    Alexis de Tocqueville ha insegnato a diffidare delle democrazie
    che basandosi sulla forza della maggioranza mettono il bavaglio
    alle minoranze e così si comportano come dittature. Oggi bisogna
    diffidare anche di tutti quelli che dipingono se stessi come
    difensori della vita. Occorre ascoltarli bene. Prendiamo il caso
    della moratoria sulla pena di morte. Io sono felicissimo che ci si
    sia arrivati, perché la sola idea che uno stato, un tribunale, insomma
    un consesso d’uomini, in base a una legge umana, possa
    togliere la vita a qualcuno mi fa orrore. Ma come gioire per la moratoria
    sulla pena di morte senza mai menzionare nemmeno di
    sfuggita il dramma dell’aborto? Dicono che sono due cose diverse.
    E’ vero. Ma il diritto alla vita è lo stesso. La discriminazione è
    la stessa. Nel momento in cui qualcuno decide che qualcun altro
    non ha titolo per vivere, la tagliola scatta inesorabile. E sempre
    tagliola è, che si chiami “interruzione volontaria della gravidanza”
    o “pena capitale” o “dolce morte”.
    Nessuno tocchi Caino mi va benissimo, ma vogliamo per favore
    dire qualcosa anche del povero Abele? Mi sembra che ne abbia
    diritto, dopo tutto. Essendo uno dei milioni di bambini non
    nati “grazie” all’ivg, mi sento preso in giro oltre che parte in causa.
    Se mi avessero sepolto mi rivolterei nella mia minuscola tomba.
    Ma come, a me mi avete ammazzato senza tanti complimenti,
    come non si fa neanche con gli animali di casa (quando Fido o
    Fufi devono essere soppressi è una tragedia familiare, e c’è gente
    che fa il funerale al cane e al gatto e gli mette pure la lapide
    in giardino), avete fatto una legge che permette di farmi fuori anche
    se sono il più innocente fra gli innocenti e il più debole fra i
    deboli, e adesso tutti lì a rallegrarsi per la moratoria sulla pena
    di morte, tutti lì a parlare di grande risultato e a blaterare di civiltà,
    progresso, giustizia eccetera eccetera. Ma dov’è la giustizia
    ogni volta che in un asettico ospedale una vita umana viene asetticamente
    fatta fuori prima ancora che abbia visto la luce? Che
    civiltà c’è mai in un omicidio praticato ogni giorno, migliaia di
    volte al giorno, in nome di una legge fatta dai grandi contro i piccoli,
    dai forti contro i deboli? E non parlatemi di liberalismo, per
    favore! Il vero liberale vuole prima di tutto le pari opportunità.
    Ma che razza di pari opportunità sono garantite là dove la persona
    non ancora venuta alla luce, solo perché non ci sta davanti
    agli occhi, può essere eliminata da una legge che non le garantisce
    il primo e fondamentale diritto alla vita? Il vero liberale secondo
    me di fronte all’aborto dovrebbe provare lo stesso orrore
    che prova per le condanne a morte.
    Una giustizia che adotta due pesi e due misure non è una giustizia,
    è una ingiustizia. E se è sancita per legge è un’ingiustizia
    doppia. Il peso di un bambino non ancora venuto alla luce è un
    peso piccolissimo, quasi nullo. Ma la bilancia della giustizia dovrebbe
    essere sensibile proprio a questi pesi piuma.
    “Uccidere un essere umano
    nell’utero di una madre deve
    essere considerato un atto omicida”
    (J. Eccles, Nobel per la Medicina)
    ANNO XIII NUMERO 15 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO - MORATORIA VENERDÌ 18 GENNAIO 2008
    In un vero stato liberale proprio quel bambino lì, proprio quel
    cittadino lì, così piccolo, dovrebbe essere il più tutelato. Una questione
    che si presenta, e si presenterà sempre di più, anche per i
    malati e per i vecchi, sulle cui teste già si aggira la mannaia dell’eutanasia
    travestita da pietà. Li vedo già i progetti molto politicamente
    corretti: una bella iniezione e via. Via il dolore, via la
    vecchiaia, via la malattia, via la sofferenza. Tutto asetticamente,
    senza sporcare, senza disturbare. E sento già la giustificazione formale:
    lo facciamo per loro, per salvaguardare la loro dignità! Ecco
    la menzogna estrema. L’idea di dignità asservita alla morte. Il
    papa polacco, quel Giovanni Paolo II che sembra già tanto lontano,
    queste cose le diceva. E anche lui si starà rivoltando nella sua
    semplice tomba laggiù, nelle grotte vaticane.
    Non chiedetemi come ho fatto (qui dove mi trovo abbiamo possibilità
    infinite), ma ho saputo che attualmente nel comitato nazionale
    di bioetica si sta discutendo questo problema: si può fare
    sperimentazione scientifica sugli embrioni umani morti? La risposta
    intuitiva è sì. Dato che si fa sui cadaveri, perché non dovremmo
    farla sugli embrioni morti? Ma, badate bene, la domanda
    precedente ne determina un’altra: chi è che definisce morto
    un embrione? Vengono chiamati i biologi e questi dicono: oggi come
    oggi non abbiamo gli strumenti scientifici per stabilire la morte
    degli embrioni. Poco male, dicono i politici legislatori. Facciamo
    così: comportiamoci come se fossero morti quegli embrioni
    che non sono più impiantabili nell’utero di una donna. Ecco la
    grande questione che sta dinnanzi a tutti noi: è questo come se
    che il politico introduce pretendendo di stabilire un punto fermo
    e una certezza giuridicamente vincolante là dove né la scienza né
    tanto meno il senso comune supportano questa certezza. Con la
    194 è avvenuta la stessa cosa: comportiamoci come se fino al terzo
    mese di gravidanza non avessimo proprio un uomo ma qualcosa
    di meno, un pre-uomo. La stessa cosa fanno i razzisti quando
    picchiano e uccidono quelli con la pelle diversa dalla loro: comportiamoci
    come se questa gente non appartenesse proprio al genere
    umano ma a un genere inferiore. E la stessa cosa succederà
    presto o tardi con l’eutanasia: comportiamoci come se questo vecchio,
    o questo malato, o questo handicappato non avesse più le
    condizioni minime richieste per vivere.
    Questo gioco del come se, che è spesso un gioco al massacro, ha
    un nome: si chiama biopolitica e si esprime in una decisione o
    una volontà normativa, che può anche assumere la forma di una
    legge votata a maggioranza in un parlamento e ratificata da un referendum,
    in cui si dice che la verità scientifica è importante ma
    in fondo non troppo, e che anche la coscienza morale è importante
    ma in fondo non troppo, perché ciò che è veramente importante
    è solo come noi, politici legislatori, deliberiamo sulla vita.
    In questa prospettiva biopolitica il vivente non ha un nome,
    non ha un’identità, non ha una dignità sua propria. E’ un essere
    amorfo e indistinto. Soprattutto è qualcuno che non può dire nulla
    su di sé. Il bambino non ancora nato non può dire nulla su di
    sé. Il malato terminale che non è in grado di comunicare e che
    magari, se potesse esprimersi, vorrebbe le cure palliative, non
    può dire nulla su di sé. L’unica entità che può parlare a nome loro
    è quella biopolitica. E’ solo la politica che qualifica il vivente,
    con la sua autorità e la sua verità. Certe volte lo fa autorizzando
    alcune pratiche, altre volte lo fa negandole. Ma sempre a partire
    da una volontà dispositiva che non considera proprio dovere avere
    agganci con la realtà. L’unico aggancio consentito è con l’immagine
    di realtà che la politica stessa ha deciso di consentire.
    Un filosofo del diritto che studia questi problemi, Francesco
    D’Agostino, ha detto: “Ritengo che di fronte a questo paradigma
    biopolitico, che riduce l’oggettività del reale a dimensione amorfa
    e insignificante, si debba dire no. Un no che non ha alcuna motivazione
    confessionale ma che nasce semplicemente dalla verità
    delle cose, in nome, prima di tutto, della salvezza della scienza”:
    Già, proprio gli scienziati sono i primi che hanno bisogno di essere
    salvati dall’avanzare della biopolitica. Contro di loro, contro
    l’evidenza di ciò che loro studiano, la biopolitica esercita la massima
    pressione perché non può tollerare che ci sia una verità al
    di fuori della propria.
    L’ambito nel quale i biopolitici si esercitano di preferenza è la
    famiglia, com’è evidente se pensiamo alle politiche demografiche
    adottate in paesi come la Cina o l’India, politiche che hanno portato
    a disastri umanitari incalcolabili, con un aumento impressionante
    di neonaticidi occulti e un incredibile squilibrio fra maschi
    e femmine (in Cina si calcola che almeno otto milioni di maschi
    della stessa generazione non abbiano femmine con cui mettere
    su famiglia perché le bambine vengono uccise con l’aborto,
    dopo la diagnosi prenatale, o appena nate).
    I biopolitici usano abbondantemente l’antilingua di cui parla
    Italo Calvino. Un disegno di legge sull’eutanasia presentato in Italia
    nella scorsa legislatura era intitolato “Norme per regolamentare
    l’interruzione volontaria della sopravvivenza”. Espressione
    che poi nel testo, sull’esempio di quanto già fatto con l’ivg, è diventata
    ivs, sigla del tutto sterilizzata e allontanata dalla cosa in
    sé, cioè dalla morte di una persona.
    Nella logica legalistica e volutamente astratta della biopolitica
    gli esseri umani dovrebbero smetterla di pensare se stessi in
    quanto persone viventi. Dovrebbero piuttosto reinterpretarsi come
    coloro che sopravvivono solo perché possiedono un’identità
    biologica normativamente accettata in quanto compatibile con la
    vita. Sembra una cosa complicata ma il risultato è molto semplice:
    è sempre il più forte che decide per il più debole, il più tutelato
    che decide per il meno tutelato. Magari con la scusa di proteggerne
    la dignità e la libertà.
    Ma non sono solo gli stati e non solo i governi a procedere secondo
    logiche biopolitiche. Anche i privati possono farlo, come
    nel caso delle multinazionali farmaceutiche che producono medicine
    allo scopo di incrementare i propri guadagni, senza alcun
    interesse per i diritti dei malati. Anche qui è il forte che decide
    per il debole.
    Ora il fronte su cui la biopolitica sta allungando la sua ombra
    è quello del testamento biologico. Finché il testamento rappresenta
    la decisione di una persona consapevole di rinunciare alle
    terapie siamo fuori dall’orizzonte biopolitico (anche se sono sempre
    possibili pressioni e condizionamenti culturali). Però in situazioni
    di malattia può succedere che questa capacità di sguardo
    su se stessi non ci sia più o sia fortemente limitata. E allora chi
    decide, e come? E’ qui che la biopolitica si fa avanti con il meccanismo
    del come se. Esempio: l’Olanda. Qui l’eutanasia è reato,
    ma se il malato decide di mettere fine alla sua vita e per questo
    chiede al medico un aiuto, il medico non è penalmente perseguibile.
    Il fatto è che questa legge viene applicata anche ai malati
    psichiatrici. Anche se il malato psichiatrico, per definizione, non
    può avere su se stesso uno sguardo lucido, è invalsa nella prassi
    la convinzione secondo cui il medico che si prende cura di lui è
    il miglior interprete della volontà che il malato esprimerebbe se
    fosse in grado di esprimerla. Facciamo come se questo malato fosse
    lucido e volesse morire.
    Ma torniamo all’aborto. I numeri, come si suol dire, parlano
    chiaro. Secondo i dati ufficiali in Italia ogni anno gli aborti volontari
    sono decine e decine di migliaia. Qualcuno dice che stanno diminuendo,
    qualcuno dice il contrario. Sta di fatto che siamo in presenza
    di numeri altissimi, di fronte ai quali c’è una sola domanda:
    cifre del genere possono lasciarci tranquilli? E poi ci sono tutti gli
    altri paesi in cui l’aborto è stato ed è usato come metodo contraccettivo
    o eugenetico. Qui non è questione di cattolici e non cattolici,
    credenti o non credenti. Qui è questione di civiltà e di giustizia.
    Tutti dicono che l’aborto è un dramma, ma che cosa si fa veramente
    per evitare questo dramma? I dati rivelano che da noi l’aborto
    volontario viene usato prevalentemente come rimedio al
    fallimento della contraccezione. Era questo che voleva la legge?
    Se prendiamo la 194 vediamo che il legislatore si era posto come
    obiettivo primario non quello di favorire l’aborto ma, per
    quanto possibile, di evitarlo. La legge dice che i consultori hanno
    il compito di assistere la donna”contribuendo a far superare le
    cause” che potrebbero indurla ad abortire. E’ un impegno reale,
    non generico, tanto è vero che i consultori “sulla base di appositi
    regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti
    dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni
    sociali di base e di associazioni del volontariato, che possano anche
    aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
    Che l’aborto non debba essere un mezzo di controllo delle nascite
    e che lo stato debba tutelare la vita umana fin dal suo inizio
    è scritto nella legge, proprio in apertura, come impegno programmatico:
    “Lo stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente
    e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela
    la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza,
    di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo
    delle nascite. Lo stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle
    proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi
    socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare
    che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite”.
    Che cosa significa “procreazione cosciente e responsabile”?
    Che la mamma ha solo il diritto di abortire o anche quello di
    non abortire? Di fronte a decine di migliaia di aborti all’anno, e
    considerato che per la legge ogni aborto praticato è un fallimento
    e non un successo della legge stessa, una società e una politica
    moralmente adulte che cosa dovrebbero fare se non attivarsi
    in tutti i modi perché l’azione dissuasiva sia resa sempre
    più efficace e concreta?
    Lo scandalo non è l’aborto. L’aborto è davvero sofferenza e
    dramma. Lo scandalo è l’indifferenza che lo circonda, è la pretesa
    di trasformarlo in atto burocratico, è il silenzio in cui avviene,
    come se sopprimere una vita fosse ormai fatto consuetudinario
    e normale.
    “Normale” deriva da norma, ma non tutto ciò che è regolato da
    norme è per ciò stesso normale e scontato per la coscienza. Il dottor
    Bernard Nathanson, ex abortista incallito poi convertitosi alla
    causa antiaborista, nel suo celebre filmato “The silent scream”,
    l’urlo silenzioso, ha mostrato nei dettagli la fine raccapricciante
    che tocca a un bambino aspirato e fatto a pezzi nell’utero della
    madre. Per sconfiggere l’aborto forse basterebbe mostrare quelle
    immagini, ma non mi sembra giusto costruire una concezione
    morale sul raccapriccio. Spero che sia ancora possibile fare appello
    semplicemente ai principi morali, primo fra tutti quel “non
    fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” che è patrimonio
    della civiltà cristiana.
    In quel processo di allontanamento dalla realtà che è tipico
    della biopolitica il nuovo fronte è la pillola abortiva RU 486. Ecco
    qua un’altra sigla. Quando c’è di mezzo una sigla, io sento odore
    di bruciato. Per qualcuno la pillola abortiva è solo un’alternativa
    alla soluzione chirurgica, ma io non credo che sia così. Per
    me si tratta di un’ulteriore banalizzazione dell’aborto. Se la soluzione
    chirurgica comporta per lo meno una serie di passaggi e
    il confronto-scontro diretto con il bambino da eliminare, con la
    pillola tutto è sistemato in pochi istanti e il concepito è proprio
    come se non esistesse. Tranne che nel finale. Quando sento la descrizione
    di come funziona la pillola mi sento male. La “donna”
    (mai la madre, per carità!) va all’ospedale ma non è ricoverata.
    Sta al day hospital. Prende la pillola e se ne va a casa. Poi torna
    in ospedale dopo un paio di giorni, le danno la seconda dose e
    nel giro di qualche ora, se tutto è andato “bene”, avviene l’espulsione
    del feto. A questo punto non resta che fare un ultimo
    controllo, ambulatoriale, a distanza di una decina di giorni. Più
    comodo di così! Certo, le statistiche dicono che alcune donne che
    hanno preso la RU 486 sono morte, che molte altre hanno avuto
    emorragie e infezioni, e che probabilmente questo metodo è
    molto più pericoloso, per le mamme, dell’intervento chirurgico,
    ma non bisogna spaccare il capello in quattro. Il progresso deve
    fare la sua strada: che l’aborto sia reso sempre più facile e più
    dolce! E poi vogliamo dirla tutta? Per il servizio sanitario nazionale
    gli aborti fatti con la RU 486 costano molto meno di quelli
    fatti con l’intervento chirurgico.
    Il principio attivo della pillola ha un nome che un po’ inquieta
    e un po’ fa ridere: mifepristone. Infatti in Francia la pillola si
    chiama Mifégyne e negli Usa Mifeprex. Fu un francese a scoprirlo
    nel 1982, a capo di una équipe del laboratorio Roussel-Uclaf
    (da cui la sigla RU). Questo ricercatore, il dottor Etienne-Emile
    Baulieu, tempo fa ha detto che gli sembra “incredibile” che l’Italia
    non abbia ancora dato il via libera alla sua pillola, ormai diffusa
    in tutto il mondo. “Avete già la legge 194 – ha detto il buon
    dottore – perché volete negarvi l’aborto dolce?”. Se fosse un parere
    disinteressato ci si potrebbe anche ragionare, ma considerato
    che in ballo ci sono un sacco di quattrini io sento ancora di
    più puzza di bruciato.
    La RU 486 vuol dire ancora più solitudine, ancora più abbandono,
    ancora minore libertà e sicurezza. E’ il trionfo dell’irresponsabilità,
    non solo femminile ma soprattutto maschile. E’ un
    altro passo verso l’uso consumistico del corpo e il silenzio delle
    coscienze. I paladini della 194 hanno sempre detto che la legge è
    nata per togliere la donna dallo stato di solitudine, ma la pillola
    rende l’aborto un fatto ancora più privato e solitario. La parola
    farmaco viene dal greco e vuol dire letteralmente veleno. La RU
    486 è un veleno per il corpo e per l’anima.
    In “Brave new world” Aldous Huxley immagina che in un mondo
    futuro, ma mica poi tanto, la felicità totale e generale sarà assicurata
    da un controllo altrettanto totale e generale sulle menti
    delle persone. Nel libro questa falsa felicità nata dalla manipolazione
    viene smascherata solo da un uomo che, nato da un errore
    del programma di contraccezione, è rimasto legato alla cultura
    del vecchio mondo: un superstite del tutto inadeguato ma proprio
    per questo ancora libero. Circondati come siamo da solerti
    manager della felicità, più o meno occulti, c’è da fare di tutto per
    restare assolutamente selvaggi.
    Mi accorgo di aver usato poco fa la parola anima. Forse qualcuno
    si sarà stupito. Chi parla più dell’anima, ormai? Io invece ne
    vorrei parlare perché proprio in questi giorni ho finito di leggere
    (ve l’ho detto che qui dove mi trovo abbiamo mezzi eccezionali)
    un libro straordinario intitolato “L’anima e il suo destino”. L’ha
    scritto un teologo, fra l’altro molto simpatico, che si chiama Vito
    Mancuso e che, cosa abbastanza rara per i teologi, scrive benissimo.
    In questo libro Mancuso sostiene una serie di tesi che mi affascinano
    e che aiutano ad aprire gli occhi su quel mondo della
    spiritualità che di solito è ignorato o presentato in termini assolutamente
    grotteschi, come un impasto di magia e superstizione.
    Mancuso sostiene che quando Giovanni scrive, all’inizio del
    quarto Vangelo, che “in principio era il Verbo”, sarebbe meglio
    tradurre letteralmente: “In principio era il Logos”. Perché Giovanni
    voleva dire proprio quello che ha detto: che in principio
    c’era il logos, ovvero la relazione. Dio, il principio ordinatore,
    fin dall’inizio dà ordine all’energia di cui tutta la materia, compreso
    l’uomo, è fatta, e lo fa attraverso una sapienza di cui la
    stessa natura è imbevuta e intessuta. “L’azione creatrice divina
    mediante il principio ordinatore (di cui una suprema manifestazione
    sono le leggi naturali ‘finemente sintonizzate’ di cui
    parla l’astrofisica) porta all’esistenza il nostro corpo vivente, una
    meraviglia fisica e biologica di miliardi di relazioni ordinate”.
    Ma il nostro essere contiene più energia di quanta ne sia contenuta
    nel solo corpo. Noi siamo corpo ma non solo, siamo anche
    animati. La differenza tra il totale della nostra energia e l’energia
    espressa come corpo è l’anima, precisamente è ciò che ci
    anima. E dire anima vuol dire libertà, perché siamo noi che decidiamo
    come ordinare o non ordinare quel quantum di energia
    che va oltre il corpo. Se lo ordiniamo verso il bene e verso la vita
    ci dà gioia, quiete, pace, serenità. Se lo ordiniamo, anzi lo disordiniamo,
    verso la rabbia, la violenza, la vendetta, l’odio e la
    morte ci dà solo dolore.
    L’anima, dice il teologo Mancuso, va lavorata. Questo surplus
    di energia va affinato sempre di più. Più lo affiniamo, nel senso
    dell’ordine, più diventa spirito, cioè energia libera in grado di
    padroneggiare se stessa. Per questo “l’uomo spirituale è l’uomo
    giunto a padroneggiare veramente se stesso, colui che è venuto a
    capo del problema di vivere”. Per questo “l’uomo spirituale è un
    uomo perfettamente unificato”. Nel linguaggio religioso un santo,
    per gli antichi greci un sapiente, per il pensiero indù un guru,
    ma la sostanza non cambia.
    La legge fondamentale che ci è stata consegnata dal trincio
    ordinatore, dice Mancuso, (legge divina ma anche perfettamente
    naturale, anzi “divina proprio in quanto perfettamente naturale,”)
    può essere espressa così: “Riproduci dentro e attorno
    a te la legge che ti ha condotto e che ti mantiene all’esistenza”.
    Questo è “l’imperativo categorico della vita spirituale, da sempre
    presente nell’umanità, consegnatole nell’istante stesso della
    sua creazione”.
    Con le citazioni dal libro di Vito Mancuso potrei continuare
    a lungo, ma ai fini del mio discorso credo di aver esposto l’essenziale.
    Il libro mi aiuta a far capire quello che in fondo volevo
    dire fin dall’inizio e che più mi sta a cuore. Io credo che
    con l’aborto, con questo atto di violenza, di rottura e di sopraffazione
    verso la vita nel suo stato primigenio e più innocente,
    verso la vita quando è proprio vita che sgorga con tutta la potenza
    e la meraviglia della creazione, introduciamo in noi stessi
    e nel mondo una carica esplosiva di male. Introduciamo
    un’ingiustizia così grande e così radicale che non può non riverberarsi
    su tutto e su tutti. Ogni violenza e ogni uccisione,
    comportando una carica crescente di dis-ordine rispetto al disegno
    complessivo, introduce ombra al posto della luce e male
    al posto del bene. Ma l’aborto lo fa nella misura più grande
    e più temibile. Sopprimendo volontariamente proprio al suo
    inizio una vita totalmente indifesa e tanto desiderosa di sgorgare,
    noi facciamo violenza a tutta la natura ed è una violenza
    devastante, è uno sfregio profondissimo, una ferita non rimarginabile
    e sempre più purulenta, dalla quale si diffondono germi
    di male che ci colonizzano sempre di più.
    Visione apocalittica? Non lo so. So soltanto che se penso alla
    meraviglia della vita, meraviglia che nel termine logos in quanto
    relazione trova forse la sua evidenza più convincente, e poi
    penso alla ferita micidiale dell’aborto, avverto un dolore infinito.
    Quando un bambino è frantumato in quel modo, quando una
    vita è oltraggiata in quel modo, in tutta quanta la realtà si apre
    uno squarcio che è un buco nero. La luce sparisce e c’è solo disperazione.
    Il dolore innocente e la sofferenza causata ai piccoli
    ha sempre questo effetto, e ha ragione il ministro Giuliano
    Amato quando dice che una riflessione sull’aborto deve indurci
    a pensare anche ai bambini che muoiono per fame e per sete,
    ai bambini maltrattai e sfruttati, ai bambini abusati. Ma mi
    sembra di poter dire che con l’aborto lo sfregio è ancora più cattivo,
    perché quel concepito, quel bambino, è quanto di più vicino
    ci sia al principio ordinatore stesso. E’ appena uscito dal
    “cantiere di Dio”, è uscito in quanto logos – relazione (di Dio con
    l’uomo, dell’uomo con la donna, del bambino stesso con i suoi
    genitori) - è appena uscito, in definitiva, come amore (l’amore è
    relazione!) e che cosa succede? Ecco che qualcuno lo uccide, interrompe
    ogni relazione con la violenza, con la morte. In questo
    senso l’aborto è blasfemo.
    Una rinascita, una nuova cultura ispirata alla vita e non alla
    morte, all’amore e non alla solitudine, può venire da uomini e
    donne con una visione religiosa dell’esistenza. Per religiosa non
    intendo dire che debbano necessariamente appartenere a una
    data religione. Uso la parola religione nel senso originario del
    verbo religare, unire insieme, legare. Una visione religiosa ti fa
    capire che non sei solo, che c’è qualcuno accanto a te, che ci sono
    relazioni ovunque, che nessuno può sussistere senza l’aiuto e l’apporto
    di altri, che il confronto non è sinonimo di pericolo ma di
    scambio, che ripiegarsi su se stessi è un male, che l’accoglienza
    dà la vera felicità perché riempie la vita di significato. Una visione
    religiosa fa capire che la vera consolazione non sta nelle cose
    che possediamo ma nell’essere e nella condivisione. Il cristianesimo
    ha dato all’amore il volto di un uomo in carne e ossa e il Dio
    dei cristiani è relazione nel senso più pieno perché il creatore si
    è messo in relazione con le creature donando suo figlio. Sotto questo
    aspetto la nostra civiltà è debitrice al cristianesimo di un dono
    di valore inestimabile e decisivo per il nostro carattere, per la
    nostra stessa identità. Ma chiunque condivida una visione religiosa
    della vita, nel senso più ampio e meno confessionale, può
    sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda. E mettersi a combattere
    contro la cultura della morte e del buio.
    Mancuso mi scuserà se lo saccheggio ancora un po’: “Proprio
    perché l’essere è relazione, è così importante l’amore. Tutto infatti
    si gioca sull’amore. Il senso dell’essere è la relazione, e l’amore
    è la relazione perfetta che genera a sua volta essere”. Se gli
    uomini e le donne fossero ancora capaci di pensare l’amore come
    forza creatrice e non soltanto come emozione e sentimento, la cultura
    della morte subirebbe un bel colpo e nel mondo ci sarebbe
    più luce. Parola mia. Di bambino mai nato.
    Aldo Maria Valli
    * * *
    Ho scritto queste pagine dopo una sorprendente concatenazione
    di eventi. Quando l’Onu ha deciso la moratoria sulla pena
    di morte ero a Gerusalemme per intervistare il cardinale Carlo
    Maria Martini. Appena vidi la notizia, mandai a Europa, il giornale
    con il quale collaboro, un articolo pieno di indignazione
    per la gioia politicamente corretta manifestata per la moratoria
    da quegli stessi settori culturali e politici che normalmente non
    perdono occasione per schierarsi contro la vita sostenendo l’aborto
    e l’eutanasia. Nell’articolo dicevo che il “nessuno tocchi
    Caino” va benissimo, ma è ipocrita se non ci ricordiamo anche
    di Abele. Nelle stesse ore, ma a mia insaputa, sul Foglio Giuliano
    Ferrara, mosso da sentimenti simili ai miei, lanciava l’idea
    della moratoria sull’aborto. Una sintonia totale, da me sottolineata
    poi con una lettera al Foglio, ma nata a distanza e senza
    esserci consultati. Negli stessi giorni mi è capitato anche di leggere
    il libro di Vito Mancuso “L’anima e il suo destino”, che secondo
    me è il contributo più illuminante che la teologia abbia
    dato negli ultimi decenni a un serio dibattito sulla natura dell’uomo
    e che, pagina dopo pagina, mi ha trasmesso una tale passione
    per la vita, e per ciò che siamo, da indurmi a riprendere
    in mano la penna (anzi la tastiera del computer) per dire qualcosa
    sul continuo oltraggio alla vita perpetrato con l’aborto nel
    silenzio generale e ormai nell’indifferenza. Come non bastassero
    queste connessioni, proprio mentre leggevo il suo libro, il professor
    Mancuso mi ha telefonato per chiedermi la disponibilità
    a realizzare un progetto con lui e poco dopo ha incominciato a
    collaborare con il Foglio.
    Da tanti anni avevo deciso di non parlare più di aborto, dopo
    aver constatato ripetutamente l’impossibilità di arrivare a un dialogo
    costruttivo con chi la pensa diversamente da me. In giro c’è
    già tanta violenza e sopraffazione che non volevo, con le mie parole,
    creare altri conflitti e polemiche. Era una forma di quietismo.
    Per le pagine che avete letto sono debitore soprattutto al congresso
    “The early human life” tenutosi in Vaticano dal 6 all’8 settembre
    2000 (in particolare agli interventi del professor Salvatore
    Mancuso, del padre Angelo Serra e dell’allora monsignor Carlo
    Caffarra), alla relazione su “Le prospettive della biopolitica”
    tenuta dal professor Francesco D’Agostino a Pisa il 21 ottobre
    2007 nell’ambito della quarantacinquesima Settimana sociale dei
    cattolici, al mio vecchio libro “La verità di carta. I giornali e l’aborto”
    (Edizioni Ares, 1986) e all’ancor più vecchia mia tesi di laurea
    in “Teoria e tecnica dell’informazione. Modelli culturali nei
    settimanali di massa in occasione dei referendum sul divorzio e
    l’aborto” (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, facoltà
    di Scienze politiche, anno accademico 1982-83) realizzata con il
    caro e mai dimenticato professor Angelo Narducci.
    Aldo Maria Valli
    “Al paradigma biopolitico
    che riduce il reale a dimensione
    insignificante si deve dire no”
    (F. D’Agostino, filosofo del diritto)
    (foto Corbis)

    (foto Corbis)



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