DA LEGGERE
Luca Doninelli –
Il Giornale martedì 29 gennaio 2008
Un film di Sean Penn racconta la storia tragica e vera di un ragazzo
che, dopo la laurea, abbandona la famiglia e si mette in viaggio per
«trovare» se stesso
Vado al cinema da solo, oggi - saranno vent'anni che non lo faccio -
perché Into the Wild di Sean Penn mi attira al di là e nonostante le
recensioni, le stelline o i quadratini sui giornali, i commenti così
compostamente «culturali» che lo accompagnano. Disturbano come sempre
la mitologia («mito americano», «mito della vita selvaggia», «mito
della forza e del coraggio fisico» ecc.), che è un modo come un altro
di non confrontarsi con niente.
Sean Penn, che per certi è solo un De Niro mal riuscito, è in realtà
il più anticulturale degli attori e dei cineasti, all'opposto del suo
presunto modello. È per questo che mi piace.Into the wild racconta la storia tragica e vera - tratta dal romanzo
di Jon Krakauer Nelle terre estreme (Corbaccio, pagg. 267, euro 16.60)
- di Chris McCandless, studente modello e lettore vorace, che dopo la
laurea decide di abbandonare la famiglia - che odia - per cercare un
rapporto solitario e totalizzante con la natura.
La sua preferenza per autori come Jack London, Lev Tolstoj e Henry
David Thoreau è un segno preciso, e già preoccupante, della sua
chiarezza d'idee - troppo chiare, quelle idee, come se un guasto
d'origine facesse crescere troppo la pianta per poi impedirle di
maturare.
Chris, che si ribattezza Alex Supertramp («supervagabondo»), ha in
mente una destinazione finale dei suoi viaggi: l'Alaska. Prima, però,
vuole prepararsi all'impresa, vincere le paure ataviche - quella
dell'acqua, per esempio -, fortificarsi nel fisico, e al tempo stesso
far perdere le proprie tracce, non soltanto ai genitori, ma alla
società intera.
I suoi scrittori di riferimento, sia pure in modi diversi, hanno un
punto in comune: l'opposizione tra natura e società. E devono perciò
tutti e tre qualcosa a Rousseau. La società - di cui gli sgangherati
genitori di Chris sono la concrezione estrema e maligna - ha un solo
scopo: quello di creare risposte finte alle domande dell'uomo. Perciò l'uomo, se vuole sapere veramente chi è, deve allontanarsi dalla
società e rifugiarsi nella natura.
L'Alaska è il luogo destinato di Chris perché lì, forse, è ancora
possibile una fuga. La società ha invaso la natura, perfino il Grand
Canyon è regolato come la City di Manhattan. Gli uomini buoni
finiscono in galera, oppure vivono di ricordi. La società li taglia
fuori come tanti rami secchi.
Chris ha la possibilità di vivere con alcune persone buone, ma non accetta di condividere la loro sorte di sconfitti. Ha ventitré anni, e splende in lui una giovinezza che non ammette sconfitte, una
giovinezza vittoriosa proprio perché giovinezza.
Inizia così lo splendido fallimento della sua spedizione in Alaska.
Nemmeno l'amore di una bella ragazza hippy lo ferma. Né l'amore né
tantomeno il sesso rispondono infatti alla domanda, all'incessante «I
want!, I want!» che urla dentro, come scriveva Saul Bellow. E allora
non ci si può fermare, non si può amare, non si può procreare per non
dare inizio a nuove catene di mostruosità e di mostri.
A dispetto di tutte le notizie orribili che apprendiamo sul loro
conto, i genitori di Chris ci appaiono attraverso l'occhio del
regista, che li guarda con pietà. I venti secondi in cui il padre
(William Hurt), uscito disperato di casa, cammina furiosamente fino
alla strada per poi sedersi lì, nel mezzo, sono forse la cosa più
bella del film. Lì, forse, questo sciocco borghese comincia a capire
la vera tragedia di suo figlio. La capisce perché la scopre dentro di
sé.
Thoreau, London, Tolstoj, il buon selvaggio, la fuga dalla società, il
contatto diretto con la natura sono tutte menzogne, tutti (al più)
pretesti, chiacchiere giustificative per dare un'apparenza discorsiva,
dialettica, etica a ciò che non conosce parola né discorso né morale,
a questa malattia cieca per la quale un individuo, perlopiù un
giovane, comincia a vedere il proprio futuro come un imbuto sempre più
stretto, e la vita come la lenta esecuzione di una condanna a morte.
La fuga di Chris ha questo di particolare, che è come tutte le altre:
come quelli che muoiono per droga.
Succede alzandosi una mattina, oppure assistendo per strada a un
fatterello in apparenza insignificante che fa da detonatore per una
bomba nascosta in noi chissà da quanto tempo.
Ma altre volte l'inizio si trova prima ancora, al tempo delle sciocche lacrime notturne infantili, o delle prime congetture su «cosa farò da grande».
La colpa non è della società né dei genitori. C'è chi, più avveduto, si tiene a
distanza da una voragine che c'è, dentro la vita, e chi non riesce a
evitarla.
Questa voragine non si spiega. Esiste, e basta. È quello scandalo di
cui tutta la storia dell'umanità ha parlato. Qual è l'origine del
male? Perché non esisterà mai un mondo perfetto? Perché il bene che
vogliamo fare ci si corrompe tra le mani? Imagine, cantava John
Lennon. Poveretto. Chiamatela società, chiamatela capitalismo,
chiamatela semplicemente peccato originale, che è la definizione meno
ipocrita e più concreta. È quella cosa lì.
Chris pensa di poter dominare la natura dell'Alaska. Ha un fucile, è
fisicamente fortissimo, ma come si fa a non sapere che in certi
periodi dell'anno gli animali sembrano scomparire, e che in quei
periodi un fucile non serve a niente?
La sua Alaska immaginaria va in frantumi sotto i colpi di quella reale, di cui gli manca la chiave di lettura: uccide un alce ma i vermi e le mosche glielo portano via,
poi, in preda alla fame, scambia una patata velenosa per una commestibile.
Il vero si rivela, alla fine, e come sempre non porta soltanto dolore.
La fine di Chris è quasi una guarigione.
Come Ivan Ilic' del racconto
di Tolstoj muore gridando «non c'è più la morte», così Chris prima
della fine fa in tempo ad annotare queste parole: «Non esiste felicità
se non è condivisa». La sua non è la morte di un testardo malato, ma
di un uomo sano.
Il Novecento e l'Ottocento si allontanano da noi, ma non abbastanza da toglierci di dosso una delle loro maledizioni: quella di essersi vergognati della verità e della realtà (ivi inclusa quella del male) al punto da sostituirle con un discorso pieno (psicologia, sociologia) di comprensione e di dubbio, da una strategia di addomesticamento.
La sorte di Chris appare come una specie di drammatica salvezza da
tutta questa menzogna. Alla fine, almeno l'io si salva. Il male dei
secoli è sconfitto.
Luca Doninelli –
Il Giornale martedì 29 gennaio 2008
Un film di Sean Penn racconta la storia tragica e vera di un ragazzo
che, dopo la laurea, abbandona la famiglia e si mette in viaggio per
«trovare» se stesso
Vado al cinema da solo, oggi - saranno vent'anni che non lo faccio -
perché Into the Wild di Sean Penn mi attira al di là e nonostante le
recensioni, le stelline o i quadratini sui giornali, i commenti così
compostamente «culturali» che lo accompagnano. Disturbano come sempre
la mitologia («mito americano», «mito della vita selvaggia», «mito
della forza e del coraggio fisico» ecc.), che è un modo come un altro
di non confrontarsi con niente.
Sean Penn, che per certi è solo un De Niro mal riuscito, è in realtà
il più anticulturale degli attori e dei cineasti, all'opposto del suo
presunto modello. È per questo che mi piace.Into the wild racconta la storia tragica e vera - tratta dal romanzo
di Jon Krakauer Nelle terre estreme (Corbaccio, pagg. 267, euro 16.60)
- di Chris McCandless, studente modello e lettore vorace, che dopo la
laurea decide di abbandonare la famiglia - che odia - per cercare un
rapporto solitario e totalizzante con la natura.
La sua preferenza per autori come Jack London, Lev Tolstoj e Henry
David Thoreau è un segno preciso, e già preoccupante, della sua
chiarezza d'idee - troppo chiare, quelle idee, come se un guasto
d'origine facesse crescere troppo la pianta per poi impedirle di
maturare.
Chris, che si ribattezza Alex Supertramp («supervagabondo»), ha in
mente una destinazione finale dei suoi viaggi: l'Alaska. Prima, però,
vuole prepararsi all'impresa, vincere le paure ataviche - quella
dell'acqua, per esempio -, fortificarsi nel fisico, e al tempo stesso
far perdere le proprie tracce, non soltanto ai genitori, ma alla
società intera.
I suoi scrittori di riferimento, sia pure in modi diversi, hanno un
punto in comune: l'opposizione tra natura e società. E devono perciò
tutti e tre qualcosa a Rousseau. La società - di cui gli sgangherati
genitori di Chris sono la concrezione estrema e maligna - ha un solo
scopo: quello di creare risposte finte alle domande dell'uomo. Perciò l'uomo, se vuole sapere veramente chi è, deve allontanarsi dalla
società e rifugiarsi nella natura.
L'Alaska è il luogo destinato di Chris perché lì, forse, è ancora
possibile una fuga. La società ha invaso la natura, perfino il Grand
Canyon è regolato come la City di Manhattan. Gli uomini buoni
finiscono in galera, oppure vivono di ricordi. La società li taglia
fuori come tanti rami secchi.
Chris ha la possibilità di vivere con alcune persone buone, ma non accetta di condividere la loro sorte di sconfitti. Ha ventitré anni, e splende in lui una giovinezza che non ammette sconfitte, una
giovinezza vittoriosa proprio perché giovinezza.
Inizia così lo splendido fallimento della sua spedizione in Alaska.
Nemmeno l'amore di una bella ragazza hippy lo ferma. Né l'amore né
tantomeno il sesso rispondono infatti alla domanda, all'incessante «I
want!, I want!» che urla dentro, come scriveva Saul Bellow. E allora
non ci si può fermare, non si può amare, non si può procreare per non
dare inizio a nuove catene di mostruosità e di mostri.
A dispetto di tutte le notizie orribili che apprendiamo sul loro
conto, i genitori di Chris ci appaiono attraverso l'occhio del
regista, che li guarda con pietà. I venti secondi in cui il padre
(William Hurt), uscito disperato di casa, cammina furiosamente fino
alla strada per poi sedersi lì, nel mezzo, sono forse la cosa più
bella del film. Lì, forse, questo sciocco borghese comincia a capire
la vera tragedia di suo figlio. La capisce perché la scopre dentro di
sé.
Thoreau, London, Tolstoj, il buon selvaggio, la fuga dalla società, il
contatto diretto con la natura sono tutte menzogne, tutti (al più)
pretesti, chiacchiere giustificative per dare un'apparenza discorsiva,
dialettica, etica a ciò che non conosce parola né discorso né morale,
a questa malattia cieca per la quale un individuo, perlopiù un
giovane, comincia a vedere il proprio futuro come un imbuto sempre più
stretto, e la vita come la lenta esecuzione di una condanna a morte.
La fuga di Chris ha questo di particolare, che è come tutte le altre:
come quelli che muoiono per droga.
Succede alzandosi una mattina, oppure assistendo per strada a un
fatterello in apparenza insignificante che fa da detonatore per una
bomba nascosta in noi chissà da quanto tempo.
Ma altre volte l'inizio si trova prima ancora, al tempo delle sciocche lacrime notturne infantili, o delle prime congetture su «cosa farò da grande».
La colpa non è della società né dei genitori. C'è chi, più avveduto, si tiene a
distanza da una voragine che c'è, dentro la vita, e chi non riesce a
evitarla.
Questa voragine non si spiega. Esiste, e basta. È quello scandalo di
cui tutta la storia dell'umanità ha parlato. Qual è l'origine del
male? Perché non esisterà mai un mondo perfetto? Perché il bene che
vogliamo fare ci si corrompe tra le mani? Imagine, cantava John
Lennon. Poveretto. Chiamatela società, chiamatela capitalismo,
chiamatela semplicemente peccato originale, che è la definizione meno
ipocrita e più concreta. È quella cosa lì.
Chris pensa di poter dominare la natura dell'Alaska. Ha un fucile, è
fisicamente fortissimo, ma come si fa a non sapere che in certi
periodi dell'anno gli animali sembrano scomparire, e che in quei
periodi un fucile non serve a niente?
La sua Alaska immaginaria va in frantumi sotto i colpi di quella reale, di cui gli manca la chiave di lettura: uccide un alce ma i vermi e le mosche glielo portano via,
poi, in preda alla fame, scambia una patata velenosa per una commestibile.
Il vero si rivela, alla fine, e come sempre non porta soltanto dolore.
La fine di Chris è quasi una guarigione.
Come Ivan Ilic' del racconto
di Tolstoj muore gridando «non c'è più la morte», così Chris prima
della fine fa in tempo ad annotare queste parole: «Non esiste felicità
se non è condivisa». La sua non è la morte di un testardo malato, ma
di un uomo sano.
Il Novecento e l'Ottocento si allontanano da noi, ma non abbastanza da toglierci di dosso una delle loro maledizioni: quella di essersi vergognati della verità e della realtà (ivi inclusa quella del male) al punto da sostituirle con un discorso pieno (psicologia, sociologia) di comprensione e di dubbio, da una strategia di addomesticamento.
La sorte di Chris appare come una specie di drammatica salvezza da
tutta questa menzogna. Alla fine, almeno l'io si salva. Il male dei
secoli è sconfitto.
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