di EZIO MAURO
La Repubblica 16 gennaio 2008
SARA' un giorno che ricorderemo negli anni, il giorno in cui il Papa non parlò all'Università italiana per la contestazione dei professori e la ribellione degli studenti. Una data spartiacque per i rapporti tra chi crede e chi non crede, tra la fede e la laicità, persino tra lo Stato e la Chiesa. Fino a ieri, questo era un Paese tollerante, dove la forte impronta religiosa, culturale, sociale e politica del cattolicesimo coesisteva con opinioni, pratiche, culture e fedi diverse, garantite dall'autonomia dello Stato repubblicano, secondo la regola della Costituzione.
Qualcosa si è rotto, drammaticamente, sotto gli occhi del mondo. Il Papa deve correggere la sua agenda e cambiare i suoi programmi, per non affrontare la contestazione annunciata di un'Università che lo aveva invitato con il rettore e il senato accademico, ma lo rifiutava con una parte importante di docenti e studenti. Il risultato è un cortocircuito culturale e politico d'impatto mondiale, che si può riassumere in poche parole: il Papa, che è anche vescovo di Roma, non può parlare all'Università della sua città, in questa Italia mediocre del 2008.
Questo risultato, che sa di censura, di rifiuto del dialogo e del confronto, è inaccettabile per un Paese democratico e per tutti coloro che credono nella libertà delle idee e della loro espressione. È tanto più inaccettabile che avvenga in un'Università, anzi nella più importante Università pubblica d'Italia, il luogo della ricerca, del confronto culturale e del sapere, un luogo che di per sé non deve avere barriere né pregiudizi, visto che non predica la Verità ma la scienza e la conoscenza. È come se la Sapienza rinunciasse alla sua missione e ai suoi doveri, chiudendosi in un rifiuto che è insieme un gesto di intolleranza e di paura.
A mio parere il giorno d'inaugurazione dell'anno accademico non era la data più propria per invitare Benedetto XVI a tenere la sua lectio magistralis; e il rettore si corresse, perché quella lezione non suonasse come un programma e un indirizzo per l'anno dell'Ateneo. Ma è ridicolo chiamare in causa la scienza, come se potesse risultare coartata, offesa o limitata dalle parole del Pontefice, che è anche uno dei grandi intellettuali europei della nostra epoca. Ed è improprio e pretestuoso nascondersi dietro a Galileo, come se i torti antichi della Chiesa nel confronto e nello scontro con la scienza si dovessero pagare oggi, proprio sulla porta d'ingresso della Sapienza, senza tener conto del cammino fatto in tanti anni, e delle parole ancora recenti di Papa Wojtyla.
Spedito l'invito, e accettato, l'incontro si doveva fare senz'altro. Per gli studenti sarebbe stata l'occasione particolare di ascoltare direttamente le parole di un Papa che ha passato anni dentro l'Università, e che resta professore anche da Pontefice. I docenti avrebbero avuto la possibilità di interloquire, di fissare e ribadire i punti fermi dell'autonomia dell'insegnamento e della libertà di ricerca, se lo ritenevano opportuno e ne sentivano il bisogno. Il risultato sarebbe stato un confronto di opinioni pubblico e trasparente, di cui non si capisce come si possa aver timore, soprattutto se si è persone di cultura e si deve testimoniare la civiltà italiana ed europea - di cui le Università sono parte costituente - e l'importanza di un confronto di idee, prima ancora di ogni specifico sapere e di ogni scientifica conoscenza.
L'impressione è appunto quella di un cortocircuito, dove il gesto ha prevalso sul pensiero, una malintesa idea di autonomia si è stravolta in divieto, la libertà della scienza ha cozzato malamente contro la libertà di parola e la laicità si è ridotta ad una cupa caricatura di se stessa, preoccupandosi di limitare e restringere il perimetro dell'espressione invece di ampliarlo, garantendolo per tutti. È chiaro che l'Università di Stato di un Paese democratico non può rifarsi al pensiero religioso come fonte primaria e costitutiva del suo sistema culturale ed educativo, e nessuno lo ha chiesto o minacciato. Ma è altrettanto evidente - o dovrebbe esserlo per tutti - che l'Università non è e non deve essere un luogo chiuso alla circolazione delle idee, delle esperienze e delle testimonianze, e non può diventare espressione di un pensiero che pensa solo se stesso, rifiutando persone, idee, contributi e confronti.
L'unica spiegazione di questa prevalenza dell'irrazionale in una delle sedi proprie della ragione è la confusione italiana di oggi. E dentro questa confusione, l'uso improprio che si fa del confronto tra fede e laicità, e tra credenti e non credenti. Uno dei tratti distintivi dell'epoca è il ritorno della religione nel pensiero pubblico, da cui l'avevamo in qualche modo creduta fuori, per consunzione da un lato, e dall'altro per il raggrumarsi di un civismo post-ideologico attorno a capisaldi diversi da quelli della fede. Questo ritorno è un dato che contraddistingue tutto l'Occidente. In Italia la parola della Chiesa, così innervata nella tradizione, non ha mai smesso di farsi sentire. Ma non c'è alcun dubbio che da quasi un decennio la Cei ha acquistato un protagonismo e una reattività che hanno fatto della Chiesa un prim'attore in tutte le vicende pubbliche: una Chiesa che è insieme parte (perché così dicono i numeri) e Verità assoluta, pulpito e piazza, autorità e gruppo di pressione e chiede di determinare come mai nel passato della Repubblica i comportamenti parlamentari delle personalità politiche cattoliche, pretendendo pubblica obbedienza al magistero.
Vorrei essere chiaro: la Chiesa ha il diritto (che per il Concilio Vaticano II è un dovere) di testimoniare la sua dottrina su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato. Ma queste prese di posizione sono destinate alla coscienza dei credenti e a chi riconosce alla Chiesa un'autorità con cui confrontarsi, mentre le scelte politiche spettano ai laici, credenti e non credenti. Nella Chiesa si fa invece strada la convinzione secondo cui i non credenti non riescono a dare da soli un senso morale all'esistenza, perché solo la promessa riconosciuta dell'eternità dà un senso alla vita terrena. Ne deriva una riduzione di dignità dell'interlocutore laico, quasi una riserva superiore di Verità esterna al libero gioco democratico, una sorta di obbligazione religiosa a fondamento delle leggi e delle scelte di un libero Stato.
La reazione a questa nuova "potestas" che vorrebbe coinvolgere nel cattivo relativismo la democrazia, perché si basa sulla libertà di coscienza di tutti i cittadini, e vede ogni fede come un valore relativo a chi la professa, viene sempre più da un laicismo di maniera, un compiacimento per l'ateismo come contraddittoria religione della modernità, un risentito anticlericalismo, che credevamo confinato alla stagione adolescenziale della nostra Repubblica. Sopra questa nuova rissosa incomunicabilità ostile, manca il tetto condiviso di una Repubblica serenamente laica, cosciente dei valori della tradizione e delle religioni, capace di difendere la sua autonomia e la sua libertà garantendo la libertà di tutti.
I partiti hanno una responsabilità primaria. La destra, incapace di formulare una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l'ha mai avuta, prende a prestito dal deposito di tradizione della Chiesa la parte scelta della precettistica, cercando così di procurare un'architrave ad un pensiero inesistente: col risultato di un'alleanza del tutto impropria tra la fede ultraterrena e una prassi politica ultramondana, paganeggiante e vagamente idolatra, alla ricerca entrambe della forza perduta. Per la sinistra, è ancora peggio. Non avendo coscienza di sé e della propria identità, incapace di difendere le ragioni che dal pensiero e dall'esperienza rinnovati potrebbero tranquillamente derivare, chiede soltanto - in ordine sparso di conversione, o almeno di gregarietà - di poter occupare uno strapuntino dentro il senso comune dominante, anche se è senso comune altrui: così, in un angolo, con la garanzia di non infastidire con il turbamento di un pensiero vagamente autonomo, per una volta netto, pronunciato in nome di una sinistra finalmente moderna, laica, europea e occidentale.
In mezzo si muovono felici gli atei devoti, a cui nessuno chiede di credere in Dio, di applicare anche a sé la convinzione che il cristianesimo non è una cultura, una filosofia, un galateo politico o sociale ma un "avvenimento", ma a cui nessuno impedisce di selezionare a piacere nel pensiero cristiano, nei Vangeli e persino nelle parole degli ultimi Papi i precetti, i divieti, le norme, rinunciando a tutto il resto: che è molto, che sarebbe importante, e che completerebbe l'immagine del Dio italiano, che così invece cammina monco, sanzionatorio e di parte, un Dio "cristianista", cioè ideologizzato e ridotto a strumento.
È il brutto panorama di un Paese in cui si cede troppo spesso alla tentazione sacrilega, come la chiamava Andreatta, di coinvolgere Dio nelle proprie scelte. Ma se questo è il quadro, ed è preoccupante, perché banalizzarlo nella caricatura dello scontro culturale della Sapienza, che si rivolge necessariamente nel contrario: una censura ad un Papa, nel nome malinteso di una laicità che invece dovrebbe ribellarsi ad ogni intolleranza, soprattutto nei confronti di fedi e credo religiosi? Non c'è alcun dubbio. Nell'Italia d'argilla del 2008, non è nel nome di un'idea forte che si è pensato di vietare al Papa la Sapienza, ma di un'idea malata. Una malattia che ha già fatto due vittime: la libertà di espressione, naturalmente, e la laicità: che già non godeva di buona salute, in questo sfortunato Paese.
(16 gennaio 2008)
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